Serious Devs: il caos allo specchio

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Che poi è questo, il punto.

Provare a trattare una questione ad alta complessità in modo organico. Sezionare il problema in più parti, connetterle tra loro, rendere il discorso un discorso fluido. Magari inserire qualche citazione. Quindi scrivere quella che può somigliare a una tesi, redigere la sua antitesi, elaborare una sintesi. E si tratterebbe di un compito relativamente modesto se non fosse che la questione è la sistematizzazione, o meglio un tentativo di sistematizzazione, del caos.

Come spesso accade nei casi in cui l’interrogativo appare insormontabile e/o atrocemente vasto è utile dunque procedere, almeno all’inizio, per istinto. Per coloro i quali l’istinto non è stato distribuito alla nascita, come il sottoscritto, è a quel punto molto più utile lavorare sulla memoria, e comprendere in quale frazione di tempo la domanda abbia avuto il suo principio; è in seguito consigliabile seguire i vari passi compiuti fino al tempo presente, ripercorrendo i propri anni all’indietro a caccia di molliche composte di materia cerebrale; infine, è strettamente indicato spalmare tutto lo sproloquio su un virtuale pezzo di carta, provando ad aggiungere una mollica a quelle seminate fino ad ora, e vedere semplicemente l’effetto che fa.

Dunque.

La questione deflagra in una notte di cui, più che ricordi, ho residui di ricordi. Ero più o meno io, un divano, il gatto e il film A Serious Man, diretto nel 2009 da Joel ed Ethan Coen, e visionato da me solo due anni più tardi. Il protagonista di questa pellicola è Larry Gopnik (Michael Stuhlbarg), professore universitario di fisica, un ordinario, tranquillo ed ebreo «uomo serio» che vive nella ancor più ordinaria e tranquilla suburbia di St. Louis Park, Minnesota. Il fatto, però, è che Larry sta attraversando un periodo a gradiente di entropia elevato: è in attesa di una cattedra all’Università del Midwest che sembra non arrivare mai, uno studente coreano cerca di corromperlo per raggiungere la sufficienza, la moglie Judith (Sari Lennick) si innamora di un altro uomo – il mellifluo Sy Ableman (Fred Melamed) – e gli domanda un get, ovvero un divorzio rituale ebraico, al fine di potersi risposare e vivere felice con la benedizione della comunità. Come se non bastasse, il figlio Danny (Aaron Wolff), in procinto di festeggiare il suo Bar mitzvah, fuma erba, e per acquistarla ruba i soldi alla sorella Sarah (Jessica McManus), che a sua volta li ha sfilati al padre per un futuro intervento di rinoplastica (Larry, ovviamente, è all’oscuro di tutto). Infine, il professore viene cacciato di casa, e condivide la stanza di un motel a ore con il fratello di Judith, Arthur (Richard Kind), uomo che viaggia tra disturbi psicotici e complesse, e forse geniali, teorie probabilistiche (condensate nel Mentaculus, una specie di mappa delle probabilità del mondo). Ah, inoltre una donna prende il sole nuda nel giardino dell’appartamento vicino a casa di Larry, visione che lo fa, letteralmente, svenire.

Insomma, un gran bel casino.

I Fratelli Coen si piazzano tra i più influenti cineasti della nostra epoca per essere stati nel novero dei pochi, ma non unici, autori che hanno tentato di ordinare questo sistema ad alta complessità sul grande (e piccolo) schermo. Non è un caso che A Serious Man, apice della narrazione su una realtà che si manifesta come pura contingenza, termini dove potrebbe tranquillamente iniziare: diagnosticando una malattia non meglio definita a Larry (che sembra aver appena risolto alcuni dei suoi problemi) e inquadrando un tornado che sta per spazzare via l’intera suburbia.

Ecco, quest’ultimo fotogramma – un ciclone inatteso piazzato in chiusura del film – è quello che mi ha fatto domandare, circa dieci anni fa, cosa mai avessi visto.

