Cecità inizia nel traffico. Il protagonista sta guidando, perde la vista. Gli altri automobilisti lo aiutano. Uno si propone di accompagnarlo a casa dalla moglie, che chiama il medico. Lo porti subito, dice. Scendono in strada e si accorgono che la macchina non c’è più. Il ragazzo ha approfittato della cecità dell’uomo, o così sembra. Qualche pagina dopo, Saramago ci racconta che in realtà il ragazzo non l’aveva premeditato, si è fatto trasportare dal momento. Quando ho letto Sono fame di Natalia Guerrieri, ho riconosciuto Chiara nella strada in cui si apre Cecità, stretta, come quelle di Lisbona, che Saramago conosceva bene. Anche se – per un romano – il toponimo “la capitale”, il luogo non-luogo che fa da sfondo alla storia, è inequivocabile: Roma. Ma che sia proprio Roma, o Lisbona, cambia poco, Chiara sfreccia in mezzo alla città – ammesso la capitale assomigli a una città -, non è cieca, ma è affamata, da sé stessa, di stessa. Per lavoro cura la fame degli altri, suona il campanello: la rondine è arrivata con il cibo che avete ordinato.
Ecco: la parola chiave del romanzo è diatopia, cioè variazione (dia-) del luogo (topos). Un gioco bellissimo per un lettore (o almeno per me). Come in Cecità, la malattia è endogena, ed è il fattore che determina la direzione del rapporto individuo-società, uno spostamento. La diatopia più importante del romanzo è quella del corpo di Chiara; ciò che la divora è ciò che vuole e ciò da cui scappa. Una diatopia, un passaggio prigioniero di un paradosso, vittima e carnefice. Anche Chiara non vorrebbe rubare la macchina, però deve sopravvivere, la debolezza altrui va abusata, o qualcuno abusa la tua, così impari che «se nessuno ti ama soffri di meno». Di questo, e di altri mondi – direbbe Saramago –, ho chiesto a Natalia.
So che ti sei laureata in Italianistica a Bologna e che poi hai frequentano il corso di sceneggiatura all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma. Sfrutto una frase di Sorrentino di tanti anni fa in un’intervista a La7 – «se scrivere è costruire un divano, scrivere una sceneggiatura è mettere le parole sul divano» – per chiederti: cosa vuol dire scrivere narrativa e scrivere per il cinema?
Anzitutto, grazie Davide e grazie Marvin per avermi proposto di fare questa chiacchierata. Dunque, scrivere per il cinema significa scrivere qualcosa che deve essere recitato, girato, montato e infine mostrato al pubblico su uno schermo. La sceneggiatura, perciò, è un documento “tecnico”, che segue determinate regole, è diviso in intestazione, azione, personaggi, dialoghi, eccetera. Di solito, è richiesto uno stile neutro, la terza persona e il tempo presente indicativo, affinché la lettura sia il più possibile immediata. La sceneggiatura passa tra le mani di tanti professionisti differenti, dal regista agli attori, dallo scenografo al costumista, ogni reparto parte dallo script per sapere in che direzione deve lavorare sul set, per esempio come bisogna vestire gli attori, chi bisogna microfonare e chi no, quanto durerà una scena. In più, fra prosa e cinema, c’è una grande differenza a livello produttivo. Soprattutto in Italia – negli Stati Uniti, invece, si sta affermando la figura dello showrunner che garantisce una certa integrità e coerenza al progetto –, devi abituarti all’idea che la sceneggiatura che hai scritto oggi possa vedere la luce fra quattro anni, e che alla fine sia, probabilmente, diversa da come l’hai scritta. Per chi lavora nel cinema è normale, ma dovremmo smetterla di considerarlo tale, perché accettare tempi lunghissimi può essere umanamente e artisticamente provante. Al contrario, quando scrivo un romanzo, se voglio che ora, all’improvviso, cada una balena dal soffitto, posso scriverlo, senza pormi il problema di quanto potrà costare. Quindi, se dovessi scegliere, la scelta sarebbe scontata: narrativa. Anche se la solitudine della scrittura sa essere alienante, e a me piace lavorare in gruppo.
Rompiamo gli indugi. Siamo qui per parlare del tuo secondo romanzo edito da Pidgin, Sono fame. Da linguista, sono costretto a partire dal titolo, che è un’identità e le identità sono quasi sempre problematiche, di sicuro ambigue. Io Sono fame? Essi Sono fame? Cosa si nasconde dietro a questa sineddoche del titolo?
