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Mondocane, una distopia del nostro tempo

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«Nella favela nata all’ombra dell’acciaieria, i figli dell’abbandono sopravvivono senza legge. Dimenticati nella città simbolo di un paese segnato dal degrado ambientale».

Nell’ultimo periodo l’occhio artistico, cinematografico e non solo, sta interpretando sempre con maggiore frequenza il magma del reale attraverso la lente della distopia. L’idea di una anti-utopia è sicuramente sempre esistita nell’immaginario creativo come avvertimento o presagio di uno scenario negativo possibile, qualora gli assetti del presente prendessero una determinata piega indesiderata. La tendenza più recente, invece, pare raccontare un mondo futuro inevitabile, che parte da disfunzioni politiche, sociali ed economiche già in atto, sotto gli occhi di tutti e tutte senza bisogno di sforzi immaginifici. 

Mondocane, film diretto da Alessandro Celli presentato in concorso alla 36° Settimana Internazionale della Critica nell’ambito della Mostra del Cinema di Venezia e distribuito nelle sale dal 3 settembre, prende avvio proprio da un presupposto già accaduto nel nostro tempo: il disastro ambientale e i danni alla salute di lavoratori e famiglie causati dalle emissioni nocive dell’acciaieria Ilva di Taranto. Il soggetto e la regia di Celli, con la produzione di Matteo Rovere e della sua Groenlandia, insieme alla Minerva Pictures di Gianluca Curti, ritraggono il capoluogo dell’omonima provincia pugliese utilizzando la chiave del cinema di “genere” nella sua accezione più felice, con caratteristiche pop che soddisfano il gusto del pubblico senza paura di ambire a tematiche impegnate, solitamente relegate al cinema d’autore. Il registro stilistico resta facilmente fruibile, avvitato in un’estetica post-apocalittica dal sapore punk, ma le intenzioni esplorano spazi finora rimasti vergini.

In una Taranto non così futura, dunque, Pietro e Christian (Dennis Protopapa e Giuliano Soprano), due adolescenti, orfani, specchio dello stato di abbandono e della ruvidezza di una generazione senza più riferimenti educativi né prospettive, sopravvivono su una barca fissata al porto di Tamburi, fantasticando ogni giorno – in uno strettissimo dialetto tarantino – di unirsi alle cosiddette Formiche, una banda di criminali composta quasi interamente da ragazzi e ragazze loro coetanei, capeggiata dal famigerato Testacalda (Alessandro Borghi). 

Una parte della città è ormai recintata e isolata a causa dei flussi cancerogeni dell’Ilva, trasformata di fatto in un polmone tossico pieno di delinquenza contro cui la Polizia tenta maldestramente di agire; al di là si erge invece la Nuova Taranto, divisa per settori e classi. Nel momento in cui si configura lo schema di questo mondo distopico, lo spettatore è indotto a porsi molti interrogativi: come è stata evacuata la città vecchia, dove non restano che disperazione e violenza? e in che modo sopravvivono gli adulti malati relegati ai margini della società ma non ancora disposti ad abbandonare la propria terra natia? e, ancora perché Testacalda è l’unico personaggio che non parla (quasi) mai in dialetto? Sembra che Roma non sia più la capitale d’Italia e che tutte le speranze di futuro debbano essere rivolte all’Africa, unico luogo dove un riscatto personale appare ancora possibile. Restano però tutte supposizioni dell’osservatore più attento, confermate debolmente da risposte parziali tratteggiate lungo il racconto cinematografico, buchi che, se colmati, avrebbero conferito maggiore spessore e credibilità all’arco narrativo. 

Visivamente Mondocane è accompagnato da una sorta di filigrana tendente al giallo che rende la fotografia polverosa e senza tempo, ma che rischia alla lunga di sortire un effetto poco realistico, come fosse uno sfondo di plastica sopra cui i personaggi si muovono bidimensionali e monocordi. La bellezza del film sgorga piuttosto dai tratti somatici dei due giovani attori protagonisti che, grazie alle frequenti inquadrature strette, esprimono il senso della crescita come fioritura in mezzo all’asfalto: improvvisa vita dal niente.