Ero abbastanza avvezzo alle storie narrate dai due fratelli, così come ai loro protagonisti (Marge Gunderson, Drugo Lebowsky, Ed Crane e altri), ma una riproposizione così annichilente – ed esaltante – di un universo caotico è stata inaspettata. I personaggi della lunga filmografia dei Coen sono infatti quasi tutti caratterizzati da un’innata difficoltà a trovare il proprio posto nel mondo, non perché privi di forza di volontà e/o strumenti adeguati, ma perché un posto nel mondo, fondamentalmente, non esiste. Le reazioni dei personaggi servono dunque a rendere tangibile un concetto altrimenti etereo, e le loro esistenze diventano la cartina tornasole di un universo randomico, casuale, ed eternamente incomprensibile (non è un caso che, all’inizio di A Serious Man, venga inserito un aforisma che sa di avvertimento: «Ricevi con semplicità tutto ciò che ti accade»).

L’aspetto singolare dell’opera del 2009, rispetto a quelle precedenti e posteriori dei due registi, è che tutto questo bolo entropico si rovescia sopra un individuo che non solo ha cercato nella vita di essere «un uomo serio», ma che confida nell’insegnamento della fisica, vive di fisica, e promuove l’indeterminazione fino alle sue radici più aleatorie, nonostante, nella propria esistenza extra-teorica, non riesca a venirne a patti. Prendere coscienza dell’indeterminazione che aleggia all’interno dell’universo microscopico, e provare a trasferirla a quello macroscopico, non è infatti compito semplice, e Joel ed Ethan Coen, facendo naufragare addosso al personaggio gli eventi più surreali, ce lo fanno intendere nella maniera più vivida.

L’impianto “fisico” del film si sviluppa attraverso due dialoghi, entrambi riguardanti lo studente coreano Clive Park (David Kang), a caccia di sufficienze. Dopo aver terminato una lezione sul paradosso del gatto di Schrödinger, Larry Gopnik trova infatti in ufficio l’alunno che, a metà tra un automa e un samurai, tenta di corrompere il professore con una bustarella. E il dialogo fa più o meno così:

Gopnik: «Le azioni hanno delle conseguenze».
Park: «Sì, spesso».
Gopnik: «No, sempre. Le azioni hanno sempre delle conseguenze. In questo ufficio le azioni hanno delle conseguenze. […] Io so interpretare, Clive, sapevo cosa volevi che io capissi».
Park: «Pura sensazio, signore».
Gopnik: «Pura sensazio, signore?»
Park: «Pura sensazione, signore. Molto incerta».

Questo scambio riproduce il primo muro di gomma contro cui Larry va a scontrarsi, e che sottende l’indeterminazione a carattere crescente che avvolgerà la vita del professore di fisica, innestando quella «rosa di causali», come direbbe Carlo Emilio Gadda, che, soffiatagli «addosso a molinello», non può che condurre verso una profonda «depressione ciclonica».

Il dialogo sopracitato ha dunque una diretta corrispondenza con il mondo fisico, e, prima ancora di arrivare al gatto vivo o morto, è utile metterla brevemente a punto. Riguarda il principio di indeterminazione, elaborato da Werner Heisenberg nel 1927 (illustrato alla lavagna, qualche scena dopo, dallo stesso professore, il quale afferma che, in base a questo principio, semplicemente «non si può sapere ciò che accade»). La teoria ci dice che non è possibile misurare contemporaneamente e con precisione le proprietà che definiscono lo stato di una particella elementare (massa e velocità). Se ad esempio misurassimo con precisione assoluta la posizione (massa) ci troveremmo ad avere massima incertezza sulla velocità, perché, sparando un fascio di luce sulla particella, cambieremmo il suo stato di moto, portando la luce con sé energia e impulso. Da un punto di vista concettuale, dunque, il principio di indeterminazione ci dice che l’osservatore non può mai essere considerato un semplice spettatore, ma che il suo intervento provoca un effetto, e dunque un’indeterminazione che non si può eliminare Il concetto è stato drammatizzato in maniera puntuale da Michael Frayn, nell’opera teatrale Copenaghen (1998). Il drammaturgo britannico si immagina infatti un ipotetico dialogo post-mortem tra Niels Bohr e Werner Heisenberg, mediato dalla presenza fondamentale di Margrethe Nørlund, moglie del primo. L’opera, incentrata sul dibattito circa l’utilizzo dell’energia nucleare a fini bellici (e le questioni etiche implicate in questa scelta) è in realtà uno spaccato sull’interpretazione di Copenaghen, quella scuola di pensiero che, inaugurata da Niels Bohr e dal suo principio di complementarità (secondo il quale «gli aspetti corpuscolare e ondulatorio di un fenomeno fisico non si manifestano mai simultaneamente, ma ogni esperimento che permetta di osservare l’uno impedisce di osservare l’altro») e canonizzata da Werner Heisenberg, introduce la questione della realtà quantistica indeterminata e probabilistica nella fisica.

