Intervista

«Eppure tu risorgi nelle storie» Intervista a Francesca Matteoni

21 min. di lettura

«Questa non è una favola».
Mentre piante avvelenate si trasformano in mostruosi ibridi pronti a stritolare tutto ciò che esiste, la vita di una città senza nome (che poi è il mondo intero) continua impassibile e ignara: gli uomini restano come sempre ciechi alla rovina che incombe in forma di nera infiorescenza. Spetta così a un pugno eterogeneo di personaggi cercare di arginarla: l’inquieta ragazzina Talia, che dorme sogni agitati e seppellisce animali morti, l’Antica Bess, una donna dalle molte vite e sapienze, il folletto Tundra, creatura bambina e secolare, unita da un legame simbiotico e inscalfibile al gatto Peive. Intorno a loro gravitano poi figure ancor più strane, sempre oscillanti nella dialettica mai risolta tra buio e luce: Testadilepre, un ragazzo maledetto (?) da una metamorfosi, un Nomade dall’ombra di lupo con la sua Berenice, a sua volta cane e lupo, lo spirito arboreo Ramosecco, completamente sfiduciato dagli uomini, e ancora lo stregone Senzastelle che intossica la flora e due sorelle che sono al contempo Grandi Madri e Orse mutaforma, tessitrici di destini e osservatrici fuori dal tempo.
Eppure, al di là di queste premesse, Tundra e Peive non è una favola, Francesca Matteoni lo afferma già nelle primissime pagine del romanzo e continua a ribadirlo man mano che la narrazione avanza, mutando continuamente le proprie sembianze senza arrestarsi in un genere (gli elementi fantasy si combinano a quelli distopici, l’allegoria alla fiction speculativa di stampo ecologico) o cristallizzarsi in un unico registro (cambiano di volta in volta le voci narranti, si passa dalla poesia alla prosa senza soluzione di continuità).
Tundra e Peive è soprattutto una (difficile) scommessa vinta, che concilia elementi diversissimi e apparentemente divergenti in un’armonia sghemba e insospettabile. Bacchette magiche e folletti vengono strappati dal recinto della letteratura per l’infanzia – o meglio, la letteratura per l’infanzia in toto viene strappata dai suoi margini ristretti – e restituiti alla possibilità della grande narrazione, a una dimensione che sa essere anche cruda e violenta, contraddirsi eppur mantenere un senso. Attraverso questa lente caleidoscopica e improbabile Francesca Matteoni offre un ritratto privo di remore sulle condizioni del pianeta, su una natura colpita e dolorante, che trova perfettamente spazio all’interno della collana Terra di Nottetempo di cui è ospite. La scrittura sa essere ludicissima e commovente, offre a ogni personaggio uno spessore autentico, una caratterizzazione che va oltre la distinzione manichea della scacchiera messa in campo, scardinandone i quadrati e rimescolandoli ogni volta.
Tundra e Peive è poi per me soprattutto la scusa perfetta per tornare a dialogare con Francesca, e lasciar emergere alcune delle moltissime domande che affiorano in testa mentre si legge il suo libro straordinario.

Questa non è una favola, siamo d’accordo, è un testo composito, ibrido, che però pesca fieramente da tutto un immaginario tipico del fantastico e del folklore (penso a myling, kelpie, streghe, mutaforma etc.). Il confine tra reale e immaginario è labile e infatti la replica di Tundra all’affermazione «Ti stai inventando tutto» è «E che differenza fa?». Dunque ti chiedo innanzitutto: cosa vuol dire scrivere fiabe, oggi? Si potrebbe definire un atto di resistenza?

