Vento in coda. Intervista a Maria Gaia Belli

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Il novembre del 2021 ha portato nella letteratura italiana un’ottima notizia: il fantasy nostrano è vivo e sta bene, alimentato da penne che lo nutrono non solo con vicende singolari e appassionanti ma anche, soprattutto, con ottima scrittura. Maria Gaia Belli con La dorsale. L’anno del ferro, primo volume della sua trilogia edita da effequ, ne è una delle esponenti e testimoni più notevoli. Un mondo magnificamente costruito (in cui tecnologia e divari socioeconomici slittano sulla realtà attuale inglobando elementi tipicamente fantasy), una lingua scarna e ruvida ma dotata di grande controllo letterario e variazione di registri, caratterizzazioni mai banali tracciano l’invito dentro quello che promette di essere un intreccio avvincente e complesso.

Il novembre del 2022 l’uscita di La dorsale. L’anno dell’oro conferma le aspettative seminate e le espande: le figure messe in campo nel primo volume stabiliscono legami che vanno dall’affetto al conflitto (spesso le due cose non sono distinguibili, come nella realtà), iniziano a cercare un posto per sé, a collocarsi negli spazi e nelle articolate gerarchie dell’Accademia, l’istituzione che domina la dorsale e gestisce i draghi, mutati da Belli non più in mitologiche creature sputafuoco ma in animali potenzialmente convertibili in forza lavoro e mezzi di trasporto.

Il (novembre?) 2023 ci porterà il capitolo conclusivo de La dorsale ma già la lettura dei primi due volumi è stata un’ottima fonte di interrogativi, che ho quindi pensato di porre direttamente all’autrice.

La dorsale è una storia che, racconti spesso, è con te da molti anni. Quali sono le sue radici? Come si è assemblata e come è cambiata, sia nel tempo che nella traduzione dall’immaginario alla scrittura?

Le radici di La dorsale vengono da una necessità di sopravvivenza: quando ero bambina, come anche oggi, ho sempre avuto bisogno di qualcosa da immaginare per sostenere la realtà.
Questi personaggi sono nati come amici immaginari, poi sono rimasti, e andando avanti nel tempo la loro presenza si è fatta sempre più chiara e dettagliata, e sono diventate persone. Le persone vivono delle storie, e io ho ascoltato chi aveva più urgenza di raccontarle. Mi è sembrato naturale raccontarle con la scrittura, perché non riesco a dare un’impressione altrettanto viva con altri mezzi. L’evoluzione tra il buttare giù scene su fogli strappati a trilogia stampata e distribuita ha richiesto tempo di osservazione, tempo di stesura, ma soprattutto tempo di revisione. È un processo che ho vissuto con lo studio di storie e stili altrui, con la rilettura e la riscrittura, e soprattutto nell’ascolto di pareri esterni di altre persone che conoscono ormai questa storia quanto me.
Ovviamente parte fondamentale di questo processo è il lavoro con la casa editrice (effequ), che ha seguito e segue tutt’ora questa trilogia con l’attenzione, la delicatezza e l’entusiasmo con cui si manda per la prima volta un bimbo a scuola.

Tra meccanismi di potere oscillanti, posizionamenti e fazioni mutevoli, l’impressione in questo secondo volume (ancor più che nel primo) è quella di assistere al disporsi dei pezzi su una scacchiera cesellata negli anni e pronta e esplodere come il conto alla rovescia che separa i capitoli: com’è stato e com’è aprire questo lavoro – questo mondo – agli occhi degli altri?

Non è un po’ la sensazione che viviamo anche noi? L’impressione che tensioni e forze superiori all’individuo stiano preparando un’apocalisse a breve?
Condividere questo mondo per me è molto doloroso. Come scrivevo sopra, la sua esistenza per me è sopravvivenza. Io ci vivo dentro come e quanto i personaggi, e trovare improvvisamente estranei che si aggirano per la mia piccola casa-mondo, che è stata per tanti anni ad accesso limitato, è straniante. Dopo i primi momenti di rifiuto di questa estraneità, che ho vissuto sia per l’uscita del primo che del secondo volume, ho accettato che questo mondo non è più solo mio e che non posso controllarne per sempre gli accessi: al contrario, significherebbe farne una gabbia, in cui sarei chiusa io per prima.
Non so cosa succederà all’uscita del terzo, che concluderà questa storia. Probabilmente, per me, niente di buono. Per i miei personaggi invece vorrà dire poter finalmente entrare in quella parte di vita che non è romanzo.

Ai protagonisti di L’anno del ferro Kam, Luk e Key si aggiungono ora nuovi personaggi e nuove voci, una su tutte – ma non l’unica – quella di Leila. Ciascuno è marcato da una diversa prosa, approccio, linguaggio, o persino strumento usato per raccontarsi (sono presenti, ad esempio lettere e pagine di diario). Com’è parlare per conto di figure tanto diverse tra loro per indole, cultura e provenienza?

