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Di immaginari e di mescolanza: Pauline Melville e Tamu Edizioni

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«Torniamo e partiamo e torniamo di nuovo, solcando e risolcando l’Atlantico, ma su qualunque lato dell’Atlantico ci troviamo, il sogno è sempre sull’altra sponda».

Uno di questi due paesi è immaginario di Pauline Melville è appena approdato nelle librerie nella traduzione di Pietro Deandrea. A pubblicarlo Tamu Edizioni, che con questo volume esordisce nell’ambito della narrativa.

Tamu nasce infatti nel 2018 come libreria, una fertile esperienza situata nel centro storico di Napoli che negli anni si è espansa con incontri, scambi e dibattiti, fino a sentire un’esigenza nuova, quella di ramificarsi e dar vita a una casa editrice. Così, nell’autunno 2020, la neonata Tamu Edizioni dà alle stampe il suo primo volume: si tratta di Elogio del margine – Scrivere al buio di bell hooks e Maria Nadotti, una scelta che traccia già la linea editoriale, radicandosi sin da subito come esercizio di rottura fatto di intersezioni e dialogo. Autodefinendosi come uno sguardo sul «mondo visto da Sud», la casa editrice si propone infatti di esplorare gli angoli più reconditi ma urgenti del contemporaneo, spaziando dai movimenti femministi e antirazzisti ai flussi migratori, dal postcolonialismo alla crisi ecologica, sempre conservando una prospettiva trasversale, che consenta di osservare la realtà da posizioni scomode, tutti quei Sud che ne puntellano, ignorati e declassati, la superficie.

Dopo aver pubblicato una serie di volumi di saggistica dal taglio complesso e curato – penso a Undercommons di Fred Moten e Stefano Harney, il già citato libro di hooks e Nadotti, ma anche Perdi la madre di Saidiya Hartman o Laboratorio Favela di Marielle Franco per dirne solo alcuni – nonché la splendida rivista semestrale Arabpop che segue quella fucina a cielo aperto che è l’oriente dalle rivoluzioni arabe del 2011 in poi, Tamu sceglie ora Pauline Melville per avviare un’ulteriore ampliamento della propria produzione e cimentarsi così nella pubblicazione di opere di narrativa.

Uno di questi due paesi è immaginario è una raccolta di racconti composita, mutevole – non è un caso che il titolo originale fosse Shape-shifter, “mutaforma” – dodici storie che si muovono oscillando tra Londra e i Caraibi, tra la compatta metropoli inglese e gli spazi aperti del Centro America. Figure di emarginati, svampite signorine perbene, operai, sarte che confezionano vestiti incantati si incrociano in spazi di confine, imbattendosi spesso e volentieri nel sovrannaturale. Quando si incappa nella portata immensa e tangibile dell’immaginario i margini di sogno e realtà convergono, le due sponde si mescolano come quell’Atlantico perennemente attraversato, sognato, cantato.

Pauline Melville, nata in Guyana nel 1948, da madre britannica e padre guyanese, si è trasferita a Londra giovanissima, incontrando sin dall’infanzia quella mischia caotica che è l’identità umana nel contesto del postcolonialismo. Ha lavorato per il Royal Court Theatre e il National Theatre, ed è apparsa in svariati film e serie tv, oltre a essere autrice e interprete di numerosi spettacoli di cabaret, tutte esperienze che confluiscono nella sua scrittura sia a livello stilistico che tematico.

Uno di questi due paesi è immaginario è il suo esordio letterario, pubblicato originariamente nel 1990, e accolto con il Commonwealth Writers’ Prize, il Guardian Fiction Prize e il PEN/Macmillan Silver Pen Award. La raccolta esplora le molte facce delle conseguenze del dominio coloniale inglese: gran parte dei personaggi ne sono vittime designate o carnefici più o meno consapevoli. Esempio brillante è il personaggio di Molly Summers nel racconto La radio e il ferro da stiro sono spariti. Insegnante inglese in visita in Guyana, animata da spirito caritatevole e presunta apertura mentale, Molly si ritrova presto a fare i conti con un universo nuovo e ingestibile, in cui il clima le è ostile – «sentiva di essersi trasformata in un miraggio, luccicante e irreale. Il suolo irradiava calore. Prima di salire in auto, si sollevò dal petto il vestito blu di cotone, ormai fradicio. Il sedile le ustionava le cosce. Si sentiva girare la testa» – e la natura impetuosa, inarginabile – «Chiuse di nuovo gli occhi: troppo cielo, pensò». Ma non sono il caos per le strade, il sole cocente e la vita difficile della popolazione a scioccare Molly: la visione, che la manda in crisi al punto di svenire, è un bianchissimo inglese che mendica per le strade guyanesi, epifania imprevista che fa collassare ogni certezza e svela la ristrettezza di vedute.

