Durante l’ultimo giorno dell’anno, mi capita di fare questa cosa abbastanza stupida che, volente o no, ripeto da quando ho ricordi. Riavvolgo nel cervello alcuni momenti dei mesi passati, e individuo qualche proposito per l’anno a venire. Mentre ricordare, però, mi lascia addosso un sentimento agrodolce, un misto di desiderio e repulsione verso un luogo del tempo che non tornerà più, tracciare orizzonti futuri genera sensazioni più dinamiche, galvanizzanti, che sanno di tutta la vita che manca ancora da vivere.
A questo riguardo, è successo che durante gli ultimi stralci del 2021 mi è capitato di leggere tre libri (Il lavoro su di sé di René Daumal, Il male oscuro di Giuseppe Berto e Gli indifferenti di Alberto Moravia) che, seguendo percorsi diversi, mi hanno detto la stessa cosa: scrivere è uno strumento per conoscere. Anche se può sembrare banale, la vividezza di questa considerazione – di cui intuivo l’evidenza, ma di cui raramente avevo percepito le reali potenzialità – mi ha preso abbastanza alla sprovvista. Figurarsi la scrittura come uno strumento – come può essere, che ne so, un microscopio da laboratorio – ribalta la percezione che normalmente se ne ha. Secondo questa prospettiva, scrivere diventa un processo che, per alcune sue qualità connaturate – la sedentarietà, la riflessione, la revisione – permette nei casi più fortunati di accedere a strati di conoscenza altrimenti interdetti.
Appurato ciò, il proposito per il nuovo anno, seppur vago, era abbastanza chiaro. Se non fosse che, all’atto pratico, io resisto a conoscere. E qui, entra in gioco L’impensato.
Uscito a novembre per effequ, nella traduzione di Silvia Dal Dosso e Gregorio Magini, L’impensato è un saggio del 2017 che, alla luce delle più recenti scoperte neuroscientifiche, studia i processi cognitivi inaccessibili all’introspezione cosciente. La sua autrice, N. Katherine Hayles, è una delle esponenti più rilevanti del postumanesimo critico, di cui fanno parte anche Donna Haraway o Rosi Braidotti: di Hayles, in Italia, è stato tradotto My mother was a computer (Mimesis, 2014), mentre, come ricorda su Quaderni d’altri tempi Roberto Paura, è ancora inedita l’opera-manifesto How We Became Posthuman (1999).
Hayles parte da un assunto: quello che noi oggi intendiamo per “pensare” non è altro che il frutto di processi mentali razionali, lucidi, prodotti dalla «coscienza superiore». Le nostre esperienze di cognizione del mondo, però, sono molto più vaste, e la coscienza ne percepisce solo una piccola parte. La percentuale rimanente viene definita da Hayles «cognizione nonconscia», un sistema «che opera a livello di elaborazione neuronale inaccessibile ai modi della consapevolezza».
Ogni giorno, riceviamo infatti un diluvio di informazioni dal mondo intorno a noi. Solo una minima parte di queste viene però elaborata dalla coscienza, che riorganizza i dati in pensieri e narrazioni che danno senso alle nostre vite. Buona parte degli stimoli restanti, invece, viene assorbita e “conosciuta” tramite un altro strumento, il nonconscio cognitivo. Questo sistema ha due importanti pregi. Primo, permette alla coscienza di operare indisturbata, fungendo da diga alle «informazioni interne ed esterne che arrivano al cervello ogni millisecondo». Inoltre, essendo il nonconscio cognitivo un attributo non esclusivamente umano (al contrario della coscienza), apre il nostro immaginario antropico ad altre unità cognitive rilevanti, sia biologiche che tecniche.
Tutti questi soggetti formano quelli che Hayles definisce «assemblaggi cognitivi nonconsci», ovvero sistemi di distribuzione e scambio delle informazioni estesi. Per capirci, quando entriamo su Google Maps o Waze accediamo a un assemblaggio cognitivo nonconscio (attivo anche senza di noi) in cui riceviamo e scambiamo informazioni con altre infrastrutture e unità tecniche, con un ruolo pari al nostro. Da questa angolazione, l’atrofizzazione della memoria di cui spesso ci sentiamo colpevoli può essere vista da una prospettiva diversa: siamo immersi in un assemblaggio cognitivo in cui la conoscenza delle strade è delegata a un’altra unità, e semplicemente non ci serve più saperle (anche perché, seguendo l’onda di questo revanscismo tutto umano, potrebbe essere considerato altrettanto biasimevole andare al supermercato invece di cacciare).
