«L’anno in cui Ruthie Fear venne al mondo, suo padre sparò all’ultimo lupo della Bitterroot Valley». Così si apre il primo romanzo dello statunitense Maxim Loskutoff, Ruthie Fear, che gli è valso un secondo High Plains Book Award, dopo aver esordito con la raccolta di racconti Come West and See. In Italia il libro arriva sugli scaffali per Edizioni Black Coffee, che affida la traduzione a Leonardo Taiuti (cofondatore della casa editrice) e la incornicia in una copertina rigogliosa, immediata sintesi visiva della ricchezza d’ambientazione del romanzo.
Nel suo incipit Loskutoff inquadra già i protagonisti della storia: Ruthie, giovane selvatica cresciuta dal padre Rutherford (cacciatore giovanissimo che le impone persino un surrogato del proprio nome), e la natura potente e oltraggiata della Bitterroot Valley. Sin dall’inizio apprendiamo che i lupi sono spariti dalla valle, uccisi dalla furia predatrice dell’uomo: la morte dell’ultimo di loro sancisce un inconsapevole patto di sangue, una maledizione che resta latente per tutta la narrazione. Subito ci viene presentato un regno violato, in cui però l’equilibrio precario tra uomo e ambiente cerca ancora di mantenere dei fragili punti di contatto. È questo il mondo in cui osserveremo Ruthie muovere i suoi primi passi, una bambina con gli occhi di lupo, dai brillanti anelli gialli intorno all’iride, poi una ragazzina di cui «tutti sapevano che mordeva, graffiava e scalciava» e infine una donna che fa i conti con la propria femminilità e ferocia: «Sentì di abitare il proprio corpo in modi nuovi e segreti».
Ruthie Fear segue dunque la crescita della sua protagonista nello stesso Montana in cui vive Maxim Loskutoff: un luogo di spazi aperti e sconfinati, di oscurità profonde, in cui la comunità è composta da personaggi multiformi e decentrati. Una popolazione fatta di preti fanatici, nativi americani oppressi, ragazze evanescenti e uomini violenti; un mondo in cui persino l’amore è sempre connesso allo scatto di un grilletto. È solo nel momento in cui il padre le insegnerà a sparare che Ruthie avvertirà per la prima volta il calore del suo abbraccio: «Sentì la sua clavicola sulla spalla, e la vita e il sangue scorrergli dentro. Da che ricordasse, non l’aveva mai tenuta così stretta». La Bitterroot Valley è un luogo di contraddizioni estreme, e altrettanto contraddittori sono i suoi abitanti: l’attaccamento di Ruthie agli animali, quasi simbiotico, non le impedisce comunque di divenire a sua volta cacciatrice, pervasa dallo stesso istinto assassino che anima il padre.
Eppure, «ventimila anni di spiriti» aleggiano sopra ogni cosa, spiriti di fiere e spiriti nativi, incarnazioni di un unico immenso fluire. Le parole che Loskutoff dedica alla natura sono attraversate da questo senso di sublime immensità. Attraverso gli occhi della protagonista l’autore restituisce – rimpicciolisce – l’uomo alla sua reale dimensione, esigua rispetto all’eternità delle rocce e delle foreste, alla grandezza di ciò a cui ha rinunciato quando ha scelto di tracciare un confine tra umano e inumano. Nello stupore delle prede uccise Ruthie rivede «quello del lupo, come se al termine della vita il corpo di ogni animale del mondo si domandasse immancabilmente, irrevocabilmente, Dov’è finito il mio spirito?».
È da questo spirito che l’essere umano si è separato, preferendo concentrarsi sulla propria grettezza, sull’impulso gratuito di fare del male. Molti sono gli eventi che segnano la vita di Ruthie ma quello che più di tutti si fisserà nel suo animo è l’avvistamento di una misteriosa creatura senza testa in un canyon, immagine epifanica destinata a perseguitarla come un incantesimo, saldando il legame con l’amica Pip, orfana che ha in comune con Ruthie l’orecchio attento alle voci dell’oltremondano.
Quella di Ruthie è una storia di rabbia e affetto inscindibili, provati per il padre e per il resto della comunità della valle, da cui la ragazza si sente alternativamente disgustata e amata, respinta e riaccolta, ma in cui ciascuno, in ogni caso, è a suo modo «legato agli altri dall’amore per la valle e dal colossale, onnipresente mistero che vi regnava».
Loskutoff racconta l’insofferenza del selvatico all’addomesticamento attraverso la parabola di Ruthie, lacerata dal dissidio tra i problemi tutti banali del «dover vivere fra gli uomini» e la sua personale tensione a un oltre inafferrabile, restituendo la sofferenza di chi desidera perdersi e ritrovarsi al di là della miseria umana.
Mentre il paesaggio della valle muta, si contamina e innova, preda delle trasformazioni climatiche e dell’avarizia – «Di colpo sentì di aver scoperto un altro aspetto deprecabile del mondo moderno: era fatto apposta per far sembrare normali cose terribili» – su tutto aleggia un senso di fine incombente, una dimensione altra che aspetta solo di riconquistare il suo legittimo posto scacciando gli usurpatori.
Loskutoff offre un racconto del profondo Ovest americano, radicato nella propria terra da una forza tenera e violenta. Pur nella sua identità precisa, la narrazione si ammanta di un’aura di sogno fuori dal tempo, che a tratti ricorda lo svolgersi sopra le righe di Twin Peaks, in cui tutti si conoscono e conservano segreti, a tratti devia nel solco di una letteratura contemporanea di rabbia femminile e ambientale, come Il caos da cui veniamo di Tiffany McDaniel (Edizioni di Atlantide) o ancora Hannah versus l’albero di Leland de la Durantaye (Codice Edizioni). Si tratta di libri con protagoniste solide e reali, talvolta persino respingenti e per questo credibili, più degne di attenzione e affetto da parte del lettore. Descrizione in cui d’altronde potrebbe rientrare anche l’archetipo-Laura Palmer, con la sua sorte dolorosa ammantata di eterno mistero.
In questo crescendo tragico e fortemente animista, in cui ci si aspetta il colpo ma non si riesce a prevedere da che parte arriverà, chi legge si affeziona a tutti i personaggi, alla loro inconsapevole spigolosità e cecità crudele, mentre il resto del vivente sa «ciò che gli uomini non erano in grado di vedere, ossia che un giorno la terra selvaggia si sarebbe liberata di loro».
E così tutto quel che si può fare è seguire le tracce di Ruthie, imbracciare con lei il fucile e restarne inorriditi, lasciarsi attraversare da enigmi che l’arco di una sola vita umana non è in grado di svelare, come l’origine del male, della violenza, della sofferenza priva di ragione, ma anche l’incanto smisurato che la vita offre se la si accoglie nel suo fluire indecifrabile. Tutto quel che si può fare è procedere, inciampare, lasciarsi assorbire e risollevarsi più saldi. Restare in piedi come Ruthie, «pronta per un nuovo giorno all’oscuro della Storia. Circondata da orsi, alci e lupi. Minuscola dinanzi alla mano tesa dell’universo».
Messinese, con Marvin ha in comune i tentacoli, la passione per l’acqua di mare e la fame perenne di storie. Convive sin da piccola con la sua grafomania e si allena per diventare campionessa olimpica di apnea libraria.