una breve visita marvin

Una breve e lisergica visita

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Praticamente, la storia di Una breve visita di Andrea Betti è questa qui: in un futuro relativamente prossimo, a metà del Secolo Acidificato (il nostro secolo, con un richiamo doppio all’acidificazione degli oceani e alla psichedelia), appare improvvisamente un’incrinatura nel tessuto spazio-temporale, la Fessura: cinque anni dopo sbarcano al Polo Sud i Cilestrini, una specie aliena che si trattiene sulla Terra soltanto un weekend, per poi riparte verso altri lidi. Le comunicazioni tra l’umanità e i Cilestrini sono fallimentari – gli extraterrestri dialogano tra loro attraverso il «Rumor Bianco», un fruscio che racchiude il suono della radiazione di fondo dell’universo – e, quando vanno via, lasciano un mondo in panne – le onde radio piombano nel caos, i satelliti sono sospinti alla deriva da un’inspiegabile repulsa, un’epidemia globale di depressione, la Panacedia, si abbatte su tutta la popolazione terrestre. Questa epidemia, nata come reazione al Trauma dell’Abbandono di Specie (il mancato contatto con i Cilestrini, che hanno reputato l’umanità «una civiltà bieca e scontata»), ha varie conseguenze: suicidi di massa, crollo dei culti monoteistici, nascita di gruppi antisistemici – come il Movimento per la Svalutazione Umana (Sva) o il Movimento di Eradicazione Culturale (Rad). Quattrocento anni dopo questo nefasto weekend di contatto, Marcus (entrato in stato catatonico dopo l’arrivo dei Cilestrini) si risveglia dalla criogenesi e descrive su un diario le esperienze e i luoghi che attraversa, viaggiando in un mondo distorto e depresso: tra le città che incontra c’è, ad esempio, una Manhattan Celeste (nuovo cuore pulsante del capitalismo) oppure Hamistadt, località immaginaria dall’architettura composita con echi di Vienna, Venezia, Napoli e Istanbul. Alla voce del protagonista se ne sommano poi altre (due galleristi che discutono di arte contemporanea, il professor Amirani, intento a salvare i capolavori dell’umanità dalla furia dei Rad), generando una narrazione polifonica e multiforme.

Descrivere ulteriormente la storia di Una breve visita sarebbe, oltre che inutile, controproducente. Il romanzo d’esordio di Andrea Betti è infatti parte di quel modo di narrare scomposto, allucinato, esploso che resiste alle sinossi da quarta di copertina e ha (invece) molti tratti in comune con il mondo della psichedelia. Non è un caso che Betti sia tra gli autori della Scommessa Psichedelica, collettanea di brevi saggi che propone una rivitalizzazione della discussione sulle sostanze lisergiche, e che nel capitolo di sua competenza (Perché un rinascimento non si faccia Restaurazione) si profonda in descrizioni che potrebbero essere applicate senza strappi anche ai personaggi del suo stesso romanzo: «Dopo quattordici anni di assenza da ogni evento a carattere psichedelico, volevo vedere com’era cambiato il mondo che conoscevo, fatto di gente semplice e dopata, montanari e fricchettoni, bambolotti e delinquenti, babbei e schizoidi». Questi babbei, schizoidi, fricchettoni viaggiano all’interno di Una breve visita come vagabondi deliranti, collassando poi lungo territori immaginari o reali (il primo capitolo si apre ad esempio con una descrizione disturbata di Tangeri, possibile richiamo agli ambienti suburbani e tossici dei Ragazzi Selvaggi di William Burroughs). Contraltare di questa specie terrestre è quella aliena, i Cilestrini, simili per attitudine (un’indifferenza mista a ironico distacco) ai Tralfamadoriani di Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut. Betti li descrive così:

«Dai filmati – riprese amatoriali per altro, non di rado fuori fuoco o controluce – non è che si capisca un granché; hanno i capelli lunghi raccolti in una crocchia; indossano pantaloni sbuffanti, verdi, tipo vecchia uniforme di cavalleria, o talvolta degli short dorati, più spesso sono nudi, ma privi di connotati sessuali evidenti; alcuni con degli stivaloni, sempre da cavallerizzo, altri in infradito, altri ancora scalzi, senza un criterio preciso. Vari abbinamenti alla cazzo: nudi con gli stivali o un solo stivale, in pantaloni ma scalzi etc.; bambolotti vestiti a casaccio da dei bambinetti con la stupidera. Piedi, mani, braccia, cinque dita, due occhi, un naso, una bocca, due orecchie. In tutto e per tutto umani. Gli allarmisti ritengono che si tratti di una specie di “cavallo di Troia” per iniziare l’invasione. Per quel che ne so, potrebbero essersi fermati qui per una pisciatina, come in un’area di sosta della superstrada. Magari tornavano da un party intergalattico! Vabbè, mettetela come volete, quale che siano le loro intenzioni, sono arrivati, hanno fatto un gran casino e se ne sono andati: ci tocca accettarlo questo cavallo di Troia».

L’arrivo dei Cilestrini, questo «cavallo di Troia» non è altro, a pensarci bene, che l’incontro con l’inaspettato, un evento inatteso che scombina l’ordine meticolosamente costruito dall’umanità, rimescolando le carte e imponendo vie alternative. Un fenomeno che ha molti tratti in comune con l’esperienza psichedelica, la cui stella polare è la generazione di tracciati mentali vergini, lontani dagli automatismi consolidati su cui instradiamo (e intrappoliamo) il pensiero quotidiano.

«Le strutture di eventi organizzati», dice Peppe Fiore nella Scommessa psichedelica, «ci illudono, a torto o a ragione, che esista una causa prima da cui discendono le conseguenze, ci danno l’impressione che al disordine sottostia una trama, e quella trama è il fondamento della nostra esperienza […]. La psichedelia invece scardina il tempo, e con il tempo la consequenzialità degli eventi. Ci porta in un mondo in cui a un effetto non è necessariamente presupposta una causa. In qualche modo, simula il delirio paranoide».

Ed è proprio questo senso di delirio, questo tentativo di «hackerare la mente» umana attraverso l’arrivo di una popolazione aliena, che attraversa l’esordio di Betti, e che apre il passaggio a una realtà più plastica, meno irrigidita. Per dirla con Mark Fisher: «Se gli elementi fondamentali dell’esperienza, come il nostro senso di spazio e tempo, possono essere alterati, non significa forse che le categorie attraverso cui viviamo sono plasmabili, mutevoli?». È a questa domanda (tra altre) che risponde Una breve visita, ibridando toni scanzonati à la Vonnegut, realtà acide di matrice burroughsiana, richiami alla cultura pop (in questa intervista l’autore cita tra i suoi riferimenti Ready Player One di Ernest Cline) e un impasto di lingue (e slang) distanti tra loro – spaziando dal vocabolario teknuso al lessico dotto dei critici d’arte. Una breve visita di Andrea Betti potrebbe essere quindi inserito all’interno di quel filone, forse una vera e propria “letteratura psichedelica”, dove ogni storia, personaggio, oggetto vengono riconfigurati (come nell’esperienza lisergica) in forme, identità, strutture inedite, permettendo al lettore di raggiungere così, chissà, imprevedibili e caotiche folgorazioni.