Il dialogo è, in questo passaggio dell’opera teatrale, un monologo, e a parlare è Heisenberg.

«Ora, Bohr è un elettrone. Va errando per la città da qualche parte, nel buio, non si sa dove. È qui, è là, dovunque e nessun luogo. Su a Faelled Park, giù a Carlsberg. Davanti al Municipio, fuori vicino al porto. Io sono un fotone. Un quanto di luce. Vengo spedito nel buio a cercare Bohr. E ci riesco, perché riesco a entrare in collisione con lui… Ma che cosa è successo? Guardate – lui è stato rallentato, è stato deviato! Non fa più esattamente quello che faceva così convulsamente quando l’ho incrociato!»

Poste queste considerazioni, condensate in A Serious Man in poche scene taglienti (fatte e non dette, come solo la cinematografia migliore sa fare), i Fratelli Coen alzano ulteriormente l’asticella, applicando all’interpretazione di Copenaghen una delle critiche più eleganti che sia mai stata partorita, ovvero il gatto di Schrödinger. A darci il la è di nuovo un diverbio sul voto di Clive Park, questa volta però verificatosi con il padre dello studente, il quale viene a reclamare direttamente a casa di Larry Gopnik la sufficienza, minacciando di denunciarlo per diffamazione.

Dunque, Larry, allo stesso tempo, ha accettato e non accettato i soldi.

Il gatto di Schrödinger è un esperimento mentale elaborato dal fisico austriaco Erwin Schrödinger, che si domanda: se poniamo, come fa il principio di indeterminazione, che lo stato quantistico resti indeterminato fino a che non viene osservato, cosa accadrà inserendo dentro una scatola chiusa un gatto, una fiala di cianuro, un contatore geiger per misurare la radioattività e un isotopo radioattivo? L’isotopo potrà decadere, e dunque rilasciare radiazioni che attivino il contatore che apre la fiala di cianuro che avvelena il gatto, ma resterà in uno stato di coesistenza di due possibilità antitetiche (decadimento o no) finché l’osservatore non aprirà la scatola per determinarlo. A essere indeterminato, dunque, non è solo il singolo isotopo, ma tutto il sistema, fino alla sua manifestazione più tangibile: il gatto, che è vivo e morto allo stesso tempo, contraddicendo quello che è il senso comune.

La risposta dei Coen è «Accetti il mistero», e in questo modo i cineasti non fanno che soffiare sul vento probabilistico e indeterminato fino a ingigantirlo, provocarlo, farlo roteare e scagliarlo contro l’intera St. Louis Park, nella scena che chiude il lungometraggio. 

Il mondo descritto in A Serious Man delinea dunque un crollo più profondo di quello di una singola provincia americana. È la storia dello sgretolamento dell’hic et nunc, del trapasso dentro quello che i fisici chiamano il quantum momentum, ovvero un periodo storico ad altissima entropia, dello sbriciolamento delle grandi metanarrazioni che, come sottolinea Gianluca Didino in Essere senza casa, ci traghettano da un’epoca post- a una iper-moderna.

Trattando nel suo saggio de La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere del filosofo Jean-François Lyotard, Didino ci ricorda che «per il filosofo francese, la condizione postmoderna era definita dal venir meno di grandi racconti collettivi come la religione o la patria, le metanarrazioni appunto, sostituiti dai molti saperi introdotti dalla crescente frantumazione e specializzazione operata sul linguaggio dalla tecnica».

In un’epoca iperinformata e ipermediata come la nostra, dunque, il discorso di Lyotard si amplifica e ramifica in una rete che Didino definisce di «micronarrazioni», ovvero racconti non più collettivi ma personalissimi, intrisi di saperi tanto specialistici da essere inintelligibili, e nei quali ognuno, fondamentalmente, finisce a parlare con se stesso. Questo soliloquio, naturalmente, ha delle conseguenze.