L’identità è uno dei temi fondanti del romanzo e volevo che il titolo restituisse un’incertezza. La fame del libro è di due tipi: quella di Chiara, giovane neolaureata in cerca del proprio posto nel mondo, è una fame “giusta”. Invece, quella degli abitanti della capitale è una fame smodata, distruttrice, e per me rappresenta una metafora della società in cui viviamo, in particolare in riferimento al mondo del lavoro neoliberista e alla sua natura famelica, soprattutto verso i giovani. Quindi: “io sono fame” si riferisce a Chiara, mentre “loro sono fame” indica gli abitanti della capitale e la capitale stessa.
Mi viene da chiederti: perché la fame? Mi ha ricordato due grandi classici, Cecità di Saramago, in cui la cecità è la malattia che lentamente contagia chiunque, e Brave New World di Huxley, in cui ogni abitante prende la soma, un medicinale per essere sempre felice, tranquillo, una sorta di anestetico. Ecco, nel tuo romanzo, mi sembra che accada qualcosa di simile con il cibo, è così?
Ho scelto la fame, cioè il cibo, perché credo che sia l’unica cosa di cui non possiamo fare a meno per vivere. Mi ha sempre fatto riflettere che dobbiamo mangiare per forza tre volte al giorno (ride): non possiamo farne a meno! Forse da qui proviene l’iperestetizzazione quotidiana del cibo, che lo trasforma proprio in droga, anestetico. E poi, ancora oggi, il cibo demarca le disuguaglianze: avere o non avere da mangiare fa differenza come poco altro.
Credi che il cibo sia più l’oggetto/soggetto dell’iperproduttività o dell’iperconsumo?
Di entrambi, contemporaneamente. Come scrive Byung-Chul Han in La società della stanchezza (Nottetempo, 2012), l’iperproduttivitàci rende imprenditori di noi stessi, passiamo dall’avere un padrone esterno ad averne uno interno. È come avere una piccola, seconda, “Natalia Guerrieri” che mi sprona a fare il più possibile, a competere con gli altri e con me stessa. Che succederebbe se smettessimo di farlo, se ci liberassimo da questa narrazione tossica? È la riflessione che mi ha indotto a inserire nel romanzo un’altra tematica legata alla fame, al cibo, ossia il cannibalismo.
Ho citato Saramago e Huxley anche perché credo che Sono fame sia un romanzo distopico nei temi, più che nella narratologia, come poteva essere il tuo romanzo d’esordio Non muoiono le api (Moscabianca, 2021). Ma più che la classificazione del romanzo – la tassonomia dei generi è ora di mandarla in pensione – mi interessa, per l’appunto, tematizzarlo. La radice greca del termine distopia allude al cattivo (<dis), uno degli oggetti narrativi di Sono fame; per la precisione, al cattivo luogo (<topos), che forse è proprio la capitale, il luogo-non-luogo che brulica di morte e fa da sfondo alla storia di Chiara.
Se il libro è distopico, non è volontario. Di sicuro, però, la morte è uno dei temi centrali del romanzo; credo sia un grande rimosso della nostra società, una questione irrisolta, enigmatica, al pari della cancellazione dei nonni e in generale dei defunti in Non muoiono le api. In Sono fame la morte è in ogni pagina. Ci convinciamo che il rimosso sia calmante, ma non è così. Fare i conti con la propria finitezza credo sia importante, formativo. Non è un caso che sempre Byung-Chul Han indichi la morte come l’unica situazione in cui la produttività è ferma, azzerata; ecco spiegato perché è rimossa. Se davvero facessimo i conti la nostra finitezza, con la morte, davvero lavoreremmo sette giorni su sette? Davvero, se riconsiderassimo la morte come evento, sposeremmo (attivamente o passivamente) l’ottica capitalista?
Resto sul tema della morte, o vado poco più in là. Chiara è una ragazza con un passato problematico. Se ha avuto dei lutti, non è chiaro. La tua narrazione a riguardo è pacatissima, quasi scostante. Chiara soffre per i suoi traumi, un po’ come tutti e tutte?
Mi premeva che la narrazione delle vicende legate al passato di Chiara non fosse eccezionalista: ognuno di noi deve affrontare delle difficoltà e ognuno di noi muore. L’eccezionalismo mi infastidisce e alimenta la rimozione della morte, del dolore. È molto più interessante camminare nella morte, o fare come Stephen King: raccontare un passato doloroso anche per i personaggi considerati “di contorno”, ammettendo così che la sofferenza è parte della vita.
Un altro rimosso – questo circoscritto soprattutto alla narrativa italiana – è la tecnologia, che in Sono fame c’è e disturba. Siamo ancora fermi alla sbornia realista del ’900?
