Nel cinema si balla molto spesso: a Parigi si consumava un ultimo tango, Judy Garland alla Città di Smeraldo ci arrivava a suon di quadriglia, Fred e Ginger danzavano sempre come se non si sarebbero mai più rivisti. L’ultima ballata di Charlotte Wells sembrerebbe un testamento d’amore nei confronti di un padre con cui una figlia ha ballato una sola volta, per poi bloccarsi in quell’istante infinitesimale in cui si è sentita voluta.
Con Aftersun la regista scozzese racconta la vacanza di Calum trentenne (Paul Mescal) e di Sophie undicenne (Frankie Corio), durante la quale i due si rapportano in un’occasione particolare, al di fuori dalle dinamiche familiari. È proprio la parentesi esotica di un viaggio che offre l’opportunità di spogliarsi di ogni convenzione affettiva e sociale per l’esplicarsi di un percorso di crescita. Sophie è alle soglie dell’adolescenza e ne sperimenta i passaggi tipici; Calum è alle prese con l’incertezza emotiva ed esistenziale di un uomo che si è ritrovato padre poco più che ventenne. La costruzione narrativa è composita, un amalgama di punti di vista: quello della regista, quello dei due protagonisti grazie ai filmini della loro telecamera, e quello che sembra provenire da flash dal futuro. Sono questi ultimi a dare una prospettiva più “inquietante” nonostante il resto appaia come un momento familiare complesso sì, ma in linea di massima piacevole.
Wells concede l’accesso a un’esperienza privata, stratificando linguaggio e tecnica narrativa, e lo fa non in modo schietto o semplice, ma utilizzando piuttosto una forma sofisticata, ingegnosa, che accompagna lo spettatore in un dramma sottile. L’operazione in atto è quella di un’archeologia dei ricordi in cui si scovano tracce di un tempo che si credeva differente. Non sussiste un principio di verosimiglianza per cui si assiste al dispiegamento totale di un’esperienza passata, bensì chi assiste è di fronte alla sua riformulazione grazie all’occhio della Sophie adulta. Quest’occhio è tout court l’obbiettivo della telecamera (quella di Wells, quella dei protagonisti) che gioca nel campo della memoria, nell’abilità della mente di rivestire i fatti di una patina più comprensibile. Un ballo in un resort fatiscente, il primo bacio in piscina, una partita a pallanuoto non sono semplicemente quello che sembrano.
Nell’incapacità di trattenere ogni singolo ricordo, la memoria ne salva solo le tracce più significative, creando un resoconto emotivo; i frammenti vengono rielaborati dall’emozione associata a quel determinato evento, producendo così una summa che influenza la crescita individuale. Un ricordo è quindi costruito su più livelli: dal più rarefatto al più fattuale; basta una sensazione fortuita per far sì che questo danzi. Lo stesso fenomeno si replica quando si ha la possibilità di avere una prova effettiva di quel ricordo e, nello specifico, di possedere una telecamera: l’obiettivo riprende i momenti felici selezionando le cose da rievocare seguendo la scelta di chi filma. Sophie sceglie ricordi estemporanei, divertenti, talvolta inventati; altre volte tenta di catturare un racconto più intimo ma la camera viene spenta (dal padre) e quella della regista continua a riprendere il riflesso di uno schermo vuoto. Wells e Sophie si danno il cambio per ottemperare l’una alle lacune mnemoniche dell’altra, senza mai lasciare il loro cavaliere, tenendolo fisso al centro delle riprese.
Questo padre tradisce una tristezza profonda, strutturale, che incide sulla capacità di comprensione di Sophie, nonostante lui rimarchi a più riprese la propria genitorialità con obbligati gesti da papà: insegnarle tecniche di autodifesa, metterle la crema doposole, promettersi reciprocamente di raccontarsi ogni cosa. Tutto questo mentre viene eviscerato da Wells spogliandolo di ogni ruolo familiare nel tentativo di riempire delle lacune narrative e mettere in discussione quella summa emotiva prodotta da un ricordo di Calum differente. Tale dinamica è ribadita in alcune riprese girate da Sophie durante le quali inventa eventi mai accaduti e scimmiotta una bambina che si diverte, o nei momenti in cui cerca di interpretare la figlia felice forzando Calum a fare altrettanto, fallendo sempre. Calum il più delle volte riesce a vincere le resistenze di Sophie persuadendola, come quando la convince che quella è stata una bellissima vacanza. La protagonista ricrea un apparato di immagini personalizzato, consapevole che una storia dovrà raccontarsela; l’affezione verso l’altra persona passa anche dalla scelta di cosa ricordare e cosa aggiungere per colmare i vuoti: la stessa Sophie afferma di avere comunque una “videocamera mentale” quando il padre le intima di spegnere quella vera. Sophie è in una fase “creativa”, tesse un reticolato di esperienze che ne faranno un’adulta; è intelligente, più matura della sua età, spia il mondo che la circonda mentre si rapporta al sotteso malessere del padre. È significativa, infatti, la serie di frame che riporta al presente, alla Sophie adulta e al suo ultimo ballo, che completa il linguaggio da un punto di vista più esterno, quasi oggettivo.
È una sorta di trompe-l’oeil in cui il pubblico si ritrova dapprima davanti ad una selezione di soli bei ricordi per poi allontanarsi, cambiare il punto di vista e affidarsi all’esposizione più completa: inquadrature strettissime si alternano ad altre più ampie con esseri umani appena distinguibili, come a voler attestare che quello è un rapporto padre-figlia come molti altri. Una costruzione così complessa parrebbe un semplice esercizio di stile, ma in realtà consiste più decisamente in un processo di rielaborazione (personale?) della regista che non arriva mai al totale disvelamento risparmiandosi l’accusa di semplice formalismo.
Di questa vacanza decadente, da persone bianche medio-abbienti, che comprano tappeti persiani e succhiano Piña Colada, Sophie porterà solo il contenuto della sua telecamera mentale; il padre terrà con sé quella reale fino alla sua età adulta e solo allora potrà comporne un mosaico più esaustivo. L’ultimo tassello sarà l’occasione di un altro ballo, confuso e stroboscopico, una chiosa malinconica ma che restituisce un senso di verità profondo; con buona pace di chi colleziona solo belle cartoline.
Ampio, luminoso e accogliente. Dotato di ogni comfort e in contesto signorile. Se ascoltate bene, potete sentire riecheggiare fra le sue mura i rimpianti per libri ancora da leggere e per film ancora da vedere. Prezzo da concordare. Chiamare ore pasti.