È un atto di resistenza e di resa insieme. Siamo più vasti di quello che vediamo, della cultura in cui siamo o ci crediamo iscritti, del tempo che abitiamo. Più vasti proprio quando accettiamo che ci siano dei limiti e che essi siano il trampolino di tuffo per l’immaginazione. Una fiaba è aprire una porta e sbirciare fuori… è familiare, eppure diversa. Scriverne una significa entrare nell’universo emotivo che fa parte di noi tanto quanto il cibo che ingeriamo, e se ciò che mangiamo è già di per sé un atto politico, lo stesso vale per la nostra capacità di stare negli immaginari, nelle paure, nel senso della fine, nel corpo che accoglie tantissime vite. Quale problema ci sia con il fiabesco lo capisco poco. Dante va all’Inferno e poi sale, spesso sognando, il monte del Purgatorio fino a saltare in Paradiso. È accaduto davvero? Certo, accade ogni volta che l’atto poetico si avvera. Non è una grande fiaba, questa? Basile è colui che nella Napoli tardo seicentesca dà inizio alle fiabe letterarie, anche se furono i Grimm a fare delle fiabe un manifesto romantico e – di nuovo – politico, per unire un popolo. Ma tolte dai loro contesti specifici e identitari le fiabe dicono sempre qualcosa di come in certe geografie si comprendono le relazioni.
Prendo le parole che hai citato.
Attraverso il kelpie, puledro fatato del mondo celtico, possiamo risalire alla storia del cavallo, animale di per sé mite che nel folklore diventa spaventoso. Perché? Perché il cavallo arriva dall’Asia, con i barbari in più ondate, il suo ingresso in Europa è connesso alla morte e al mistero feroce dell’altro che avanza e devasta.
Myling, parola nordica che indica certi spiriti senza pace, di solito feti abortiti o bambini abbandonati alla morte. Infanticidio o disgrazia che sia. Non mi sembra una cosa da poco.
Sulle streghe: da storica che ha studiato l’epoca dei processi, mi innervosisco molto quando sento trattare l’argomento come una sciocchezza. Una sciocchezza per cui nell’Europa moderna sono state uccise decine di migliaia di persone innocenti – donne e uomini. Forse le loro vite non contano? E le loro morti?
Su fiaba e politica, senza dimenticare Gramsci, mi piace citare Giuseppe Pitrè, medico siciliano che curava chiunque, chiedendo una storia a chi non poteva pagarlo. Fu eletto nel consiglio comunale di Palermo quale consigliere indipendente, sostenuto dalla gente del suo quartiere.
Se non è politica questa! Viviamo tempi cupi e immaginari diversi, che guardino alla terra con amore, agli spiragli di luce con stupore, possono indicare una via. Penso spesso a cosa significa fare politica, da persona che si è messa in gioco, in questo senso, a livello locale. Tuttavia fra le molte battaglie e amarezze la cosa più politica che io abbia mai fatto è stata (è): raccontare fiabe, in una stanza comune, a tutti – bambini, adulti, anziani – e cambiare con loro il volto delle storie.

La genesi di Tundra e Peive è stata molto lunga, un romanzo che hai nutrito e custodito negli anni. Com’è portare con sé una storia per così tanto tempo e com’è cambiata crescendo insieme a te?

È stato difficile lasciarla andare. Lo è ancora. Non perché non la senta compiuta, ma perché la letteratura è un segreto condiviso e questo è sia bello sia terribile. Nella mia vita, fin dall’infanzia, ci sono moltissimi personaggi e storie, che a volte appaiono in quello che scrivo, in modo più o meno manifesto: Tundra, Peive e gli altri volevano uscire. Li ho protetti a lungo, dentro di me, come si cerca di proteggere la parte più fragile e preziosa di noi, temendo il cinismo e l’ostilità della cultura umana nella quale ci troviamo. Il mondo è più grande della nostra piccola comunità linguistica, ma che ci piaccia o meno ci diciamo attraverso gli altri e a volte per tutelarci nascondiamo con maschere elaborate quello che ci fa tremare nel profondo. Per me questo romanzo è prima di tutto la storia dei suoi personaggi, tutti esistenti e forti, loro molto meno preoccupati delle reazioni umane, di quanto lo sia la loro interprete. Lo devo a loro. Dalla prima immagine, arrivata molti anni fa, questi personaggi si sono legati a coloro che incontravo – e perdevo – nel mondo dei fatti (ma non del vero). Mi parlavano all’orecchio camminando per Brockwell Park nel sud di Londra, o davanti al computer, a sera, con qualche volpe che veniva a rufolare nei bidoni, quando mi ero spostata nel nord della grande città. Testadilepre, per esempio è apparso una sera, mentre rientravo a casa, con un cappello, calato fin sugli occhi. Non aveva niente della lepre o del coniglio, ma molto dell’umano. Era qualcuno che avevo perso, ovvero era morto. La morte ci consegna l’altro per sempre, in un paradosso doloroso. Gli animali dei Campi Perduti sono apparsi dopo, in un prato vicino al torrente, nella periferia collinare di Pistoia. La vicenda, forse la più tragica, del Senzastelle, ha avuto il suo sviluppo definitivo l’estate scorsa, quando mi trovavo di nuovo in Inghilterra, nel Dartmoor, in un posto molto speciale dove c’è un faggio enorme, ricoperto di muschio, che dà ombra, conforto e meraviglia. Ecco, dovevo “ucciderlo” per avere la storia. Berenice è il cane lupo che non ho mai avuto. Peive è molto, moltissimo, è la forma dell’amore e questo l’ho capito nel tempo. Le parole di Tundra invece sono sempre state chiare, fin dal principio. Comprese le molte sciocchezze che ama ripetere.   