Se ambiento una storia nel presente devo trovare il modo (non è affatto semplice e le vie per affrontare il problema sono molteplici) di inserire la comunicazione frammentaria e invadente in cui siamo immersi oggi. Le case editrici indipendenti hanno, fra i loro meriti, quello di lasciare spazio a forme narrative che sperimentano soluzioni nuove, con l’obbiettivo di raccontare come cambia la narrazione del mondo e il mondo stesso.
Il tema della tecnologia, che in Sono fame (e anche in Non muoiono le api) è anzitutto rappresentato dagli smartphone (nel secondo, i telefoni sono persino distrutti a un certo punto), è legato al fatto che – sono convinta – non si possa scrivere senza confrontarsi col proprio tempo; e la tecnologia è la cifra del tempo che viviamo, in molte forme. Rimuovendola, togli un pezzo di mondo, soprattutto quello dei più giovani. In particolare, in Sono fame volevo che la chat tra Chiara e Mario (il suo “astratto” datore di lavoro), rappresentasse un disturbo continuo, assillante, che in qualche modo facesse intendere – o almeno questa è la mia idea, ma è bello che ognuno si faccia la sua – che in realtà Mario è una parte di Chiara, il lato (di cui si diceva) che la spinge a essere produttiva e competitiva. Una sorta di schizofrenia non medica, ma sociologica, che rappresenta il motore di quel senso di nausea e oppressione alla base di tutta la narrazione. Quello che, volenti o nolenti, percepiamo ogni giorno lavorando gratis sui social. È il discorso al centro de Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff (Luiss University Press, 2019).
«Ogni abitudine porta con sé uno spettro», lo scrivi in un tuo racconto del 2019 e, in altra forma, lo ribadisci in Sono fame, che è un romanzo strutturalmente ripetitivo. Da un lato, l’iterazione bilancia lo sperimentalismo del romanzo (per esempio, riguardo la coerenza del narratore), dall’altro lo stempera, quasi che non volessi esagerare…
È così. Assieme al mio editor, Andrea Viscusi, e all’editore di Pidgin, Stefano Pirone, dopo le prime stesure abbiamo optato per un grande taglio, che lasciasse solo gli episodi principali della storia di Chiara nella capitale. A grandi linee, volevo che il romanzo avesse la struttura dell’horror, che funziona per accumulazione, e che, secondo me, è un meccanismo formidabile per trasfigurare una determinata realtà con delle problematiche sociali. In più, mi piaceva che la ripetitività si legasse al tema della macchina produttiva fordista: Chiara non è conscia del processo (chi prepara il cibo, come lo prepara, o chi sono le persone cui lo consegna), ma solo della sua piccola iterazione.
Prima di salutarti e ringraziarti, ti faccio un’ultima domanda sul tema dell’amore, così rispettiamo il dualismo eros-thanatos. Parto anche stavolta da una frase, per me una delle più belle del libro. La pensa Chiara: «a volte se nessuno ti ama soffri di meno». Anche l’amore (e/o l’affettività e/o la sessualità, quindi anche il corpo) è stato fagocitato dal magma iperproduttivo?
Purtroppo. Chiara lo dice all’inizio del romanzo e si riferisce al fatto che la società distingue tra chi ce l’ha fatta e chi no. Per esempio, per la mia generazione c’era l’imperativo di andare a studiare all’estero a tutti costi, scelta che di per sé non ha nulla di male, ma che nutre la logica che gli affetti di ciascuno di noi siano sacrificabili (per la carriera? per i soldi?), sempre perché ci raccontiamo che la morte non esiste e che quindi la tua mamma di sessant’anni sarà sempre lì ad aspettarti. Spoiler: non è così.
In più, certo, il corpo della protagonista della storia è molto importante per me. Volevo mostrare un corpo al lavoro, la sua fatica fisica, i limiti e le difficoltà nel compiere spostamenti, i pericoli della capitale che incombono su di noi. La narrazione che il lavoro sia ormai “immateriale” a mio parere fa acqua da tutte le parti. Possiamo, semmai, sostenere che la corporeità e la fisicità del lavoro sono nascoste, per alimentare l’illusione che sia immateriale, ma, ripeto, non è così.
Come ne usciamo?
Scappando della capitale…
O – prendo una frase che mi sembra faccia al caso nostro da Terrore anale di Paul B. Preciado (Fandango, 2018) – concordiamo sul mettere al centro della produttività l’ano, cosicché «anche dovesse arrivare il capitalismo, dovrebbe essere pronto a lavorare con la merda», e magari ci penserebbe due volte. Grazie mille Natalia Guerrieri.
(Ride). Non credo ci sia finale migliore. Sarà in esergo nel mio prossimo romanzo.
Nato a Udine da mamma piemontese e papà umbro. Legato a Roma. Laureato in semantica a Pavia; studia linguistica a Siena. Ha una pagina Instagram per perdere tempo.