Secondo quanto afferma l’autore e divulgatore inglese Will Stor in The Science of Storytelling, «sono le storie a renderci umani» perché noi «facciamo quotidianamente esperienza di storie. Il cervello crea un mondo nel quale possiamo vivere e lo popola di alleati e nemici. Trasforma il caos e la desolazione della realtà in una semplice storia», e tutte queste narrazioni vanno a costituire «la trama della nostra vita». L’interpretazione dell’esistenza, così come della collettività, in forma di storia viene ripresa anche dallo storico e saggista israeliano Yuval Noah Harari nelle 21 Lezioni per il XXI secolo, quando sostiene che «la fiction è alla base della cooperazione tra persone».

Un periodo storico, il nostro, infinitamente entropico, sparato verso il caos più assoluto.

E se così non fosse? E se ci sbagliassimo?

E se la vita di Larry Gopnik non fosse quella gromma di mogli infedeli e studenti psicolabili e figli annoiati e carriere in disgrazia, ma una semplice equazione? Se gli eventi che turbinano attorno la vita del professore di fisica potessero essere individuati, rintracciati, messi in ordine, uno dopo l’altro? Se il caos non fosse altro che un calcolo particolarmente elaborato che ancora non riusciamo a completare?

Se potessimo dare, anche solo per un istante, una sbirciata alla sceneggiatura dei Fratelli Coen ci renderemmo infatti conto che, quello che è percepito e sentito come caos, è in realtà una semplice somma di eventi, una serie di ostacoli che il protagonista sta affrontando e che, nonostante non conducano a un’epifania intesa nel senso più classico del termine, hanno una connaturata consequenzialità. Judith lascia Larry per Sy, dunque Larry va a vivere in un motel. Oppure: Danny, figlio di Larry, ascolta musica in classe, e dentro la custodia del registratore tiene i soldi per ripagare i debiti al suo “spacciatore”, il registratore gli viene sequestrato dal professore, dunque il ragazzo con cui aveva un debito lo segue per picchiarlo.

Causa-Effetto.

Ogni scrittore, per quanto possa imitare, e possa aver imitato, il caos, è sempre costretto a rispettare infatti una intrinseca consequenzialità. Nonostante, come afferma Didino, «tutti i grandi romanzi di quello che potremmo chiamare il canone letterario della nostra epoca funzionano come un accumulo di narrazioni che si sottraggono continuamente alla pretesa di procedere in maniera lineare» è pur vero che i personaggi che li popolano avanzano tramite cause ed effetti, stimoli, particolare che fa degli scrittori dei minimi dèi deterministi che giocano con imitazioni di persone (o esseri immaginari) in una camera che è il loro stesso cervello.

Il tema è stato brillantemente rappresentato in una serie uscita a marzo per Hulu, Devs, per la regia e sceneggiatura di Alex Garland (autore del romanzo The Beach, sceneggiatore fidato di Danny Boyle in 28 giorni dopo e Sunshine, anche regista in Ex Machina e Annientamento). La miniserie è ambientata a San Francisco in un futuro prossimo, nello specifico all’interno dell’azienda tech Amaya, che ha al suo centro, oltre alla riproduzione oversize di una bambina che somiglia al Colosso di Rodi, un centro di ricerca segreto che si chiama, per l’appunto, Devs. Questo centro è circondato da una foresta, per entrarci bisogna attraversare una gabbia di Faraday e al suo cuore si trova un computer quantistico particolarmente cazzuto.

Ora.

Il CEO di Amaya è Forest (Nick Offerman), un santone new age il cui obiettivo è, molto semplicemente, stendere su un unico piano narrativo tutta la storia dell’universo.

L’equazione, anche qui, è elementare.

Partendo dal presupposto che ogni sistema, in natura, funziona tramite una causa e un effetto (il sasso rotola, il sasso si ferma, la pianta riceve il sole, la pianta cresce, e così via per altri n esempi), l’idea è che anche noi, quasi certamente, siamo esseri che rispondono a stimoli, stimolando a nostra volta. Questa causalità renderebbe il feticcio della libertà di scelta, la percezione tutta antropocentrica di dominio sul destino, un’abilità che trascende decisamente le leggi della natura e che dunque si presenta, a un’analisi più accurata, come pura invenzione. 

Molto esemplificativo, per attaccare subito alla gola il tema, è il discorso che avviene tra Katie (Alison Pill), braccio destro di Forest, e Lily Chan (Sonoya Mizuno), ragazza alla ricerca della verità sui segreti di Devs, connessa a doppio filo all’inaspettata e sospettosa morte del ragazzo di lei, Sergei (Karl Glusman).