«Parli come un bambino, mi dicevi. Io non conoscerò altra lingua». Tra gli elementi più affascinanti di Tundra e Peive spicca sicuramente lo scarto comunicativo, non solo tra le diverse specie ma anche all’interno di una soltanto. L’insufficienza linguistica è un paradosso se posta all’interno di una storia scritta (dunque doppiamente trasposta): com’è stato mettere in parole e trasformare in narrazione questo sentire?

Quella frase è l’inizio del libro, anche se si trova a metà. Tutto sgorga da lì o da quel “non sa parlare” che in Tutti gli altri (Tunué, 2014) facevo dire alla bambina che sono stata, mentre tentava di tradurre le intenzioni di un piccolo gatto, che gli adulti non sapevano ascoltare. È un manifesto per me. “Non conoscere altra lingua” significa sia morire al mondo dell’evidenza, sia schierarsi con una lingua rispetto alle altre. Qui accadono entrambe le cose. Il paradosso è che scriviamo proprio per dire l’intraducibile, scriviamo perché ogni volta che amiamo siamo estraniati da noi stessi e questo straniamento è il principio della poesia. Andremo piccoli e sghembi fra le parole compiute e ragionevoli per difendere il nostro continuo morire alla lingua. Il bambino che scompare diventando altro chiede di fare uno sforzo e accoglierlo. Non crescerà, non vuole crescere – ma al contrario di Peter Pan non perché incapace di sentire gli altri: è negli altri che si immerge. Gli altri che non parlano la lingua del potere, di chi si illude di averne. Gli altri che si trasformano, si inselvatichiscono, fuggono e cercano alleanze. Il bambino conoscerà solo la loro lingua, che poi è la sua stessa infanzia, viva mentre lui cede, terra del ritorno. 

Restando sulla lingua: leggendo il romanzo è evidente l’importanza che riveste per te la musicalità della parola, la tua capacità di alternare fluidamente la lirica alla prosa e di mantenere l’incanto anche nei passaggi più feroci o crudeli. Vuoi raccontare un po’ come la tua esperienza di poeta si innesta nella tua narrativa?

La poesia fa nascere le storie, perché è la poesia, anche quando nascosta nella prosa, che evoca i mondi. Comunque la si scriva o disponga sulla pagina. Per me non esiste una differenza sostanziale: l’idea di base è affidarsi al suono e allo stridore delle parole per tentare di ascoltare gli esseri nelle loro voci proprie. Secondo le regole comuni le foglie di un albero forse frusciano. Nel mio libro “sciamano”, animalesche. Non è forzatura: le avete mai viste le foglie di un albero quando si muovono avvicinandosi e allontanandosi, come uno sciame? Chi ascoltate quando l’albero è nel vento? La regola stabilita o il vivente?

«“Ma i sogni non sono veri, oppure valgono per il futuro, come i desideri? Accadono davvero, i fatti della memoria?”. “Ogni volta che li ricordi accadono in un altro modo”». Gli spazi della memoria (e dell’infanzia) sono quelli più esplorati, non solo in Tundra e Peive, ma nella tua narrativa in generale, penso a Io sarò il rovo (effequ) ma anche a Tutti gli altri che citavi prima, in cui i piani temporali si mischiano, ma anche alle poesie di Ciò che il mondo separa (marcos y marcos). La dimensione della fanciullezza e il suo ricordo – la dimensione della piccolezza, in tutti i sensi possibili – può essere il nucleo di partenza, il punto giusto in cui posizionare lo sguardo per cercare direzioni nuove?

