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Come sovvertire sé stessi

13 min. di lettura

«Forget subversion. The point is self-subversion, overthrowing the power structure in your own head. The enemy is the mind’s tendency to systematize, sew up experience, place a distance between itself and immediacy».

Questa citazione di Simon Reynolds – uno dei critici culturali più apprezzati dal panorama artistico contemporaneo – porta con sé una questione significativa, utile a comprendere tanto il saggio di cui andremo a parlare quanto le strutture psicologiche individuali che approfondiremo nel corso dell’articolo.

«Forget subversion. The point is self-subversion».

Nello specifico, questa sarà la nostra linea guida. Da qui dovremo partire, qui dovremo tornare.

Dunque, cominciamo. 

La scommessa psichedelica (Quodlibet, 2020), è una collettanea di saggi che declinano sotto vari aspetti il tema del cosiddetto Rinascimento Psichedelico, la serie di rivoluzionarie scoperte scientifiche che negli ultimi quindici anni hanno rivitalizzato la discussione sulle proprietà terapeutiche delle sostanze lisergiche. La raccolta, partendo da questo assunto, riesce a coprire una vastissima area di interesse, fornendo al lettore neofita coordinate essenziali non solo per muoversi all’interno dell’argomento senza affogare, ma anche per riconoscere le gocce psichedeliche che, inconsapevolmente, sono state inoculate nei suoi sensi per tutta una vita, principalmente sottoforma di romanzi, album, pellicole cinematografiche. I temi trattati spaziano dai trip report di Peppe Fiore alla memetica psichedelica di Silvia Dal Dosso e Noel Nicolaus, dallo gnosticismo acido di Edoardo Camurri ai legami tra psichedelia e letteratura di Carlo Mazza Galanti, dalle analisi sociopolitiche di Ilaria Giannini, Agnese Codignola, Marco Cappato alla psichedelia di mercato di Vanni Santoni, dalla relazione tra ayahuasca e coscienza ecologica di Francesca Matteoni ai festival psichedelici di Chiara Baldini, dalla restaurazione psichedelica di Andrea Betti allo pseudoglossario di Gregorio Magini. Questa elaborata geografia tematica viene poi armonizzata in mappa da Federico di Vita, curatore della raccolta, prefatore e saggista a sua volta, che nell’introduzione, Breve storia universale della psichedelia, contestualizza l’argomento, ne elenca le cruciali svolte storiche, semina nella mente del lettore questioni chiave che saranno approfondite nelle singole sezioni.

Appurate queste premesse, proveremo, nella parte restante dell’articolo – e sempre tenendo a mente la considerazione di Reynolds – a capire perché questo Rinascimento Psichedelico, a oggi, possa essere considerato fenomeno di assoluto rilievo, nonché strumento interpretativo per accedere a stratificazioni sotterranee della realtà.   

Ne La società della stanchezza Byung-Chul Han, filosofo coreano e docente di filosofia alla Universität der Künste di Berlino, afferma che il nostro periodo storico può essere considerato quello del passaggio dal dover fare al poter fare, ovvero il transito dalla società della costrizione a quella della prestazione. In breve, questo vuol dire che se prima il nostro lavoro era posto sotto un giogo di tipo sociale, economico, politico, adesso, a causa di una profonda deregolamentazione neoliberale (e, c’è da dirlo, a una significativa acquisizione di diritti) siamo più o meno nella condizione di realizzarci a seconda di desideri e preferenze. Il fatto, però, è che libertà ed essere liberi spesso non coincidono, e il potere può volgersi in competizione, come spiega Han nel suo saggio: «Come sfruttatore, qui, non c’è l’Altro, che mi costringe a lavorare e mi sfrutta, piuttosto mi sfrutto io stesso volontariamente nella convinzione di realizzarmi. Mi realizzo fino alla morte. Mi ottimizzo fino a morire». Questo accade perché, come sostiene sempre il filosofo coreano: «Il dovere ha i suoi limiti; il potere, invece, non ne ha, è aperto verso l’alto».