Il fatto che sia ipotizzabile declinare il passato, presente e (anche) futuro in una narrazione unica non è un’idea nuova, e venne elaborata per la prima volta nel 1814 dal matematico e fisico francese Pierre Laplace, il quale, non avendo computer quantistici sottomano, concretò questa supposizione nella figura di un demone, da cui il nome “Demone di Laplace”. Lo studioso affermò che, qualora fosse mai esistito un essere dotato di infinite conoscenze del mondo fisico, in grado di osservare tutte le interazioni reciproche tra tutte le particelle dell’universo, beh, quell’essere avrebbe potuto stendere il passato su un foglio di carta, e, progredendo di causa in effetto, prevedere il futuro.

«Possiamo considerare lo stato attuale dell’universo come l’effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un intelletto che a un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, esso racchiuderebbe in un’unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell’universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto e il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi».

Ragionandoci su, siamo esseri particolarmente influenzati dagli eventi che ci gravitano attorno – la città in cui si nasce, il nucleo familiare dove si cresce, l’ambiente prima scolastico e dopo lavorativo in cui ci si sviluppa, i social da cui si ricevono informazioni – e dunque, bisogna ammetterlo, l’idea che tutto sia determinato (e non predeterminato, lì entrerebbe in gioco il Fato o Dio o qualsiasi altro essere onnisciente), è altamente convincente. Il futuro, in questo modo, sarebbe una semplice somma delle cause ed effetti che ancora devono avvenire, ma comunque prevedibili con esattezza matematica, date le cause ed effetti che sono già avvenuti.

A questo punto, il mio personale confutatore interiore potrebbe rispondere: «Vero, eh, per carità, nulla da dire. Solo che io qualcosa ieri l’ho scelta: cioè, dovevo andare nel posto X e invece, guarda un po’, ho cambiato idea e ho deciso andare verso Y. E ora, come la metti?». A quel punto io potrei ribattere che l’idea di una risposta contraria a quella canonica non è in alcun modo una confutazione al determinismo, ma semplicemente una sua manifestazione più sottile, essendo frutto, come tante altre risposte, di esperienze personali, valutazioni ambientali, stimoli fisici, che conducono il corpo a compiere un gesto che altrimenti non avrebbe compiuto o, meglio, l’unico gesto che potrebbe compiere. Dunque, il mio confutatore interiore potrebbe ribattere o lasciare il discorso terminare lì, per evitare di ammorbarci vicendevolmente.

La tesi per cui non siamo che il frutto succoso di una risposta a stimoli è stata materia di dibattito anche nel campo delle neuroscienze. Il più celebre sostenitore di questa deriva deterministica nel settore è Daniel Dennet, filosofo, logico e psicologo statunitense, che, fin dagli anni Ottanta, ha cercato di «spiegare come un mondo senz’anima abbia potuto dare vita a un mondo con un’anima». Dennet è un materialista che ha voluto comprendere come fosse possibile che ciò che compare, attraverso l’osservazione empirica, come tessuto cerebrale, venga percepito dall’esser umano, internamente, come coscienza, descritta dallo stesso Dennet come «il prodotto di un grande numero di programmi che operano in maniera stratificata sull’hardware del cervello».

Il libero arbitrio, secondo quest’ottica causale, sarebbe dunque solamente un’invenzione, l’esito di una ricostruzione a posteriori compiuta dagli individui per il proprio esclusivo usufrutto, una sorta di narrazione al contrario dove le azioni vengono giustificate dopo che sono state compiute, e la narrazione serve a tramutare gli stimoli a cui abbiamo automaticamente risposto in scelte. Ci possiamo così raccontare che Larry Gopnik ha scelto di negare la sufficienza allo studente sudcoreano, poi ha scelto di parlare con Judith e Sy del get e poi ha scelto di andare dalla vicina di casa per tentare un penoso approccio. Possiamo farlo, certo, ma il fatto è che, come afferma Katie, «la causa precede l’effetto. L’effetto conduce a una causa. Il futuro è fisso esattamente nello stesso modo in cui lo è il passato. I binari sono reali».