L’intera raccolta, come il mancamento di Molly Summers lascia intendere, è tutta permeata da un’ironia affilata quando non da una diretta comicità, in cui l’esperienza dell’autrice con i palchi del varietà emerge in una lingua tagliente, dalle battute fulminanti.

Le meschinità del quotidiano vengono accolte con sorrisi cinici, mentre trame inquietanti si dipanano a poco a poco, sfiorando il mondo sommerso delle credenze popolari della tradizione caraibica e combinandosi in un peculiare realismo magico. Emblema di questo processo è il bellissimo racconto Hai lasciato la porta aperta, in cui la protagonista subisce un’aggressione sessuale in casa, a opera di un uomo sinistro e dall’aspetto ultraterreno, che lei è convinta non appartenga a questo mondo. «Hai lasciato la porta aperta», le dice appunto l’assalitore ma lei intuisce che «era come se si stesse riferendo a qualche altra porta; come se, senza volerlo, avessi aperto con un colpetto di gomito una porta invisibile che dava su una qualche regione infernale, permettendogli di sgusciare fuori. Mi resi conto che non avrei mai saputo come chiudere questa porta intangibile o, peggio, che non avrei mai saputo come evitare di riaprirla per sbaglio, questa porta incorporea per l’inferno».

Questa labilità di confini è presente nella maggior parte dei racconti, in alcuni in modo palese, come La verità sta nei vestiti o La conversione di Millicent Vernon, in cui si manifesta la rivalità sotterranea tra cristianesimo e culti religiosi locali, dove le preghiere sussurrate a un albero di cecropia del Congo ricevono maggior ascolto di quelle rivolte a un crocifisso. Altre storie invece mantengono l’elemento su un piano differente. In Non prendo messaggi dai morti, il conduttore radiofonico Shakespeare McNab rischia di dover lasciare il paese per averne offeso il vicepresidente raccontando una fiaba tradizionale legata al dio ragno Anancy, mentre in Il litigioso un bambino muto che usa il linguaggio dei segni viene descritto come capace di «tessere menzogne con le dita», esattamente come la divinità a otto zampe. Ancora: in Una terra che finge una donna in fuga ricorda le raccomandazioni accorate della nonna: «Quante volte mi tocca ripetertelo?!? Non ci devi parlare, con gli spiriti!». E mentre il ladruncolo Tuxedo inveisce contro Dio – «“Che carogna. Sì, è con te che parlo. Me ne dai, di seccature. Sei crudele, per come la vedo io. Crudele, cazzo”. Parla con Dio nello stesso modo in cui parla alla polizia, con il suo accento londinese, e risparmia il giamaicano per gli amici» – avendo cura di apostrofarlo come farebbe come con un poliziotto inglese, perché, dopotutto, «se Dio non è bianco, come mai i neri se la passano così male?»; Lorna, in Mangia labba e bevi acqua di fiume, si trova imprigionata nella sua condizione mediana, né abbastanza caraibica, né abbastanza inglese, una condizione che Melville stessa probabilmente ha conosciuto bene: «Solo perché hai la pelle bianca e gli occhi azzurri credi di non avere sangue di colore, dentro, ma ce l’hai! Proprio come me. Ti scorre nelle vene, non puoi evitarlo».

Menzione speciale va poi al racconto La ragazza dall’arto celestiale, in cui l’incursione del fantastico arriva da una direzione del tutto imprevista rispetto al resto delle vicende: il regno arcano della matematica e della fisica quantistica. Una storia che rappresenta sia un unicum che una variazione all’interno dalla raccolta, proprio a sottolinearne il carattere molteplice, fitto di scambi e incroci dalle rotte imprevedibili.

La lingua di Melville si mantiene misurata e consapevole, ricca di dialoghi e scambi brillanti ma anche di descrizioni malinconiche venate di lirismo, a testimonianza che l’ironia può essere un balsamo di grande efficacia, anche se non riesce a guarire con facilità il dolore nostalgico che genera l’essere sempre divisi tra due rive: «Mentre guidava per le strade affollate, la assalì un immenso e irreparabile senso di perdita per l’isola in cui aveva vissuto un tempo, col mormorio dei suoi mari e il suono di voci femminili nella soave aria notturna, che sgocciolavano irregolari come melassa; per le persone che conosceva allora».

Uno di questi due paesi è immaginario ha dunque almeno due grossi meriti: innanzitutto è una raccolta vivace, linguisticamente arguta e narrativamente ben costruita. Proiettandosi poi su un orizzonte più vasto, funge da spinta propulsiva per l’espansione narrativa inaugurata da Tamu Edizioni, primo passo di quella che, c’è da auspicare, saprà rivelarsi un’interessante esplorazione del nostro caleidoscopico presente.