Essendo il potere uno strumento di sviluppo sostanzialmente illimitato e l’individuo l’unico campo su cui testarne la riuscita, il soggetto di prestazione concorre con sé stesso ad nauseam, cadendo «sotto la costrizione distruttiva a doversi superare costantemente». Han connette questo sistema lavorativo performante all’«epidemia di disagio psichico» (Gregorio Magini in Pseudoglossario) della depressione, vera autentica pandemia strutturata del nostro secolo. Per capirci, secondo l’ultimo rapporto del 2017 dell’Organizzazione mondiale della sanità, riportato da Ilaria Giannini in Rompere gli schemi: la cura psichedelica alla depressione, i casi di depressione sarebbero oltre 322 milioni (a oggi, il Covid-19 ha infettato 107 milioni di persone), con un tasso di suicidi, principalmente ascrivibili a questa malattia, di 800mila l’anno (le vittime del Covid-19 al momento sono 2,35 milioni, rapporto che potrebbe portare a pensare che viviamo un’epidemia da Coronavirus più o meno ogni tre anni di cui nessuno, nessuno, si rende realmente conto).

Secondo Han, la depressione sarebbe dunque una malattia strutturale al nostro periodo storico, scatenata da un autosfruttamento forsennato e privo di limiti (o, come dice il filosofo coreano, privo di negatività, ovvero di ostacoli, il che renderebbe la nostra società assolutamente positiva). Questo genere di sfruttamento sarebbe particolarmente funzionale perché legato, al contrario di quello costrittivo, a una sensazione di profonda libertà, di fulgida realizzazione individuale.

Il fatto è che in questo gioco al massacro arriva presto ad aprirsi uno iato – prima piccolo, poi sempre più largo – tra l’Io-Reale, ovvero ciò che siamo e riusciamo a fare in questo momento, e l’Io-Ideale, la versione iperperformante di noi che, come ormai dovrebbe essersi compreso, non ha un limite.

La sofferenza percepita a causa della voragine cupa che si stende tra Io-Reale e Io-Ideale assume, in questa accezione specifica, il nome di depressione. La conseguenza, in caso di mancata realizzazione personale, è il passaggio dall’autosfruttamento alla più feroce autoaggressività (essendo il soggetto di prestazione l’unico colpevole del proprio fallimento) che culmina nei casi più tragici nel suicidio.

Detto in altri termini: io posso più di quanto posso adesso, e potrò farlo sempre di più nel futuro. Se non riesco la responsabilità è mia e di nessun altro.

Ogni centimetro di questo circuito è un tragitto tracciato nel nostro cervello, una pista rodata su cui scorrazziamo senza che nessun ostacolo intralci la gara folle contro noi stessi. In breve, costruiamo una serie di pattern, o, per dirla con lo scrittore fantascientifico Aldous Huxley, una «valvola di riduzione».

«La maggior parte della gente, per la maggior parte del tempo, conosce soltanto ciò che passa attraverso la valvola di riduzione e viene consacrato come genuinamente reale dal linguaggio del luogo».

Federico di Vita, nella sua introduzione, ci spiega che la valvola di riduzione sarebbe «il filtro di sintesi messo a punto dal cervello umano per ottimizzare il flusso degli impulsi e organizzare le singole decisioni». Aggiungendo, poi, che «lo scrittore individuò tra le dinamiche principali generate dall’azione della psilocibina la capacità della mente di scardinare questo meccanismo, così che il soggetto possa percepire l’intera gamma della varietà e complessità degli stimoli che incessantemente il mondo ci invia».

Questa valvola, prosegue Federico di Vita, ha un nome scientifico, Default Mode Network (DMN), e ci permette di elaborare in automatico la quantità di impulsi che giungono dall’esterno, prendendo decisioni sulla base di automatismi consolidati. Il fatto è che il Default Mode Network, come ricorda Ilaria Giannini, è, nei soggetti depressi, «iperattivo, come assorbito in una costante ruminazione che conduce a una spirale di pensieri negativi e ripetitivi a cui è impossibile fuggire».

Ora però è importante fare un appunto, prima di proseguire.

Questo articolo (come del resto la raccolta di saggi) non vuole essere in alcun modo un promotore degli allucinogeni come unica via per l’uscita dai disturbi depressivi. Anzi, vuole tentare di comprendere, più che far comprendere (l’articolo finora non sa nulla, non è giunto a conclusioni, ignora quasi tutto di sé), quanto un dirottamento dai propri tracciati abituali – con o senza l’utilizzo di acidi lisergici – possa costituire un esercizio assolutamente salutare da compiere, un «approccio psichedelico alla vita» essenziale per smettere di sopravvivere e iniziare a vivere. Come ricorda lo stesso Peppe Fiore nel saggio Il trip report come sottogenere della letteratura di viaggio: «Penso che l’LSD non contenga in sé nessuna risposta, ma sia un formidabile acceleratore di domande».

