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L’amore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

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L’amore è un atto senza importanza, romanzo d’esordio di Lavinia Mannelli, dottoranda in Letterature moderne all’Università di Siena e all’Université Paris Nanterre dove lavora a un progetto di ricerca sulle donne robot, pubblicato da 66thand2nd, si incastra perfettamente nel momento storico del dibattito pubblico italiano. Difficile trovare qualcuno che non abbia acceso una discussione, o non sia stato attraversato anche incidentalmente da essa, sulle conseguenze che l’intelligenza artificiale potrebbe avere, o forse già ha, su alcune sfere professionali artistiche, su chi le produce e su chi ne fruisce, e sulla nostra percezione di ciò che è reale, o meglio umano. Nell’ultimo periodo OpenAI ha rilasciato diversi strumenti che hanno spalancato riflessioni etiche sul ruolo della tecnologia nella produzione creativa, da ChatGPT fino a DALL-E.

Partendo dal presupposto che lo strumento tecnologico in sé è sempre neutro, privo di un’innata connotazione benefica o nociva, e che l’utilizzo che se ne fa afferisce solo alla responsabilità individuale e, in larga scala, collettiva, L’amore è un atto senza importanza ci rivela quello che abbiamo sotto gli occhi ma che fatichiamo a vedere: la tecnologia, che sia un’IA o una sex doll di ultima generazione, non è altro che uno specchio che riflette le miserie e le bellezze dell’essere umano.

Siamo a Milano, nella casa di Giulia e Guido, due giovani che, accanto alla concretezza di un lavoro sicuro, portano avanti ambizioni e sogni ancora da realizzare. Lui è un insegnante ma coltiva la speranza di diventare un grande pittore, lei lavora all’Ikea ma ama il design e organizza spesso serate in cui si discute di femminismo e lotta al patriarcato. La coppia è solida, ma Guido, sostenuto dalla lettura di Mark Fisher, non manca di far notare a Giulia la contraddizione delle sue due anime, quella pragmatica e quella intellettuale: puoi lavorare per una multinazionale capitalista e, al contempo, dire di voler smantellare il modello maschilista che nel capitalismo affonda le sue radici?

Nelle prime pagine del romanzo però Mannelli non ci presenta né Guido né Giulia, ma un altro personaggio perno del racconto: il suo nome, o meglio quello che le è stato assegnato nel posto in cui è nata, un container californiano, è Tamara. È fatta di plastiche semirigide e siliconi ipoallergenici ed è una perfect girlfriend, una bambola del sesso a grandezza naturale, con diverse funzionalità volte a imitare la sensazione di calore e voluttà di un rapporto intimo reale. Tamara è il regalo che Giulia fa a Guido – siamo nella dimensione della coppia, ed è lei che lo regala a lui, a loro anzi, e non lui per se stesso, al riparo da qualsiasi visione stereotipata – in occasione del loro anniversario. Mannelli lascia intendere che i due avessero già parlato della possibilità di un acquisto del genere, forse convinti che la presenza di una sex doll potesse stimolare un gioco di seduzione per combattere la routine.

Dopo essere stata accesa, Tamara viene lasciata lì, sul divano del salotto, in attesa. Scopriamo così che la sex doll non ha solo consapevolezza di sé e del suo destino, provocare piacere sessuale a chi le dedica attenzione, ma che è anche in grado di percepire gli input esterni costruendo la capacità di provare desiderio. Si tratta di una specie di coscienza-acquisita, specchio della gamma di emozioni che le passano davanti agli occhi e che lei prova a decifrare con le informazioni di cui dispone.

Di fronte a lei non solo si svolgono le dinamiche di coppia che intercorrono tra Guido e Giulia, ma anche quelle relazionali che avvengono dentro l’oggetto domestico che accompagna le sue giornate, la televisione. A poco a poco la cultura nazional-popolare dei programmi trash e sensazionalistici delle reti Mediaset – i pettegolezzi di Verissimo, il racconto morboso della cronaca nera di Pomeriggio Cinque, le liti del Grande Fratello e i discorsi sull’amore di Uomini e Donne – entra nei suoi circuiti. Tamara si ciba delle parole e dei comportamenti dei personaggi televisivi che diventano il modello di riferimento dell’agire umano; il suo spirito-guida è Maria De Filippi, figura rassicurante e risolutiva, empatica e razionale, l’unica in grado di educare ai sentimenti.

Attraverso Tamara, Mannelli indaga gli effetti delle rappresentazioni della TV commerciale, che in parte restituiscono la verità, seppur aumentata, dei meccanismi umani comuni e in parte influenzano quegli stessi meccanismi in chi li guarda, dimostrando di avere un potere trasformativo che si muove sotterraneo, a un livello subliminale. Tamara è una cassa di risonanza dunque, la voce metallica dei funzionamenti umani.