Nell’universo di Devs, dunque, ogni azione è determinata fin quasi al paradosso. È infatti impossibile deviare dal percorso che il computer quantistico ha calcolato per noi. «Anche il fatto di vedere un filmato del nostro futuro è determinato dallo stato dell’universo» afferma Ben Lennertz, assistente professore di filosofia presso la Colgate University. «Se anche una persona stesse per incrociare le braccia, ma poi le venisse mostrato in un video ciò che sta per fare, non avverrebbe comunque un miracolo non deterministico che ci permetterebbe di deviare il percorso. La visione del video e la reazione delle persone sono parte della progressione». Dunque, il computer avrebbe già previsto le nostre reazioni e tutto sarebbe di nuovo determinato. «Noi siamo nella scatola» afferma Stewart, un altro dei developers di Devs. «La scatola contiene tutto e dentro la scatola c’è un’altra scatola. Ad infinitum, ad nauseam».

I programmatori, infatti, anche conoscendo il futuro, non possono fare a meno di ripeterlo (anche nel giro di pochi secondi), esperienza che può confutare il determinismo più puro, o confermarlo nella sua più cruda versione. Lyndon, il più giovane dei developers, si domanda a proposito: «Perché non voglio conoscere il futuro? Non è poi così strano. Finché ho l’illusione del libero arbitrio, ho l’illusione del libero arbitrio».

Questa posizione si rifà alla teoria dell’Illusionismo, impianto teorico sostenuto anche da Ben Smilansky, professore di filosofia all’università di Haifa, secondo cui il libero arbitrio è una narrazione indispensabile per non smettere di cooperare, così come continuare a sentirci responsabili delle nostre azioni, positive o negative che siano.

Il tentativo di Forest di ricostruire la storia dell’universo, passata, presente e futura, di tracciare una specie di gigantesca geografia del Mentaculus che Arthur disegna in A Serious Man ha dunque delle conseguenze, che, oltre a negare il libero arbitrio, possono condurre a un senso di profondo annichilimento. «L’universo era giustificato, l’universo usurpò bruscamente le dimensioni illimitate della speranza» dice Jorge Luis Borges in La Biblioteca di Babele, uno dei racconti più celebri della raccolta Finzioni, quando i bibliotecari scoprono che dei testi contenuti in questa biblioteca universale «non esistono due copie» e, dunque, contengono tutto lo scibile umano e non. 

Una delle reazioni più dirette al determinismo può essere la sensazione palpabile di sentirsi svuotati di qualcosa che pensavamo esserci e invece non c’è: la coscienza. Approdare a questa considerazione è il primo passo per entrare in quella «stanza chiusa» citata da Rust Cohle in True Detective nella quale siamo condannati a sognare «il sogno di essere una persona», coscienti che, «alla fine del sogno […] c’è un mostro».

La citazione, non a caso, è estrapolata dal mondo ultranichilista di Thomas Ligotti.

Autore di spicco del genere weird e degno erede dei più grandi autori novecenteschi di genere, Thomas Ligotti è lo scrittore per antonomasia che è stato capace di intercettare, nel modo più vivido e cupo, il determinismo che ribolle nelle viscere dell’esistenza. Nel saggio La cospirazione contro la razza umana l’autore americano sviluppa numerose teorie a favore di un «segreto troppo terribile da conoscere» che, se svelato, porterebbe a sgretolare tutte le nostre sicurezze, tra cui la «certezza di essere o meno delle marionette umane».

Thomas Ligotti per definire l’origine di questa finzione si rifà al manifesto nichilista del filoso norvegese Peter Wessel Zappfe, L’Ultimo Messia. In questo breve saggio, il filosofo norvegese percepisce come autentica tragedia dell’esistenza umana il fatto di aver acquisito una «maledetta eccedenza di coscienza», descritta come «una violazione della vita, un paradosso biologico, un abominio, un’assurdità, un’esagerazione di natura disastrosa. È la vita che oltrepassa il suo scopo, e lo fa a pezzi». Il punto di partenza di Zappfe, dunque, non è tanto come sia nata la coscienza, ma come questa vada limitata perché, come sostiene anche Ligotti, «a lungo andare si dimostrerebbe fatale per gli esseri umani», perché rivelerebbe tragicamente la nostra natura di «irrealtà con le gambe». L’unica soluzione resta dunque «limitare artificialmente la capacità della coscienza» che, per Peter Wessel Zappfe, può avvenire tramite quattro stratagemmi: Isolamento («Isoliamo i fatti terribili dell’essere vivi, relegandoli in un remoto comparto della nostra mente»); Ancoraggio («Per stabilizzare le nostre vite nelle acque tempestose del caos, cospiriamo per ancorarle in verità metafisiche e istituzionalizzate: Dio, Moralità, Legge Naturale, Patria, Famiglia); Distrazione («Il metodo più efficace per agevolare la cospirazione è l’impegno continuo, e chiede soltanto che le persone non perdano di vista l’obiettivo: i loro televisori, la politica estera, i loro progetti scientifici, le loro carriere, il loro posto in società o nell’universo»); Sublimazione (riciclare «gli aspetti della vita più penosi e snervanti in opere dove i peggiori destini dell’umanità vengono presentati sotto forma di intrattenimento estraneo e stilizzazione», fuggendo così dalla nostra sofferenza attraverso una «simulazione artefatta»). La coscienza depotenziata ci condurrebbe così al paradosso di «doverci sforzare a vivere, perché non possiamo credere di essere fatti solo per sopravvivere, riprodurci e morire».

