WEIRD: termine intraducibile in italiano. Strano, perturbante, alieno. Compresenza di oggetti ontologicamente differenti, giustapposizione surrealista. Vedi anche: Unheimlich, Mark Fisher.
IPERMODERNISMO: epoca che segue il post-modernismo. Ripresa dei temi modernisti a velocità impazzita, esplosione di eventi weird, il “ritorno del Reale” dell’11 settembre. Vedi anche: Chthulu/Antro/Capitalo-cene.
DEMONDIFICAZIONE: in Heidegger, mondo, è un’unità di senso costruita dall’umano gettato sulla terra; la sua rottura mostra una realtà più autentica. Vedi anche: Gnosticismo, Philip Dick.
ESSERE SENZA CASA: a causa di migrazioni o crisi abitative. In senso metaforico: incapacità di raccontare storie che fissino un mondo. In senso meno metaforico: continua esposizione a minacce weird: catastrofi climatiche, terrorismo, pandemie.
Se qualcuno, in una qualche università strampalata, dovesse dare un esame su Essere senza casa, il saggio di Gianluca Didino uscito lo scorso mese per minimum fax, questi sarebbero i primi appunti che gli passerei. Ma oltre a riassumere l’impianto teorico, per rendergli giustizia dovrei accennare alle numerose analisi di opere artistiche disseminate nel libro, e menzionare il fine racconto autobiografico che tiene insieme i pezzi. È infatti abbinando theory e critica culturale alla sua esperienza di expat londinese che Didino riesce a offrire un saggio pop acuto e scorrevole, che non farà sentire (quasi) nessuno spaesato, e al contempo piacerà molto anche a chi, come il sottoscritto, bazzica le riviste culturali da cui proviene Didino e conosce, più o meno, gli autori con cui dialoga.
Quello che mi preme dire in questa breve introduzione è che Essere senza casa è a suo modo un libro gioioso, direi vitalistico, pur non essendo ottimista. Anzi, lo è proprio perché respinge la dicotomia ottimismo/catastrofismo, e ci invita piuttosto ad aprirci alla stranezza, a uscire dal soporifero vortice di storie in cui siamo avvolti.
Ecco il resoconto della mia chiacchierata con Gianluca, a cui chiedo scusa per le mie domande un po’ sconclusionate.
Essere senza casa nel tuo libro significa un sacco di cose, fra cui il tuo essere senza casa, che condividi con un sacco di italiani della nostra generazione. Quella che descrivi è una condizione che noi italiani sentiamo di più?
In parte sì. Essendo laureato in lettere, le mie aspettative in Italia erano praticamente nulle. Chiaramente chi vive in UK emigra molto di meno di noi, degli spagnoli o dei greci. In qualche modo questo ci accomuna ad altri migranti economici.
Solo in parte però. Ti potrei provocare: non sei un vero “migrante economico”, nessuno ti ha davvero costretto ad andare nella città più hip d’Europa.
Un paese come l’Italia è però in una doppia morsa: in fondo non dev’essere molto diverso a Roma o a Milano, no? Gli affitti di Milano sono praticamente quelli di Londra, mentre gli stipendi sono la metà, forse la situazione è ancora peggiore. Del resto, noi siamo finiti a Londra un po’ per caso, la mia compagna doveva avere un lavoro qui solo per qualche mese. Non avevamo il sogno di andare necessariamente in una città come Londra.
Come mai non hai parlato della situazione italiana in particolare?
In realtà il primo capitolo del libro avrebbe dovuto essere interamente sulla mia esperienza. Poi però mi sono reso conto che paragonare la mia esperienza ad altre migrazioni molto più dolorose forse sarebbe stato inappropriato.
Su internet si leggono moltissimi articoli di ragazzi che vivono senza casa e ne sono felici, vivono nei loro camper, lavorano in smart working, abbracciano un “lifestyle” nomade… È a questo che volevi arrivare? Dobbiamo abbracciare questa condizione precaria?
Ho volutamente tralasciato l’aspetto lavorativo nel mio libro. Quando sono uscito dall’università c’era questa mitologia secondo cui sul lavoro bisognava ormai adattarsi, essere fluidi, flessibili. Non penso che sia auspicabile, sono molto contento del mio contratto a tempo indeterminato da bibliotecario! Per il resto, credo che le battaglie sulla stabilità debbano essere adattate al nostro tempo. Pensa agli accelerazionisti: vogliono che il lavoro lo facciano le macchine, figurati cosa gliene importa delle battaglie sindacali.
Mi sembra che l’auspicio di imparare ad essere senza casa non sia tanto accettare uno stile di vita nomade o precaria, piuttosto evitare ogni pretesa nazionalistica, ogni tentativo di erigere confini artificiosi.