Per me senz’altro sì. Cosa ricorderemo nella scrittura? A volte, penso, che ricorderemo il futuro e il futuro è sempre bambino. È l’esserci stati da piccoli, l’aver sognato, l’aver voluto uscire dal nido a tutti i costi, anche cadendo al suolo. Quell’essere stati piccoli, anzi piccole persone, avrebbe detto Ortese. Io da piccola non volevo essere grande, volevo essere “me”. Cosa significasse era un mistero, lo è ancora, forse riassumibile nel tentativo di non tradire quanto ci è sembrato importante la prima volta che lo abbiamo visto, ovvero riconosciuto, avvertendone la parentela perfino se inquieta e complessa. Essere piccoli significa poter guardare negli angoli, nei pertugi. Non so se vale come risposta – fra i miei giochi preferiti ci sono sempre state bambole minuscole, Fiammiferini, Mimmine, sorprese Kinder, che tenevo con me in tasca o in una borsa infantile e davano forma tangibile agli amici immaginari. Penso che questo sia confluito nel baule di Tundra. Essere piccoli significa cercare vie per cavarsela. Un mondo di giganti perde interesse anche nel cielo. Per chi è piccolo l’arcobaleno sta in una goccia di pioggia, in una pozza di benzina. E poi l’infanzia è dove tutto accade. Pensiamo a quel libro straordinario, Infanzia berlinese, di Walter Benjamin. Lo lessi tanti anni fa, accanto al fuoco di una stufa di montagna, in uno dei miei luoghi – anzi in uno dei luoghi a cui appartengo. A libro chiuso immaginai Benjamin quando moriva per suicidio, in fuga dall’infamità del nazismo: non era davvero a Port Bou: io lo vidi su tutt’altro confine, completamente pronto al tuffo nelle cose inutili – cassetti, conchiglie, minuscole meraviglie, del suo essere stato bambino. 

«Aveva come voglia di piangere e ridere insieme, perché lasciava casa e tuttavia se ne andava con il sentimento di una casa indistruttibile, migrante, fatta di lui stesso e dell’animale che lo amava». Tundra e Peive approfondisce modi diversi di strutturare i concetti di casa, comunità, amore, oltrepassando le barriere di specie e familiarità, e tu hai appena raccontato di come esseri a te cari si sono infiltrati nella storia diventandone personaggi e guide. Vorrei quindi chiederti cosa significa per te creare dei legami.

La casa è dove torniamo, anche se i luoghi non esistono più, anche se chi era casa se ne è andato. Nella scrittura si può tentare l’impossibile: riportare indietro i morti. Ma la realtà è che i morti stanno bene dove sono, e ciò con cui dobbiamo invece venire a patti è la loro vita con noi. Ho scritto di un gatto bianco e rosso, Peive, prima ancora di sapere che un gatto simile, anche se un po’ tonto, sarebbe entrato nella mia vita, Ariel. Ho scritto per l’amore che mi ha donato un altro gatto, per cinque anni che sono un’eternità: un gatto nero dagli occhi buoni nel quale si è nascosto lo spirito di un’intera comunità. E ho scritto per i fratelli perduti per dare loro riscatto, per dire: “è andata così, ma non è vero che siete scomparsi – questa è una bugia a cui non credo. Vi siete ricomposti in altro. Avete plasmato la memoria. Ne avete tratto una fiaba che ascolto finché vivo”. La memoria nasce dalle cose spezzate, sgorga con una sua potenza che connette l’individuo alla storia più grande. Io non voglio ricomporre le cose spezzate come se la frattura mai fosse stata. Ogni mia parola semmai canta la crepa, il taglio e non annulla la sofferenza, ma la attraversa. È così che i legami formano una solitudine corale, permettendomi di sapere che non sono mai sola, anche se a volte, come credo molti, non trovo comprensione nei dintorni. La mia scrittura ha la lingua della mia vita autentica, che non si affanna per rendersi sostenibile a un qualche consesso di contatti precari. Una vita che si esaurisce nella cronaca, nel dibattito presente, nel “tutti contro tutti” di poteri che non possono nulla, di frequentazioni tese esclusivamente a un risultato, non nutre alcun legame. Come tutti però provo a farne parte, perché c’è una confusione di fondo su cosa sia la solitudine, e talvolta vorrei riempire lo spazio di parole condivise, usando qualsiasi pretesto. Davvero condivise? I miei personaggi sono più saggi di me. Riconoscono lo spreco e non lo sbagliano con il perduto. Sanno aspettare, sanno che il tempo si apre continuamente e permette l’incontro, quando e con chi deve essere. Infine c’è il ramo materno della mia vicenda personale, ovvero l’essere cresciuta soprattutto fra donne, qualcosa che ho voluto mettere dentro Talia e nell’Antica. Questa rete di donne, alcune imperscrutabili e crudeli, altre forti e comprensive, è un tributo alle donne che sono state famiglia, ben oltre i legami di sangue.