Dunque.

La coppia nichilista Ligotti-Zappfe potrebbe essere considerata il capolinea di un viaggio che, partito dall’oceano dell’entropia, passando per l’indeterminazione e i computer quantistici, si è andato a schiantare contro gli scogli aguzzi dell’ultranichilismo deterministico.

Il fatto è che possiamo fare ancora un passo in più.

Per riuscire in questa – forse utile forse non – conclusione ci accosteremo nuovamente a Devs, intercettando però questa volta la seconda teoria che sottende la serie, in aperto contrasto con quella promulgata con fanatismo da Forest: il multiverso.

Questa seconda possibilità compare a piccole dosi nelle prime puntate, per poi diventare centrale nell’episodio numero cinque. La prima volta che appare è al centro di un dialogo tra Sergei, il ragazzo di Lily Chan che vuole essere assunto in Devs, e Forest. Sergei sta cercando di dimostrare al CEO come, con l’aiuto della sua équipe, abbia elaborato una simulazione in grado di prevedere il comportamento di un batterio a distanza di svariati secondi. All’inizio l’esperimento riesce, poi però, con lo scorrere del tempo, le probabilità di moto del batterio incrementano in modo esponenziale, e la proiezione si perde. A questo punto Forest domanda per quale ragione l’esperimento non abbia funzionato, e Sergei risponde che ci sono due possibilità: o in un altro universo, ma non questo, lui è riuscito a prevedere il movimento del batterio; oppure, la macchina non è abbastanza potente. Forest a quel punto risponde che non è un «fan dei multiversi» e la conversazione si chiude più o meno così.

Questa seconda via, all’inizio abbastanza isolata, viene ripresa con vigore quando Lyndon, il ragazzetto geniale che ragiona sull’illusione del libero arbitrio, sottopone il computer quantistico a calcoli basati sui multiversi, riuscendo in questo modo, per la prima volta nella storia del centro di ricerca, ad avere un suono nitido proveniente dal passato (in questo specifico caso, la voce di Gesù Cristo sulla croce). Forest, scoperto l’esperimento, caccia Lyndon da Devs: per il CEO, infatti, applicare questo approccio vuol dire non ragionare più su questo universo ma su un altro, con la diretta conseguenza che la voce di Gesù Cristo che ci troviamo ad ascoltare non appartenga al nostro Gesù Cristo, ma a uno dei tanti Gesù di uno dei miliardi di universi altri.