Ora, ricominciamo.  

Italo Calvino, nel suo reportage Un ottimista in America, affermava che, passando davanti alle stazioni di benzina americane, i rivenditori di auto con le bandierine colorate, le banche drive-in, aveva capito la beat generation, «il no assoluto, il rifiuto di tutto questo […] qualcosa che non è una trasformazione del mondo, ma una trasformazione del modo di stare al mondo».

Quella beat generation – incarnata da personaggi come Allen Ginsberg che, dopo la prima dose di LSD somministrata dallo psicologo Timothy Leary, telefonò a diversi capi di Stato per comunicare loro che ogni conflitto internazionale sarebbe stato risolto e, ignorato da tutti, chiamò Jack Kerouac annunciando «qui è D-I-O- che parla» – quella beat generation, dicevamo, aveva dato il via a un processo di mutamento che non riguardava tanto il mondo, quanto il modo di abitarlo.

Di nuovo: «Forget subversion. The point is self-subversion».

Una reazione simile, ma in grado di andare «oltre» gli anni ’60, è quella che professa Vanni Santoni in Muro di casse, quando ricorda:

«Sai cosa ti dico, ci è mancata la forza di rivendicare le droghe, abbiamo messo su un pudore che ci ha impedito di dire chiaro e tondo che cosa voglia dire, mettersi sulla lingua quel quadrettino di carta impregnata di dietilammide dell’acido lisergico quando la serata sta iniziando, sentire un’energia nuova e strutturata attraversarci come se arrivasse a noi da chissà dove, ballare nel caos stellante, godere dei sensi esplosi, farsi baciare all’alba dal sole. Tu mi dirai ma questo lo hanno già fatto quelli là negli anni ’60. Vero. Dovevamo andare oltre. […] e a un certo punto arrivò proprio la tua Cleo, che poi diciamocelo, era una stronza che pensava ancora di essere negli anni, ma che ne so, ’70, venne a dirci Ma muovete il culo una buona volta, mobilitatevi, fate qui, fate là, rivendicate qualcosa, e Foffo tutto fatto a mezzo pomeriggio, sdraiato sullo scalino del camper disse, anzi farfugliò, Io rivendico la ketamina».

Il senso di queste due citazioni è sottolineare quanto, prima ancora di modificare il mondo che ci circonda (quando e se possibile è tutt’altro discorso) sia vitale disintegrare e riassemblare il nostro universo interno. Questo aspetto del Rinascimento Psichedelico, avverte Carlo Mazza Galanti in Fantadroghe e pseudorealtà, potrebbe condurre allo «sforzo di rimediare a una serie di malattie tutte eminentemente sociali, eludendone la genesi e il senso più profondamente economico, culturale e politico», o, ancora, dare «una risoluzione individuale di problemi sistemici» (La società del rischio. Verso una seconda modernità). Essendo la struttura neoliberista e iperperformativa parte integrante del nostro modo di decifrare il reale (non imposta ma desiderata, come direbbe Han) per applicare una richiesta sistemica di questa entità si sente però il bisogno di partire da un mutamento individuale, che non intenda narcotizzare il dissenso ma anzi riesumarlo, generando soggetti in grado di richiedere questo cambiamento. 

Dunque.

Un’altra domanda sorge spontanea: come farebbe questo «quadrettino di carta» a cortocircuitare il nostro stile di vita? Dove andrebbe ad agire?

«Le strutture di eventi organizzati» ci dice Peppe Fiore, «ci illudono, a torto o a ragione, che esista una causa prima da cui discendono le conseguenze, ci danno l’impressione che al disordine sottostia una trama, e quella trama è il fondamento della nostra esperienza […]. La psichedelia invece scardina il tempo, e con il tempo la consequenzialità degli eventi. Ci porta in un mondo in cui a un effetto non è necessariamente presupposta una causa. In qualche modo, simula il delirio paranoide».

L’LSD, dunque, aiuterebbe a perdere alcuni riferimenti quotidiani come la solidità dello spazio-tempo (colonna portante della società della prestazione) frizionando percorsi narrativi noti, sciogliendo i pattern consunti nell’acido, generando percorsi vergini (molti pisconauti hanno paragonato l’esperienza lisergica a un «reset», per altri l’LSD è stata un «riprogrammatore», o un modo per «hackerare la mente»). Non è un caso che l’apice del viaggio lisergico sia la cosiddetta ego loss, ovvero la «dissoluzione della coscienza: uno stato parente all’estasi mistica o al nirvana, in cui l’essere fluttua in purezza, […] dimentico di se stesso, immobile nel vuoto».