Per me è abbastanza naturale, perché lavoro attivamente con loro: ascolto quel che dicono e lo riporto, un po’ come una stenografa. La difficoltà non è tanto quella di rendere uniche le loro voci perché già lo sono, ma farne una narrazione leggibile. Non posso semplicemente riportare le loro parole o pensieri così come escono, devo necessariamente rimodellarle, come ogni fatto – fantastico o reale – che passi nel filtro della narrativa.
Quella con cui ho meno difficoltà è Kam, perché è una persona pratica e diretta e di solito sa già dove andare a parare. Con Luk e Key faccio più fatica perché il primo chiacchiera con me, più che raccontare, perciò devo ripulire molto e rimettere in ordine; il secondo invece si perde in dettagli che interessano a lui ma non alla storia, perciò devo tagliare e selezionare. Leila è ancora un altro paio di maniche: è una persona estremamente riservata che centellina i suoi interventi e le informazioni, e per ogni suo pezzo resto in attesa per anni come neanche al call center delle poste. Le lettere sono abbastanza complesse da riportare, perché devo adeguare il linguaggio scritto di Felix – che sarebbe più roboante e vetusto di come lo leggete ora.
In Dorsale 3 ci sarà poi un’altra voce, che parlerà molto, ed è quella che in fase di scrittura mi mette più in difficoltà: è la mia preferita.

L’anno dell’oro copre una distanza temporale molto ampia, nella quale assistiamo alla crescita, in un certo senso alla formazione, dei protagonisti. A differenza dei più classici topoi del fantasy non c’è un nemico alle porte, nessun grande signore oscuro da fronteggiare, eppure sin dalle prime pagine incombe una guerra, mantenendo così una tensione crescente per tutta la durata degli eventi, e in un certo senso aumentandone il valore, rendendo le relazioni che i protagonisti instaurano ancora più preziose. È sicuramente una scommessa vinta ma anche una scelta molto peculiare. Come sei arrivata a questa impostazione narrativa?

La struttura narrativa è questa da molto tempo ormai, e ricordo di esserci arrivata mettendo uno vicino all’altro diverse scene e racconti, per poi andare a sistemare dove si vedevano le cuciture.
Il countdown sulla guerra fu il consiglio di un caro amico, Giovanni Peparello, che spesso trova elementi inediti a cui dare risalto per rendere una storia più avvincente. Non ci ho pensato io per prima forse per un motivo: non sono una grande fan delle storie “produttiviste”, cioè che devono per forza offrire qualche colpo di scena o evento maggiore per solleticare il lettore. Per i miei gusti, la puntata di Dragon Ball dove Goku e Vegeta prendono la patente è mille volte più preziosa di quelle in cui la Terra esplode.
In generale, l’indicazione sull’avvicinarsi della guerra serve a due cose: 1) dare una scansione obiettiva del tempo, perché altrimenti il tempo, se narrato solo in prima persona, non scorre in modo obiettivo; 2) ricordare al lettore che non è parte del mondo, che può accedere a diversi punti di vista contemporaneamente e che può sapere più dei narratori, e questo gli permette di avere una percezione diversa di ciò che raccontano.

Altra anomalia rispetto al fantasy tradizionale è la scelta di trasformare i draghi in creature molto più vicine all’animalità che esperiamo nel mondo reale: non del tutto innocui ma spogliati della loro potenza letale, della loro magia e persino del fuoco. Paradossalmente la figura di Kam, cresciuta praticamente da sola sulla dorsale si rivela assai più selvaggia delle bestie che cavalca. Come si declina il dualismo tra selvatichezza e addomesticamento nella tua narrativa?

Il motivo per cui Kam sembra più selvaggia della maggior parte dei draghi è che lo è: lei è cresciuta nei boschi, i draghi in stalla. Non sono d’accordo sulla mancanza di letalità dei “miei” draghi, di certo manca loro il fascino del potere sovrannaturale che hanno i draghi mitologici. Ma letali possono esserlo comunque, come può esserlo il calcio di un mulo, anche se non ci affascina quanto le zanne della tigre. Questo per dire che a volte tendiamo a fare una divisione romantica tra selvatico e domestico, e che secondo me non è un dualismo. Semmai è una compresenza di possibilità che esiste negli uomini come in alcuni animali, date certe condizioni. Questa compresenza – la possibilità di essere selvatici e domestici – rende una specie più versatile a quelle modificazioni che garantiscono la sopravvivenza.
Date le condizioni in Dorsale 1, Kami è un’umana selvatica, addomesticabile come alcuni animali selvatici, violenta come solo gli animali selvatici possono permettersi di essere. I draghi che cavalca non sono mai stati selvatici, e sono impossibili ormai da rendere tali. Ciò che lega selvatico e domestico è un rapporto di violenza. Probabilmente i miei draghi hanno perso il fascino della mitologia non tanto perché non sono letali, ma perché invece di usare violenza, la subiscono.

Quali sono i riferimenti, letterari ma anche cinematografici, artistici, videoludici, che hanno influito più degli altri sulla tua scrittura in generale e su La dorsale in particolare?