Teoria ideata nel 1957 dal giovane Huge Everett III nella sua tesi di laurea (e ripudiata dal mentore del professore del ragazzo, ovvero un certo Werner Heisenberg), il multiverso, o l’interpretazione a più mondi, consiste nell’intuizione che il collasso della funzione d’onda (ovvero l’effetto del principio di complementarità, per cui l’osservazione di un fotone, aspetto corpuscolare, provoca il collasso dell’onda, aspetto ondulatorio, e dunque non si possono osservare i due nello stesso istante) era, come illustra il giornalista scientifico Roberto Paura, «un artificio, un’invenzione dei fisici per spiegare perché, nel mondo reale, non assistiamo alla complementarità anche nei sistemi macroscopici come i gatti. Se abolissimo il collasso, dovremmo ammettere che tutte le probabilità espresse dalla funzione d’onda sono ugualmente reali in altri universi». L’approccio, ripudiato per molto tempo dall’intellighenzia fisica del secondo Novecento, venne poi riesumato – e affinato – anni dopo, dando a Huge Everett III un’istantanea fama su scala planetaria. Everett III aveva infatti inizialmente elaborato la possibilità della «divisione della realtà», ovvero un sistema secondo cui ogni osservazione compiuta su un fenomeno quantistico non produrrebbe il collasso della funzione d’onda, ma la divisione dell’universo in due varianti. Questa è la visione che sottende il finale (intenso ma discutibile) di Devs, quando Lily, compiendo quella che appare come una scelta, apre un altro universo e fa saltare le previsioni del computer quantistico. Ma Everett III è andato oltre. «Aveva chiarito che la sua teoria prevede l’esistenza di innumerevoli “ramificazioni” della realtà: l’osservazione di un fenomeno non determina la “morte” di tutti i rami tranne uno (per esempio tutte le diramazioni in cui il gatto nella scatola è morto anziché vivo), ma la loro contemporanea esistenza in altri universi». Si verifica in questo modo la presenza simultanea di tutti i risultati di un esperimento, l’esistenza nel fascio di luce di tutti i fotoni calcolabili e dunque, a livello macroscopico, la contemporanea esistenza di tutti i mondi possibili.

David Deutsch, professore di fisica a Oxford e fervente sostenitore del multiverso, esemplifica così: «Ogni volta che osserviamo qualcosa – uno strumento scientifico, una galassia o un essere umano – in realtà guardiamo dalla prospettiva di un solo universo un oggetto più grande che si estende anche in altri universi. In alcuni di questi, l’oggetto ha esattamente lo stesso aspetto che ha per noi, in altri appare diverso o è del tutto assente. Quella che per un osservatore è una coppia sposata, in realtà è solo un frammento di una vasta entità che comprende molti esemplari fungibili della coppia, insieme ad altri esemplari dei due che hanno divorziato e ad altri che non si sono mai sposati».

La teoria ha implicazioni quasi ascetiche, perché sottintenderebbe l’immortalità. Se morissimo, secondo questa interpretazione, cesseremmo di vivere in un mondo, ma continueremmo a respirare negli altri. Da qui l’esperimento mentale del suicidio quantistico, elaborato da Hans Moravec, poi ripreso e sviluppato dal fisico e matematico Max Tegmark, per testare la possibilità dell’esistenza di vari universi. «Se prendiamo una pistola che spara un proiettile solo quando – come nella scatola del gatto di Schrödinger – un isotopo in sovrapposizione quantistica effettua un decadimento radioattivo, mentre nell’interpretazione di Copenaghen l’interazione tra l’isotopo e l’aspirante suicida che preme il grilletto provoca il collasso della funzione d’onda, per cui la pistola ha il 50% di possibilità di sparare un colpo, nell’interpretazione a molti mondi potremmo premere il grilletto quante volte vogliamo, ma non moriremmo mai. In molti universi, qualcuno scoprirebbe certo il nostro cadavere, vittima di questa macabra versione quantistica della roulette russa; ma continueremmo a vivere nelle altre ramificazioni dell’universo».

Questo ci traghetta verso un’ultima riflessione.

Osservarci come esseri composti di una somma di tanti universi differenti, e pensare che la nostra esistenza sia il frutto di miliardi di azioni che stanno accadendo in questo esatto istante, ha l’aria di essere una strana e quasi paradossale trasposizione del libero arbitrio in chiave deterministica. Chiarisco: come essere viventi siamo in effetti una risposta a degli stimoli, e dunque l’ipotesi di una meccanica deterministica alle fondamenta delle nostre vite è, quantomeno, molto plausibile. Il fatto è che, secondo l’interpretazione a più mondi, noi in realtà stiamo compiendo miliardi di scelte in miliardi di altri universi differenti da questo. Il nostro libero arbitrio, negato dunque in ognuno di questi mondi, si potrebbe materializzare solo come somma delle tante esistenze che abitiamo negli altri universi, anch’essi deterministici. Il che, alla fine dei giochi, ci renderebbe capaci di compiere tutte le scelte della nostra vita. Potrebbe aiutare, per figurare l’idea, pensare la nostra esistenza non come una linea ma come una somma di strati, stesi l’uno sull’altro a formare un uomo che vive, ogni istante, miliardi di vite nello stesso momento.

L’ ipotesi è ancora da sottoporre al mio personale confutatore interiore.