Le potenzialità di questa volontaria alterazione della realtà erano state riconosciute anche da Mark Fisher, il quale aveva iniziato ad abbozzarne la struttura nel suo Comunismo acido, un saggio che identifica l’esperienza lisergica come «esternalizzazione del cervello» che aiuterebbe a passare da una realtà rigida priva di alternative a una realtà plastica, mettendo in dubbio paradigmi rodati della mente umana: «Se gli elementi fondamentali dell’esperienza, come il nostro senso di spazio e tempo, possono essere alterati, non significa forse che le categorie attraverso cui viviamo sono plasmabili, mutevoli?». Questo potrebbe aiutare il soggetto stesso a uscire fuori dalla propria coscienza, a compiere quella sorta di «passo di lato» auspicato da Gregorio Magini nello Pseudoglossario, quando afferma che, se la coscienza è un vetro attraverso cui osserviamo ciò che si trova fuori da noi, un «passo di lato» potrebbe permetterci di percepire il vetro stesso.

Ma come fa, scientificamente, questo cortocircuito a verificarsi?

Il Rinascimento Psichedelico si deve, anche e soprattutto, al suo recupero a livello medico, e alla ri-identificazione delle proprietà curative di questo potente allucinogeno, culminate nella scoperta di Robin Carhart-Harris (attualmente a capo del Centre for Psychedelic Research dell’Imperial College di Londra) che, ancora dottorando, nel 2016 ebbe l’idea di mappare – tramite la tecnologia del brain imaging – il cervello umano in preda a un trip lisergico. Il risultato fu sorprendente: i neuroni dialogavano con aree del cervello con cui non erano mai entrati in contatto (ragione per cui, spesso, chi fa uso di acidi lisergici va incontro a improvvise sinestesie) donando forma a una specie di «cervello unificato», o «cervello entropico», infiammato da miliardi di nuove connessioni. David Nutt, neuropsicofarmacologo inglese specializzato nella ricerca delle proprietà curative delle sostanze psicotrope, definì queste immagini «il bosone di Higgs delle neuroscienze». Carhart-Harris, in breve, aveva mostrato al mondo cosa volesse dire far saltare in aria il Default Mode Network.

Ci sarebbe ancora molto da dire su questo saggio, una chiave fatta di pagine per accedere a mondi multipli, battaglia di una «guerra spirituale» – come la definisce Edoardo Camurri – che sta invadendo (e invaderà) il panorama socioculturale dei prossimi anni.

Ma se alla fine di un viaggio, di questo nostro brevissimo viaggio, vogliamo segnare un punto d’arrivo, un traguardo, questo può essere identificato in un nuovo modo di concepire, e immaginare, noi stessi nel mondo.

Invito a una decapitazione di Vladimir Nabokov è la storia di un uomo «traslucido», «opaco» che viene condannato a morte per il solo fatto di non essere «trasparente» come ogni altro individuo, e, per questa ragione, viene relegato in carcere fino alla morte. Il protagonista, tutt’altro che torbido, è un individuo dall’immaginazione fervidissima, la cui unica colpa è quella di non voler condividere questo universo interiore con il resto del mondo. Il protagonista illustra il suo rapporto con la facoltà immaginifica così:

«Una volta, quando ero bambino, durante una gita scolastica in una località lontana, […] mi ritrovai, […] in una sonnacchiosa cittadina, così sonnacchiosa che quando un uomo, […] finalmente si alzò per aiutarmi a trovare la strada, la sua ombra azzurrina proiettata sul muro non lo seguì subito… […] tra il suo movimento e il movimento dell’ombra indolente – un secondo, una sincope – si trova quel singolare tipo di tempo in cui io vivo, la pausa, lo iato, quando il cuore è una piuma…».

Irrorare lo iato di cui molto sopra – quello depressivo, cupo, la voragine panica tra l’Io-Reale e l’Io-Ideale – con questo iato, attraversato da cosmi celebrali a carica fantastica, formazioni lisergiche di deliri chimici, potrebbe essere il punto da cui ripartire per ricostruire le nostre esistenze a pezzi, la chiave per sovvertire l’ordine interno, la striscia chiodata da stendere per rallentare la corsa folle contro noi stessi.

O anche, più semplicemente: «Forget subversion. The point is self-subversion».