Thomas Ligotti viene ormai considerato, a ragione, una delle figure più interessanti della letteratura americana contemporanea. Autore sfuggente (di lui circolano pochissime immagini, perlopiù sfocate, come a sottolineare questa sua evasività), fino a qualche tempo fa ne veniva messa in dubbio la reale esistenza. Sebbene di lui si abbiano poche notizie, sappiamo inoltre che soffre di gravi attacchi d’ansia e di panico, che in gioventù l’hanno portato all’abuso di alcol e sostanze stupefacenti.
Da oltre quarant’anni scrive racconti horror e weird, ed è stato riconosciuto da pubblico e critica come l’unico vero erede di autori quali Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft. Il suo genere, ribattezzato horror filosofico, indaga la realtà umana e le manifestazioni del male, evidenziando i punti in cui queste due sfere entrano inevitabilmente in collisione. Quello che però rende Ligotti così interessante è il fatto che la sua poetica rispecchia in pieno le idee che ha del mondo. Il male in Ligotti viene infatti inteso come un’identità le cui radici sono ben piantate nel nostro universo, e si manifesta sotto le forme più svariate. In molti dei suoi racconti più celebri, l’autore fa uso della tecnica della personificazione, che in questo genere di letteratura, ovvero la letteratura fantastica, risulta essere quasi un dogma, un mezzo di espressione imprescindibile che lo scrittore non può fare a meno di utilizzare. Ma le personificazioni di Ligotti hanno un carattere più astratto rispetto a quelle dei suoi predecessori. Se nella letteratura gotica il male era infatti rappresentato da orrende figure nate nel folclore e nelle mitologie dei popoli come vampiri, ghul e fantasmi, e se in Lovecraft veniva invece costruito tramite un pantheon di creature grottesche ma ben definite, in Ligotti questa certezza di forma non l’abbiamo mai. Il male di Ligotti è meno esplicito, è discreto, striscia e si insinua nelle vite dei malcapitati.
Come spiega bene nel suo saggio romanzato La cospirazione contro la razza umana (fonte d’ispirazione anche per Nik Pizzolatto nella serie True Detective, per la quale ha anche rischiato la denuncia per plagio) il male non è nato con l’uomo, ma è qualcosa di ancestrale, una forza vivente in un “mondo-altro” che compie delle incursioni nel nostro, cannibalizzandolo. Nei suoi racconti ne troviamo una visione varia, cangiante, ma sempre coerente con l’idea di qualcosa di macabro e incomprensibile. Può prendere le forme di una creatura strisciante, viscida, di origini incerte, aliene, oppure assumere le sembianze di un paesaggio grottesco, composto da architetture contorte e oniriche che sembrano lottare con i precetti della geometria euclidea. Lo stile di Ligotti ben si sposa con le tematiche trattate, grazie a una scrittura aulica, ricca di metafore, quasi labirintica, che intrappola il lettore non solo negli scenari che descrive, ma anche nella stessa rete di parole. E il fulcro di ogni racconto si trova proprio nel modo in cui i personaggi entrano in contatto con quest’altra realtà. I protagonisti sono spesso reietti, artisti e ricercatori che tentano di connettersi col mondo degli incubi. I personaggi, mossi spesso da una sete di conoscenza, o anche solo da un bisogno, arrivano così a toccare con mano quella malignità schiva e invisibile alla maggior parte delle persone.
Un altro aspetto significativo dei personaggi è il modo in cui questi reagiscono ai cosiddetti “stimoli”. Infatti, se in molti racconti dell’orrore il protagonista si trova spesso a perdere la sanità mentale a causa di incontri disturbanti, le storie di Ligotti sono al contrario costellate di rivelazioni, macabre epifanie che portano i personaggi a una sorta di “consapevolezza superiore”, celata a un’umanità che vede questi svelamenti come sintomi di follia. Ciò che forse impedisce ai personaggi di impazzire davanti a incontri simili è una certa apatia di fondo che li contraddistingue: essi infatti sembrano muoversi come se fosse qualcun altro a tirare i fili delle loro esistenze, marionette di un inferno meccanico di cui non si conosce l’autore.
Nel racconto L’ombra, l’oscurità contenuto nell’ultima antologia pubblicata dal Saggiatore Teatro Grottesco, uno dei personaggi, l’artista sperimentale Reiner Grossvogel, colpito da un attacco di gastroenterite, viene ricoverato in uno strano ospedale. Durante la convalescenza l’artista, colto da deliri metafisici, parla più volte di «un’ombra pervasiva». Tornato dai suoi amici, apparentemente guarito, Grossvogel rinnega tutta la sua arte precedente e promette di mostrare loro un nuovo progetto. Il giorno della presentazione, Grossvogel rivela una scultura, che risulta essere un miscuglio indecifrabile di varie forme: questa prende il nome di Tsalal (nome dell’isola del polo sud di cui Edgar Allan Poe parla nel romanzo Storia di Arthur Gordon Pym). Lo Tsalal viene descritto come una tenebra informe che permea la realtà e che muove le nostre vite senza che noi ce ne accorgiamo (marionette e burattini sono argomenti ricorrenti per l’autore americano). Se per Emil Cioran la malattia non era che il segno di un’esperienza metafisica abortita, per Ligotti sembra dunque essere il contrario, il preambolo di un’epifania. La gastroenterite di cui Grossvogel è affetto sembra dare una spinta alla sua coscienza, rendendolo consapevole di un mondo superiore che comanda invisibile la nostra realtà. La scelta dell’autore di un morbo ben definito, un virus intestinale, fa sorgere alcune domande. Infatti, la decisione di scegliere una malattia che colpisce il tratto digerente risulta emblematica, soprattutto perché ricorrente in altri racconti.
In Teatro Grottesco, testo che dà il nome alla raccolta, il protagonista, colto dallo stesso malanno, asserisce che chi viene colpito da un morbo intestinale «sviluppa la consapevolezza di certe realtà […] con la guarigione del virus, inevitabilmente, la consapevolezza di queste realtà e funzioni sparisce». Un’epifania, di conseguenza, che muore sul nascere, al contrario di quella di Grossvogel. Eppure, il protagonista, impegnato nell’indagine su un’organizzazione segreta, il Teatro Grottesco, votata a “uccidere” l’arte, sembra aver mantenuto una certa lucidità, riuscendo a tenere per sé un po’ di quella consapevolezza che lo porterà, a scoprire il vero volto del Teatro. Se prendiamo in esame l’espressione “pensare di pancia”, ovvero pensare d’istinto, la scelta di un virus intestinale sembra assumere un senso. È come se il morbo per Ligotti fosse capace di risvegliare quell’istinto, di lasciar intravedere l’esistenza di una realtà dietro la realtà, in contrapposizione alla razionalità della mente, che per sua stessa natura è portata a negarla. Ciò che rende Ligotti una delle penne più interessanti del panorama letterario contemporaneo è la sua capacità di guardare alla realtà con occhi diversi, unita all’abilità di riportare su carta gli incubi che la popolano.
Studio presso la facoltà di Letteratura, Musica e Spettacolo della Sapienza. Passo il tempo scrivendo e leggendo di fantascienza e fantasy. Tra le passioni piú grandi troviamo la filosofia e la musica rock, folk e blues. Mi interessa tutto ciò che non esiste e su cui la mente umana ancora non ha poggiato lo sguardo