Assolutamente. Penso che tutte queste case siano importanti, io sono mezzo cittadino britannico ormai, ma in fondo non vedo niente di male ad essere orgoglioso della propria nazionalità, il problema comincia quando ci si radicalizza.
Alla mia età (25 anni) si passa molto tempo a pensare al proprio futuro con una casa, una vita stabile.
Ci siamo un po’ trovati fregati. Siamo cresciuti con questi obiettivi da raggiungere: io uscito dall’università, nel 2004, nutrivo la speranza di trovare un lavoro, come i nostri fortunati genitori, i baby boomers.
Ma non era solo un mito quello della casa negli anni dopo il boom? Quelle case non erano infestate?
Suppongo che ci credessero davvero in quel mito. La casa è per definizione un posto perturbante, pieno di fantasmi, ma una casa i miei genitori e i loro amici, alla mia età ce l’avevano, e per loro significava molto.
E quelli che ce l’hanno questa casa, stanno meglio? Parlando terra terra.
Ogni tanto ci penso. Su cento persone che conosco, quelli che hanno costruito una casa grazie ad un lavoro che gli piace sono forse due o tre. Gli altri girano per il mondo o, chi ha messo delle radici, lo ha fatto per pressioni sociali, magari con la casa comprata dalla famiglia. Io e mia moglie non possiamo neanche lamentarci in fondo, ora sono anni che stiamo pensando di comprare casa.
In effetti ora, a trentacinque anni, sei alla soglia della maturità. C’è una differenza sostanziale?
Ma no! Ora ho qualche soldo in più, ma il mio orizzonte non è a più di cinque anni. Magari scopro di dover emigrare per Brexit. Ho degli amici che hanno comprato casa in Italia e sono subito ripartiti per gli USA.
Ma allora questa casa…
È una narrazione! Costruisce la nostra realtà. Gli anni ’70 forse non avevano prospettive che si sono rivelate reali, si diceva che tutto sarebbe andato bene mentre a noi, che viviamo in quel futuro, sembra di essere alle soglie di un’apocalisse… C’è una grossa differenza.
Basta parlare di case. Il tuo weird mi sembra piuttosto diverso da quello di Fisher. In Fisher c’è la necessità di pensare l’avvento di qualcosa che “rompa” con una visione del mondo saturata dal capitalismo, da cui non sembra ci siano vie di uscita. Ma secondo te siamo nell’ipermodernismo: per te il mondo è già weird.
Sono un amante di The Weird and the Eerie, e in generale del lavoro di Fisher come critico culturale. Realismo Capitalista, con il suo impianto post-marxista, per carità, è un gran libro. Ma nel 2020 tante premesse sono state spazzate via. Banalmente, abbiamo visto come il capitalismo sia stato messo in crisi da un virus. Fisher è molto britannico, e questo è anche un po’ un suo limite: non so come si possano cogliere i riferimenti alle serie BBC degli anni ’70… D’altra parte è a suo modo anche molto accademico, e l’applicazione dei termini weird e eerie è circoscritta solo a prodotti culturali. Mentre lo leggevo pensavo: questi concetti sono usciti drammaticamente dall’ambito letterario, si possono applicare agli eventi della nostra epoca, quindi sì, sono d’accordo con quello che dici.
Fisher partiva dall’idea di mondo postmoderno, di citazioni, retromania, una continua giostra del tutto uguale. Ora forse è tutto saltato di colpo, o piuttosto ci siamo accorti solo ora dei cambiamenti che stavano avvenendo.
Bravo! Non viene ricordato abbastanza che in Fisher realismo capitalista è sinonimo di postmodernismo, lui si rifà chiaramente alla teorizzazione di Fredric Jameson, in quel libro lì Fisher non fa un grosso salto teorico, come accade ad esempio in The Weird and the Eerie.
Con Fisher ci sono però molte affinità stilistiche. A chi altro ti sei ispirato per il registro a cui sei arrivato in questo libro? Hai autori di non-fiction di cui ti piace la penna?
Onestamente, questo libro nasce da una serie di articoli, che ho legato insieme tramite il concetto di essere senza casa e il racconto personale. Gli accenni autobiografici che mettono insieme cose altrimenti troppo diverse funzionano po’ da strumento retorico. Qui in UK c’è tutto un filone di theory fiction, che in Italia non esiste, a parte forse per il libro di Valerio Mattioli, Remoria. Lì c’è senz’altro questo ibrido, a Valerio devo molto, per Prismo e per aver portato Fisher in Italia. Di theory fiction ne leggo molta, anche se il mio libro non si può considerare di questo genere, dato che nel mio caso non c’è finzione. Mi piacciono molto Tom McCarthy, Simon Sellars, Eugene Thacker. Poi ci sono altri esempi, come il filone narrativo di W.G. Sebald o Ben Lerner.
In questo libro hai deciso di dedicare molto spazio alle sinossi dei film e delle opere che citi, rinunciando ad uno stile più letterario.