Credo che la narrazione che mi ha influenzata di più sia Final fantasy, non uno in particolare. Li ho giocati tutti, iniziando da bambina, e mi hanno accompagnata per anni in mondi fantastici enormi, coerenti e dettagliati. Mi hanno dato la misura di quanto sia complesso un mondo inventato, anche se piccolo, e soprattutto mi hanno mostrato personaggi in carne e ossa, persone vere con emozioni, preoccupazioni, fragilità, anche sotto i vestiti improbabili, gli incantesimi e gli spadoni.
Le mie storie scritte preferite sono quelle di Jack London, dove si viaggia molto e si vede il mondo da prospettive improbabili. Però, come ho detto molte volte, credo che la scrittrice che più mi ha influenzata sia Agota Kristof, per il suo stile minimale e la sua capacità di scrivere una storia incredibile in una lingua che non era la sua.

Credi che al momento ci sia un fermento nella letteratura italiana (fantastica ma non solo) e, se sì, ritieni che esista anche una rete che avvicina tra loro i vari autori, un bisogno diffuso di confronto e corrispondenza?

Non so, a questa domanda posso dare una risposta molto parziale, perché la mia percezione è che al momento il mondo della narrativa italiana sia chiuso in tante piccole bolle. Nella mia piccola bolla, fatta di scrittori e scrittrici che ormai sono la mia famiglia, la fantasia è il mezzo principale per raccontare il reale. Ma temo che non ci sia la possibilità di un confronto realistico, al momento, perché il confronto richiede la presenza dell’estraneo. Uscire dalle proprie bolle, che si occupano di nicchie ben precise, è difficilissimo. Per esempio, fuori dalla bolla in cui stiamo parlando adesso io e te, il fantasy difficilmente è considerato letteratura, e viene escluso da dialoghi in merito, e con escluso intendo che viene confinato in precisi spazi fisici dove non può interagire con altre bolle. Il rischio di parlare della propria bolla da dentro è quello di essere autoriferiti, e questo temo sia un tipo diverso di fermento, quello che di solito porta un ecosistema ad ammalarsi.

Chi ti segue sui social sa che i tuoi personaggi hanno anche una controparte illustrata che ti diverti a elargire di tanto in tanto. Il disegno e in generale la dimensione visiva ti sono di aiuto nell’impostare la tua narrazione o sono un divertimento a cui ti dedichi a posteriori?

Il disegno è fondamentale, mi permette di dare forma a una parte di ciò che immagino. Per me è una specie di bozzetto di quel che scrivo, lo uso come un modo per prendere appunti. La manualità stimola molto l’immaginazione, per cui quando non so bene cosa scrivere e come coloro un po’, di solito così mi sblocco. Poi certo, è divertente, ma anche scrivere lo è. Non farei niente di tutto questo se non fosse divertente.

C’è qualcosa del terzo volume che non vedi l’ora di anticipare? Nel caso sentiti liberissima di farlo qui, riceverai in cambio molta gratitudine.

Vorrei ma non posso, ovviamente. Mi spingo a dire che ci sarà una voce nuova, che è mia croce e delizia, di un personaggio che amo follemente. Ci saranno uova di drago e molte scelte definitive da fare. Posso dire che lavorare al terzo libro, al momento, è molto complesso, perché ci sono tante cose dentro, più persone e più nodi da sbrogliare – vecchi e nuovi.

«Il tempo trasformò il fuoco in una storia, e i draghi in animali come tutti gli altri». Questa citazione non viene da La dorsale, ma da un tuo racconto, La regina del fuoco, apparso su Nazione Indiana a ottobre 2022, poco prima dell’uscita di L’anno dell’oro. È interessante parlare della tua narrativa partendo non dal centro ma da un suo “derivato”, perché dà la cifra della potenziale espansione che l’universo della dorsale non solo consente, ma in qualche modo richiede. Quando si chiude l’ultimo libro si desidera subito avere di più, sapere di più e non solo sui protagonisti di cui ci dirà il terzo volume, ma più in generale su tutto il mondo in cui si muovono. Oltre sottolineare nuovamente la solidità del tuo worldbuilding, ho fatto questa lunga introduzione per approdare alla domanda più semplice che si pone chi resta incantato dalla tua storia: quello della dorsale è un mondo che intendi continuare a esplorare anche a trilogia conclusa?

Certo, anzi, non credo di saper fare molto altro. Ho provato a fare altro e m’è venuto male, quindi non vedo perché costringermi a fare qualcosa che non sento mio. Ho molte cose da dire sul mondo e la gente della dorsale. Tedio già amici e parenti da anni, e se mi verrà data la possibilità di farlo, tedierò all’infinito anche voi.
Di sicuro a breve uscirà una novella, che racconta la storia di una persona che abita nella Regione, ambientata in un periodo coevo a quello di L’anno dell’oro. In futuro mi piacerebbe parlare di una storia più lunga e complessa, che comprende diverse voci e ambienti. Per ora la sto osservando, vedremo se e quando arriverà il momento di scriverla.