L’ultima volta che mi hai consigliato un libro è stato Credere allo spirito selvaggio di Nastassja Martin, di cui ho ritrovato l’eco leggera in Tundra e Peive e che tu hai approfondito ulteriormente in La donna che divenne orso (Edizioni Volatili). Quali sono i libri e le voci che ti hanno accompagnato nella scrittura, sia per quanto concerne questa storia nello specifico che nella tua opera come autrice?

Moltissimi, alcuni in modo manifesto e consapevole fin dall’inizio. Faccio una piccola premessa: vi ricordate com’era leggere nell’infanzia? Ci immergevamo nelle storie, senza alcun pensiero per chi le aveva scritte. La consapevolezza che ci fosse una voce autoriale, un tramite per dei mondi, è una fase del crescere. Per me accadde a undici anni, con La storia infinita di Michael Ende. Andai da mia madre e le annunciai: “Voglio leggere tutti i libri che ha scritto lui”. Sentii che potevo appartenere al suo mondo, più che ad altri, sentii che era possibile, oltre le pagine, una vicinanza umana con chi scriveva. Di sicuro quel libro riverbera nelle mie storie.
L’afflato ecologico, l’infanzia, la capacità di ricordare insieme al sacrificio necessario del dimenticare. E le creature. Poi c’è un omaggio piuttosto esplicito a Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson di Selma Lagerlöf, nel prologo, con quel volo da una terra nordica (anche se nel mio libro si parla di lago Inari, in Finlandia, non di Svezia). In quel libro si supera il linguaggio umano, il protagonista infatti viene mutato in folletto e così capisce tutte le lingue animali, e così facendo si attraversano la geografia e la storia di un paese: troviamo l’orfanità, il progresso industriale e la risposta delle foreste, la malattia epidemica, il conflitto che tiene la vita a ogni livello e la meraviglia dei legami solidali intraspecifici. Ed è un libro considerato per bambini, pur essendo ben lontano dall’idea odierna di mercato per l’infanzia.
Naturalmente c’è Peter Pan. Ci sono le fiabe: Hansel e Gretel, il pifferaio di Hamelin, per citarne due. C’è Yeats, come sempre. Ci sono entrati i documenti processuali di alcuni casi di stregoneria scozzesi, anche se riadattati e ripensati per questa avventura. C’è il vecchio mito gallese degli alberi in guerra, lo stesso che troviamo negli Ent di Tolkien. E poi libri meno fantastici come La vita del lappone di Johan Turi, e un omaggio, a mio modo, alla coralità di La collina dei conigli di Richard Adams. Ci sono le piccole persone di Ortese e il suo monaciello napoletano. E Puck e Ariel di Shakespeare e I libri della giungla di Kipling, forse i testi che ho letto più volte nella mia infanzia. Infine molti fumetti (pensa, la prima versione di Sogno di una notte di mezza estate che ho mai incontrato era a fumetti su un Corrierino dei Piccoli del 1981) e molte canzoni – ho perfino fatto la playlist di Tundra e Peive. Sono libri che cito spesso, ma questa è una storia che nasce tanto tempo fa.

Ariel nell’orto.

«Mi avrebbe perforato il cuore. L’anima avrebbe avuto un foro per respirare». Alla base della tossicità della Malvaspina, degli atti venefici del Senzastelle, ma anche della personalità eccezionale e scapestrata di Tundra c’è una ferita. L’elemento del trauma dei personaggi si riflette in quello perennemente inflitto dall’uomo su tutto ciò che uomo non è (o che anche da uomo non rispecchia specifiche, conformi, caratteristiche). Tuttavia: «Si diffondeva invece un silenzio che dettava il respiro come il canto di tutte le cose che finiscono e si liberano, pronte a rinascere, cariche di promesse. Tutte le cose che vengono ricordate per essere lasciate andare. Tutte le cose che vengono amate nelle ferite splendenti, nella volontà di guarire». Da dove passa questo desiderio di guarigione?