Dipende anche dal tuo pubblico e da cosa vuoi comunicare. Ad esempio, Nick Land o Mark Fisher nei loro blog non sono così comprensibili, se ne fregano e disseminano riferimenti piuttosto oscuri. Io non volevo che fosse una cosa per la “bolla”, quei pochi per cui non sarebbero necessarie delle sinossi perché “tanto tra noi ci si capisce”. Questo libro a mio avviso tocca argomenti che parlano a un pubblico piuttosto ampio, perciò delle volte sono un po’ didascalico.
In effetti il tuo libro, fra le altre cose, si può leggere benissimo come una “Introduzione all’Ipermodernismo”. Ne avete parlato con minimum fax?
Sono contento che tu l’abbia letto così. Da un certo punto di vista il mio libro “sistematizza”, non si preoccupa tanto di proporre argomenti nuovi e specifici, ma di ampliare un po’ il raggio. Con minimum ne parliamo dal 2016, mi avevano lasciato molta libertà: avevo lavorato sul tema della fine del mondo, ma col tempo il libro ha preso un’altra piega e la fine del mondo era fin troppo evidente. È nato tutto organicamente: i miei articoli quasi sempre cercano di parlare ad un pubblico più ampio possibile. Questo libro non sarebbe molto vendibile in UK, qui Fisher è in giro da dieci anni, per alcuni forse la sua pregnanza è già passata, anche se nella libreria vicino a dove abito – a pochi passi dalla Goldsmiths, l’università dove insegnava – ci sono i suoi volumi sempre in vetrina come una Bibbia.
Parlando del futuro: la letteratura di genere, Dick e il Cyberpunk sono entrati nel canone ormai dagli anni ’90, anche grazie a Jameson, e ora sono ovunque. Pensi che tutto questo sia destinato a cambiare?
Non sono un grande amante del cyberpunk, e nonostante l’estetica sia tornata di moda anche grazie a Netflix e alla fortuna dell’accelerazionismo, credo che farà il suo tempo. Riguardo Philip Dick, non credo tramonterà, la sua mistica, nella nostra epoca di gnosticismo e complottismo, è ancora attuale.
Avverrà una popolarizzazione del genere weird, e che possa avere un qualche impatto sociale, magari con una spinta “xenofila”?
Assolutamente. Guarda alle serie tratte da China Mieville e da Shirley Jackson. Secondo Veronesi, che ha appena (ri)vinto lo Strega, la letteratura è sempre stata una roba borghese, ma… adesso c’è stato un grosso salto, certi romanzi distopici, che sono sempre stati per una nicchia, da qualche anno vendono milioni di copie, credo che questo aiuterà ad avere una visione diversa dell’alterità.
Un’ultima su internet: a riguardo scrivi «vivevamo in un mondo di non morti», un luogo che sembrava un paradiso ed ora è luogo di cose mostruose, basta pensare a Cambridge Analytica. Internet è solo questo? Di tutto il portato utopico, delle possibilità di scambio orizzontale, non è rimasto nulla?
Su internet ci passo tutte le ore in cui non lavoro, sarei ipocrita se ne parlassi solo male, come un complottista del 5G. Io ho avuto la fortuna di frequentare il Web 2.0, e lì davvero c’erano delle possibilità, io ad esempio ho cominciato a scrivere grazie al mio blog.
Nel libro parli anche delle nuove micronarrazioni. Su internet possono nascere cose più interessanti dei video su TikTok?
Io non sono uno che legge tantissimi articoli, ma in un’ora su Facebook ne salvo una decina e mi appunto tantissimi titoli. Dove c’è abbondanza ci sono possibilità. D’altro lato, mi accorgo che io ed i miei amici siamo influenzati dalle stesse cose, anche quando ci arrivo per conto mio sono cose che risuonano fra le persone della mia cerchia. Siamo in tanti nel mondo, ci penso molto, le possibilità sono quasi infinite. E al di là dei discorsi collettivi importanti, in cui tutti mettiamo il nostro tassello, dal punto di vista individuale si è influenzati enormemente. Io ho scritto il libro senza connettermi a Facebook più di una volta a settimana ma, nonostante questo, il risultato risente moltissimo dei discorsi che avevo intorno. Credo che anche lo scrittore di saggistica dovrebbe poter andarsene in una capanna, per cercare strade un po’ meno battute.
Sai già cosa vorrai scrivere in futuro?
Io sono nato come scrittore di narrativa. Poi mi sono un po’ rotto le balle dell’ambiente dei concorsi letterari. È stato difficile scrivere in questo periodo. Ora ho un po’ ricominciato. Più che altro prendo appunti.
Vive a Roma ma non dimentica le sue origini avellinesi. È un avido lettore di Cesarea Tinajero. Non appena ha tempo, si dedica alla sua passione: il birdwatching.