Marvin_TuttoEraCenere

Stardust memories

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Ci sono stati tanti modi in cui ciascuno di noi, due anni fa, ha affrontato il periodo di lockdown. Ce ne è uno per me assolutamente spaventoso. Immagino un monolocale piuttosto sporco e in disordine, con libri ovunque, lasciati aperti per non perdere il segno, fogli sparsi (anche se, in effetti, oggi esistono i PDF), alle pareti foto di profilo di criminali dalle facce inquietanti. Immagino sigarette, playlist post-industriali (di cui non conosco neanche un autore) che vanno a volume e sullo schermo del computer tante tab aperte su vecchi forum degli anni zero con lo sfondo scuro. Questo, nella mia immaginazione, è il florido (si fa per dire) milieu da cui è sorto Tutto era cenere (edizioni Nottetempo).

Il suo autore, Simone Sauza, ha scelto di dedicare il libro, che è anche il suo esordio, ai serial killer. Stavo per scrivere saggio, ma il termine sarebbe stato impreciso. Sauza, infatti, decide di iniziare con alcune pagine presentate nella forma di un diario scritto durante gli ultimi giorni di marzo 2020. Qui la narrazione è personale e costellata di termini stranianti, paludosi (un po’ l’atmosfera che cercavo di abbozzare maldestramente poco sopra), mentre lo stile è piuttosto alto («il tempo durante l’isolamento è una piazza dove l’assenza di direzione perverte la libertà in agorafobia»). Si racconta ad esempio di un testo apparso nel forum ATRAX. L’autore, di cui conosciamo solo il nickname, xslv, racconta una sorta di mito ancestrale, ma del tutto inventato, che riguarda la figura di Giano. Poche pagine molto suggestive, equivalenti a dieci giorni di diario. Dopo di che prende avvio la parte centrale, la più sostanziosa dell’opera. Qui, per usare termini in voga, la theory prevarrà sulla fiction.

Prima tesi: ciò che fa di un essere umano un serial killer è una perdita di mondo, nella quale di colpo ci si ritrova incapaci di condividere la propria esistenza con l’altro, si fatica a riconoscersi in un “noi” a un livello simultaneamente linguistico, corporeo, emotivo (Sauza qui si rifà all’approccio (post-) fenomenologico di autori come Emmanuel Levinas o Merleau-Ponty). «Tutto era cenere» è l’espressione usata da un noto serial killer, Ian Brady, per esprimere questa condizione. È però importante evitare di inquadrare questo avvenimento nella categoria psicologica di trauma. Sauza mostra come sia infruttuoso, se non impossibile, delineare delle cause che portino qualcuno a divenire serial killer. Da qui il fallimento di ogni approccio psicologista (come quelli di profiling che si vedono nelle serie TV), in cui si vorrebbe ricondurre deterministicamente degli atti del tutto  inspiegabili e assurdi come gli omicidi seriali a un trauma infantile, che tipicamente risiede nel rapporto con la madre. La perdita del mondo, afferma Sauza, è semmai la «condizione di possibilità» di ogni trauma psicologico (questo semmai è filosofico, esistenziale e, lo vedremo, geologico).

I capitoli successivi analizzano il rapporto che gli omicidi seriali intrattengono con la società, e di come le rappresentazioni che mediano tale rapporto lo modificano in maniera decisiva. Seconda tesi: il serial killer reitera il suo gesto in un disperato tentativo di riaffermare la sua identità (o una sua parvenza), che gli perviene di rimbalzo dai media. Questi soggetti, a ben vedere, sono caratterizzati da una mancanza di personalità, sono «sopraffatti dal sociale» (paradossalmente, il serial killer che uccide decine di sex workers aderisce mimeticamente agli ideali borghesi, misogini e normativi). Tale analisi è preceduta da una disamina piuttosto affascinante sullo sguardo (quello della vittima e quello del carnefice, ma soprattutto il nostro, nel momento in cui potrebbe poggiarsi su uno snuff movie o sull’immagine di un corpo morto in una guerra). Qui l’idea è che la rappresentazione e lo sguardo non sono mai neutri: si pensi al caso limite dei custom video, nei quali gli atti di violenza sono compiuti per essere registrati e fruiti da coloro che li commissionano.

Terza tesi (l’elenco, ci tengo a dirlo, non è esaustivo): il fenomeno dell’omicidio seriale rappresenta un problema di fronte alla nostra (sacrosanta) volontà di esplorare una sessualità più ampia. Perciò, «tracciare una linea netta tra un ipotetico desiderio liberato e consensuale e la pulsione seriale a uccidere per soddisfare quel desiderio è un esercizio destinato al fallimento o alla mistificazione». Se i serial killer vagano in uno spazio senza coordinate (il “c’è” di Levinas, il y a), nelle loro azioni sono agiti da una forza assolutamente impersonale, un «fondo non soggettivo della soggettività», che si trova certamente in ciascuno di noi, seppur mediata dal mondo in cui ci sentiamo immersi. Nel quarto e ultimo capitolo, questa forza, che secondo Sauza si manifesta con chiarezza negli atti del serial killer, si rivelerà essere nient’altro che la pulsione di morte freudiana (sorpresa!). Re-immaginata insieme a Bataille e Nick Land, sarà da intendersi come un inarrestabile ritorno all’inorganico, una spinta che proviene dalla terra, e da un passato lontanissimo.

In Tutto era cenere la disquisizione più o meno teorica si alterna costantemente alla narrazione: si prendano ad esempio le efficaci ricostruzioni biografiche e le vicende di noti serial killer. In modo a mio giudizio meno efficace, compare qua e là anche una narrazione personale, per cui ad esempio un capitoletto intitolato Violenza e ripetizione comincia con la frase: «Ultimamente ho difficoltà a concentrarmi durante la visione di un video porno», cosa che a me, francamente, fa piuttosto ridere (non so se questo fosse l’intento).

Sauza sceglie di mescolare diverse categorie di scrittura, trattando un tema popolare e non molto accademico, avvalendosi dei filosofi più “affascinanti” (Deleuze, i già citati Bataille, Land). Nessuna di queste scelte è particolarmente originale, ma nel complesso funzionano bene, e rendono Tutto era cenere molto godibile. A proposito: ho l’impressione che, piuttosto che rivelarsi una moda passeggera, questo tipo di ibridazione letteraria sia ormai destinata a essere sempre più codificata, dimostrandosi sempre più efficace (come qui, per l’appunto).

Un’ultima nota, di carattere personale. Il filosofo Bernard Stiegler, morto ormai da quasi due anni, definiva un certo tipo di antropologia (intesa come visione dell’essere umano) con il termine di entropologia (l’entropia, ad esempio, è richiamata esplicitamente da Lévi-Strauss nella conclusione del suo classico, Tristi tropici: «l’uomo non ha fatto altro che dissociare allegramente miliardi di strutture»). È facile che si finisca per assumere una posizione del genere, nichilista, iper-pessimista (si pensi solo a Tra le ceneri di questo pianeta di Eugene Thacker, che il titolo di Sauza sembra richiamare).

Ebbene, io sono qui ad aspettare storie/divagazioni che se ne distacchino, magari rifacendosi ad “atmosfere” diverse e ad altre coordinate teoriche (sarei grato, ad esempio, se almeno metà dei riferimenti culturali non mi facesse troppa paura, e se non comparissero le parole weird, eerie e deterritorializzazione).