Guarire è simile a vedere. E dopo aver visto ricordare che c’è altro di ancora non riconosciuto. Quando qualcuno che amiamo muore, magari tragicamente, rispondiamo: “non è giusto”, Guarire è varcare queste parole e chiederci: cosa ne sappiamo della giustizia? Penso al dio di Giobbe, a come lo redarguisce dicendogli, in breve, tu che ti lamenti che ne sai della vastità degli oceani, delle notti, del lavorio degli astri, di quanto ogni giorno dispongo nell’universo? Questo dio non è così lontano dalle signore del fato che ho messo come orse nella storia, indifferenti eppure attente a ogni dettaglio. Il mondo si riconfigura per vie intrecciate, e la sua giustizia è incomprensibile nell’immediato. “Fidati della traccia di lacrime e impara a vivere”, scriveva Paul Celan. Fidati e la traccia di lacrime diventa il grande fiume che ti sostiene. Un fiume che passerà oltre, ti dimenticherà finché non sarà il tuo momento per essere ricordata in qualcosa: una pietra, una mente animale, un cadere di pioggia. Fidati.  È con questa fiducia che parlo ai fratelli che sono là fuori, nel paesaggio, nelle cose. Secondo le tradizioni di vari popoli nativi delle Americhe, quella che noi chiamiamo “anima” non sta qui dentro, ma là fuori. Dobbiamo uscire per conoscerla. Non è un concetto diverso dal principio dialogico di tanta filosofia occidentale, semplicemente è radicato nella vita quotidiana di tutti. Non forma il pensiero di alcuni, forma la spiritualità terrena dei popoli. 
Ecco guarire è questo movimento che porta fuori. E fa mormorare che le cose non sono in noi, ma noi siamo in loro.

«Eppure tu risorgi nelle storie». La narrazione è possibilità di lenire o assimilare il dolore? Che ruolo ha il racconto in un mondo solcato da tante ferite?

Ha il ruolo di sempre: tenersi nella notte, perché forse la luce non proviene soltanto da un moto fisico di rotazione e rivoluzione del pianeta, ma dalla nostra capacità di risignificare le vite. Il mondo non è il male come non è il bene, è la relazione che va curata e la si cura immaginando attraverso le parole che sono parte di noi quanto le braccia, le gambe, i sensi. La narrazione in questo senso non lenisce e non conforta, ma scrive il dolore in un’ottica più grande, in cui possiamo finalmente comprendere che oltre alle vie conosciute ce ne sono altre ancora da tracciare e altre antichissime, perdute, che chiedono di riemergere. Attraverso le storie creiamo coraggio e se la speranza è importante, il coraggio è necessario, per decidere a chi vogliamo accompagnarci, a chi riconosceremo voce, nell’esistenza. 

Per concludere torno alla dimensione più superficiale del libro, che poi superficiale non è affatto: la sua collocazione editoriale – visibile sin dalla copertina – che lo posiziona all’interno della collana Terra di Nottetempo, finora dedicata alla saggistica ecologica. Cosa vuol dire firmare la storia che apre la vena della narrativa all’interno di questa collana?

Ne sono molto felice. Certo è anche un rischio: Tundra e Peive diventa ancora di più un oggetto difficile da classificare, ma ormai mi sono abituata a sentire queste parole per circa tutto quanto scrivo. Non so bene perché, non so nemmeno il senso di un tale classificare – non dovremmo prima sentire con l’intelligenza del cuore? Sono in una collana aperta da un saggio che è un’intervista oppure un lungo racconto sciamanico sul mondo, la sua fine, i suoi inizi vecchi e nuovi, donatoci da Bruce Albert e Davi Kopenawa, portavoce degli Yanomami. Già una simile scelta conferisce a tutta la collana una natura ibrida, aperta al coinvolgimento emotivo, all’immaginazione che accompagna un’indagine scientifica. Del resto la scienza è l’arte di osservare, e l’osservazione è anche la prima scintilla di ogni immaginario. Avere il mio libro nella collana significa credere che stare diversamente su questo pianeta non sia semplicemente un fatto di sostenibilità, riciclo, transizioni più o meno verdi, verdine o verdognole. Significa, come suggeriscono gli altri libri di “terra”, ri-sognare le nostre relazioni affettive con lo spazio e il tempo. Mi piacerebbe dire di Tundra e Peive, oltre a “questa non è una favola” che questo non è un romanzo, non è una poesia, non è un saggio. In pura chiave ecologica, è un luogo (come tutti i libri) che vuole, desidera profondamente, riversarsi nei mondi.

Illustrazione di Giulia di Ruscio