Testacalda è il leader della banda delle Formiche. Alessandro Borghi, occhi sempre sgranati, baffi lunghi e sguardo allucinato, interpreta il padre/padrone riconosciuto come guida non tanto per motivi anagrafici quanto piuttosto per lo scarto culturale di cui dispone rispetto agli altri. Più che una famiglia, però, la brigata sembra una setta: regole, rituali, isolamento, rapporti di forza sottilissimi tra Testacalda e i bambini che vengono puntualmente accolti ed elogiati o puniti e denigrati a seconda del loro comportamento. La fisicità morbosa del personaggio di Borghi, le richieste continue di abbracci collettivi talvolta tenerissimi talvolta inquietanti, il carisma come potente ascendente da utilizzare su chi lo circonda a seconda delle esigenze, sono tutti elementi che ricordano il temperamento di Vincenzo Muccioli così come è stato raccontato nella docu-serie di Netflix SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano. Quanto più sarai vicino alle grazie del capo e seguirai i suoi dettami, tanto più otterrai salvezza, riconoscimento e potere. 

Mondocane ben si inserisce in un solco tracciato dalle opere visive degli ultimi mesi che hanno disegnato il mondo residuo di catastrofi in mano a bambini e bambine in balia dell’anarchia, in cui l’indifferenza selvatica del degrado ambientale costringe a inventarsi nuove leggi a partire dall’assenza di sovrastrutture ideologiche (vedi: il crocifisso che Christian si porta sempre appresso senza essere conscio del suo significato simbolico-religioso). Da La Terra dei figli di Claudio Cupellini, tratto dall’omonima graphic novel di Gipi – le prime scene sono quasi sovrapponibili per il senso di desolazione, nonostante il taglio più intimista conferito da Cupellini alla pellicola rispetto alle scelte più esibite di Celli – fino alla serie tv Anna di Niccolò Ammaniti dove anche la violenza più feroce, come nel film in oggetto, diventa strumento messo in mano ai figli dell’abbandono per creare una nuova narrazione di sé e di ciò che è intorno a sé. 

L’evoluzione della trama di Mondocane si snoda in parallelo a quella dell’amicizia tra i due protagonisti, a partire dall’evento che rompe l’equilibrio di alleanza e solidarietà fin lì raggiunto: l’adesione alla banda delle Formiche e, di conseguenza, il modo in cui le dinamiche del gruppo agiscono sul duo, finendo per invertire i ruoli di debole/forte. Quando un’esistenza rimasta invisibile per anni assume dignità solo attraverso il riconoscimento che gli altri le attribuiscono, capita che si senta invincibile e, allo stesso tempo, che diventi irrimediabilmente miope, incapace di distinguere le cose autentiche.

Nota a margine merita Sabrina, personaggio interpretato dalla giovane attrice Ludovica Nasti, la Lila bambina de L’amica geniale, fortunata serie tv tratta dal ciclo di romanzi di Elena Ferrante. Tra le pochissime figure femminili, Sabrina ha l’aspetto di una adolescente ma la risolutezza di una donna adulta, instancabile e coraggiosa nonostante la condizione in cui è costretta a vivere, in una specie di orfanotrofio che sfrutta il lavoro minorile in modo perfettamente legale. La performance di Nasti sarebbe stata ancora più riuscita se la trama avesse meglio indagato il carattere di Sabrina, sia in senso verticale, nella sua profondità, sia in senso orizzontale, nella sua storia personale passata.

Mondocane parla anche di malattia, di punti di snodo ipotetici, di bivi e crocevia che ci pongono di fronte alla terrificante opportunità di scegliere tra tutte le alternative possibili. A tal proposito, lascio scoprire a chi non avesse ancora visto il film quale dei due protagonisti sia “Mondocane” e intuire, seguendo le sue tracce fino alla scena finale, perché il regista, tra le varie opzioni, abbia decretato di intitolare così la pellicola.

Taranto futura disvela dunque storture che prendono forma già nel nostro presente, assurgendo a metafora di un allarme molto più esteso rispetto alla micro-dimensione della città specifica, allarme di cui dovremmo non più preoccuparci ma seriamente occuparci.