Le raccolte di racconti sono oggetti misteriosi e insondabili. Permettono, però, una libertà che non conosce confini né temporali né spaziali. Mi ricordo una frase di Chiara Valerio: leggere comanda quando e quanto, a differenza di un film che, per esempio, ha una durata stabilita. Ecco, se è così, per le raccolte di racconti vale la stessa ipotesi ma elevata alla n: se i racconti sono sedici, puoi partire dal quinto, continuare col quattordicesimo e finire col secondo. Anarchia narrativa: non c’è trama, non c’è intreccio. L’atto di libertà è fuso nell’atto intimistico. Una delle esperienze/conseguenze – a mio parere – più interessanti che determina una raccolta, e che ha inciso anche sulla mia personale lettura di Volevo essere Vincent Gallo di Sergio Oricci. I re dello svapo, Ipertricoticofocomelico e Oggetti – oltre a essere i tre racconti migliori della raccolta (uno di questi già pubblicato su Altri Animali) – credo riassumano meglio degli altri l’impronta di Oricci: una narrativa utopica, spietata e inconcludente. Insomma, sapientemente fuori di testa.
Dico utopica per “colloquialmente utopica”. Nel quotidiano, una bulimia dialogica di questo tipo ce la sogniamo; è oggetto solo di qualche realtà surrogata, manipolata. La raccolta di Oricci è piena zeppa di un surrealismo reietto. Penso all’incipit di Oggetti:
«Oggi che facciamo?
Il solito.
Giriamo il tubo fino a quando non flippiamo?
Che hai?
Un argento e una camera nera.»
La sintassi dialogica atopica e atemporale di Oricci funziona alla grande. L’immagine che mi ha accompagnato per la lettura dell’intera raccolta è questa: durante i dialoghi prendo fiato, nelle parti descrittive ho la testa sott’acqua. Una spola tra distinto e indistinto, tra fame e inappetenza. La frase «Ho cominciato a farmi di oggetti quando ero piccolo» apre al mondo del possesso, a una visione ariostesca alla rovescia: abbiamo trasformato i ricordi in oggetti, e gli oggetti non stanno sulla luna, ma sulla Terra.
Dico spietata per una ragione semantica: a differenza di quanto sembri, il linguaggio di Oricci è “significativamente” preciso, chirurgico. L’esempio di Ipertricoticofocomelico è emblematico. Di questo racconto mi ha colpito una frase: «la consapevolezza passa attraverso le ripetizioni». Che è l’intreccio – se ce n’è uno – di ogni raccolta di racconti. In Oricci la ripetizione non è mania, ma piuttosto ossessione teologica: un grido, una preghiera inascoltata. Nella maggior parte dei dialoghi i due interlocutori vanno per la loro strada, fanno le domande, si danno le risposte, non ascoltano l’altro. Se parlare è una delle chiavi della solitudine, Oricci ha aperto la porta.
Dico inconcludente perché i racconti di Oricci – nel segno della miglior tradizione letteraria – non vanno a parare da nessuna parte. Non voglio esagerare, ma quando penso a racconti, mi vengono in mente due nomi: Carver e Kafka. Del secondo, in Volevo essere Vincent Gallo c’è un lungo studio degli eventi, declinato in una personalissima variante assiologica. Del primo (che è figlio del secondo) c’è l’incomunicabilità del e nel quotidiano, la ricerca di ciò che è intimamente importante. Ripenso a un commento di Diego de Silva nella prefazione a Di cosa parliamo quando parliamo d’amore (Einaudi, 2015): «Carver non solo ti autorizza a raccontare ciò che non ritenevi importante, ma ti dà il coraggio di cercare modi efficienti che ti permettano di farlo». Tipo lo «Svapo», che è un tentativo di appartenenza, un bacio che non si sa se ci piace o meno, però accade. Un filosofo scriverebbe che si tratta di antideterminismo. In Oricci il determinismo va a farsi benedire o forse manco conta: il tempo dei racconti è un presente dinamico, sovraesteso.
Credo che la costruzione anticlassica di Oricci riveli una classicità di temi sorprendente. C’è un sogno, in Ipertricoticofocomelico, in cui un ragazzo è a una festa all’aperto con un bicchiere in mano – dentro c’è qualcosa, ma non sembra vino. Ha un aspetto anonimo e inizia a sudare. È molto triste e non ha peli in eccesso; è sicuro che sta camminando verso la disperazione. Sono molte le cose che ho collegato a questo racconto, ma una mi ha convinto più delle altre: un attacco di panico. Sì, la raccolta di Oricci è sulla malattia, etimologicamente l’abito del malato, di chi indossa il male, di chi sbaglia. Gli errori surrogati e surgelati sono l’armamentario perfetto di una raccolta di racconti.
Mi piace pensare che la costruzione del libro si basi sui mondi semantici in cui ogni parola ha un referente preciso solo nella dimensione in cui è; in un’altra, il referente è diverso. C’è solo una categoria di parole che pare faccia eccezione: i nomi propri. In Volevo essere Vincent Gallo quasi non ci sono, eppure è tutto vero.
Nato a Udine da mamma piemontese e papà umbro. Legato a Roma. Laureato in semantica a Pavia; studia linguistica a Siena. Ha una pagina Instagram per perdere tempo.