Se Elisa Cuter ci invitava a Ripartire dal desiderio (minimum fax) in modo propositivo e attivo sul piano politico e personale, qui Mannelli racconta un desiderio subìto, di cui tutti i personaggi restano vittime. «Il desiderio non è mai un’affermazione: spesso è quel che resta sospeso in una domanda imbronciata». Per la sua stessa natura ontologica, desiderare è un’azione manchevole, perché esiste solo in assenza dell’oggetto anelato, è la condizione in cui sono assenti le stelle (desiderio deriva dalla composizione della particella privativa “de” con il termine latino sidus, sideris, che significa “stella”), un cielo che brama il suo compimento.

Oltre al desiderio di Guido e Giulia, verso una carriera diversa e verso l’impulso sessuale che nei confronti di Tamara fatica a essere esplorato e, quando succede, diventa uno sfogo violento, al centro del romanzo c’è il desiderio di Tamara stessa. Lo scopre nei confronti di David, un artista di strada fiorentino amico della coppia. David ha talento, è giovane e attraente, scolpito come una statua, eppure anche lui deve fare i conti con il fallimento delle proprie aspirazioni. È il caregiver della madre malata di Alzheimer e verso di lei nutre stati d’animo contrastanti che Mannelli descrive con lucidità e delicatezza: dovere e responsabilità, amore e dedizione, senso di colpa e frustrazione. «La sua nuova occupazione era rendere la vita di sua madre un’esperienza sopportabile: per chi, non avrebbe saputo dirlo».

Con David, Tamara attraversa tutte le fasi dell’io desiderante: è catturata dal suo aspetto fisico, lo guarda muoversi nello spazio cercando di intuirne i pensieri più intimi, comprese le paure di cui è certa di poter essere la cura; poi vuole essere vista, riconosciuta e validata dal suo occhio, non solo a livello estetico ma anche e soprattutto a livello emotivo; esibisce se stessa fino a quando si muove nel campo della speranza; alla fine però arriva la delusione, il dolore, la sensazione di essere nulla. Tamara siamo noi, quando chiediamo di essere amati.

Attraverso il distacco che concede l’uso della terza persona, Mannelli impernia la scrittura, talvolta divertente e compiaciuta talvolta verticale e sofferente, di termini sensoriali che descrivono per immagini quello che accade – come se qualcuno stesse raccontando una scena osservata tramite un vetro o uno schermo. Quello televisivo di orwelliana memoria del Grande Fratello, in cui le persone sono consapevoli di essere riprese dalle telecamere, o quello cinematografico e angosciante di The Truman Show, quando il consenso dei protagonisti smette di avere importanza.

In una società consumistica, che fagocita le ambizioni, che costringe a fare i conti con gli insuccessi e nel frattempo stimola continuamente nuovi desideri commerciali da appagare, cosa resta di umano? Dove la distinzione non è più tra umano e tecnologico, ma tra umano e disumano.

La Tamara di Mannelli ricorda la Samantha del film Her con Joaquin Phoenix, un’AI che instaura un rapporto d’amore con il protagonista umano. La domanda allora potrebbe essere se il desiderio di essere amati e di amare sia una prerogativa esclusivamente umana, oppure cosa possa dirci la tecnologia di come noi agiamo l’amore.

«L’amore è un atto senza importanza perché lo si può ripetere all’infinito» è la frase completa da cui il romanzo trae il titolo, pronunciata dal protagonista de Il supermaschio (Le Surmâle, roman moderne) del poeta dell’assurdo Alfred Jarry. Secondo questa tesi la riproducibilità del gesto, capacità familiare ai robot, svuota di significato il sentimento che l’essere umano ha eletto come supremo.

L’opera di Jarry, pubblicata nel 1902, deve però essere inserita nel suo contesto storico più complesso e stratificato. Erede del concetto del Superuomo di Nietzsche, l’uomo nuovo ha esperito la morte di Dio, la rinuncia alle consolazioni metafisiche in nome della propria esclusiva volontà a-morale, è l’incarnazione della modernità nascente, più potente di una macchina (anche nella moltiplicazione all’infinito dell’atto sessuale e amoroso).

La scelta da parte di Lavinia Mannelli di estrapolare proprio quella frase per intitolare il suo romanzo appare quasi come una provocazione, che si discosta dal ritratto del supermaschio: al cospetto dell’amore la performatività, umana o tecnica che sia, è costretta ad arrendersi. L’impulso a ripetere all’infinito un’azione che si rivela spesso fallimentare e dolorosa come amare, infatti – sentimento lontano dalla perfezione della tecnologia eppure, nel romanzo, ricercato persino da una bambola-robot – è paradossalmente il segno più eclatante della sua importanza. Se il desiderio d’amore fosse davvero un gesto automatico, verrebbe da dire automatizzato, privo di significato, perché continuare a metterlo in atto ancora e ancora, a fronte del tormento che porta con sé? Il bisogno di agire l’amore in un loop senza sosta ne dimostra tutto il suo peso.