Un sapere distribuito spodesta perciò la coscienza dal suo ruolo: da dominatrice razionale dei processi cognitivi, diventa punta dell’iceberg di un assemblaggio molto più ampio, di cui l’unica parte visibile è quella che sappiamo di sapere. Così, anche l’essere umano scivola dal trono, e da semidio capace di ogni miracolo attraverso la sua coscienza dorata viene “declassato” a ingranaggio di un sistema complesso, in cui gioca il ruolo di attore ma non di protagonista. Detto con le parole di Hayles, «più la cognizione nonconscia aumenta di importanza e visibilità, più la coscienza abdica dal suo ruolo di arbitro del processo decisionale umano e di capacità cognitiva umana dominante».
Ma allora, perché siamo così fissati con la coscienza?
Principalmente, perché non ne percepiamo i costi. Secondo il filosofo tedesco Thomas Metzinger, la coscienza primaria elabora un modello mentale di sé – «modello fenomenico del sé (MFS)» – e un modello delle relazioni con gli altri, «modello fenomenico della relazione intenzionale (MFRI)», ma non ne rileva l’artificialità. Da ciò deriva «l’esperienza di un sé, la sensazione di un “io” che dura nel tempo e ha un’identità più o meno continuativa».
La percezione di un sé, che per Metzinger è una menzogna, ha una forte funzione adattiva, perché crea e mantiene un quadro coerente del mondo, permettendoci di sopravvivere alle novità che incontriamo quotidianamente. Questo vantaggio, però, ha un costo: per ottenere la coerenza, la coscienza primaria elimina le situazioni atipiche o non convenzionali. Ignorare questo salasso cognitivo ha consentito alla coscienza più razionale di imporsi come strumento privilegiato di acquisizione del sapere – e, a cascata, a correnti come l’illuminismo (che ha ormai mostrato i suoi limiti, come ricordano Cosmo e Paolo Pecere su Ragù) di dilagare così a lungo.
Un salasso che si sconta anche a livello individuale. Quando mi confronto con nuovi stimoli, sento infatti che entra in gioco un livello di resistenza sotterranea, un lavorio interiore che, zelante, riconduce l’anomalia alla normalità. La ritrosia di cui parlo non è una risposta reazionaria (e consapevole) alla novità – che anzi, quando stimolante, mi elettrizza – ma una distorsione nonconscia delle sollecitazioni esterne. Questo congegno si attiva a un livello così profondo che ne posso solo tastare gli effetti, quando risale in superficie sottoforma di coerenza. Per questo, anche utilizzando la scrittura come rompighiaccio, penso sia così complesso conoscere: perché non vuol dire solo apprendere, ma apprendere ad apprendere. Non imparare ad aprire i polmoni, ma a respirare con la testa.
Nonostante tutto, mentre leggevo i primi capitoli dell’Impensato, mantenevo una riserva: come fanno questi due sistemi – cognizione conscia e nonconscia – a lavorare simultaneamente? Ovvero, come si può osservare la stessa scena e ricevere stimoli diversi? Hayles scoglie il dubbio dopo un centinaio di pagine, utilizzando come esempio un celebre esperimento di psicologia cognitiva.
Nel 1999, gli psicologi Christopher Chabris e Daniel Simons chiesero ad alcuni soggetti di contare i passaggi fra giocatori di basket in un video. A metà esperimento, un tizio travestito da gorilla attraversò la scena, ma la maggioranza degli individui disse di non aver notato nulla. Questo, in breve, si chiama attentional blink: «l’informazione non raggiunge la coscienza perché lo spazio di lavoro globale è occupato da informazioni di un altro processore». In questo caso, il nonconscio cognitivo ha percepito il passaggio del gorilla, solo che non ha ritenuto necessario trasmettere l’informazione alla coscienza, impegnata su altro (i soggetti che individuarono l’uomo travestito non erano così concentrati sui palleggi, specifica Hayles). Secondo questa lettura, non solo si riesce a comprendere come conscio e nonconoscio cognitivo possano agire in parallelo, ma anche quanto il secondo sia essenziale per lasciare il primo libero di elaborare i problemi che è progettato per risolvere. Il nonconscio cognitivo non confuta perciò la razionalità, ma ne spiega la meccanica.
E se invece fossimo privi di questo strumento, come funzionerebbe la nostra coscienza?
Una domanda a cui risponde Hayles analizzando il romanzo Déjà Vu, di Tom McCarthy. Pubblicato nel 2005 (in Italia nel 2007, da Isbn Edizioni), racconta la storia di un uomo che, vittima di un incidente avvenuto in circostanze nebulose, ha subìto un danno neurologico grave, con conseguente perdita della memoria e, soprattutto, delle facoltà del nonconoscio cognitivo.
«La coscienza si trova costretta a supplire al suo ruolo sobbarcandosi compiti che non le competono, come il riconoscimento e l’estrapolazione di pattern, l’integrazione di marcatori somatici in rappresentazioni coerenti del corpo, e la fusione di eventi avvenuti in luoghi e momenti diversi nella simultaneità della coscienza», spiega Hayles. «Naturalmente la funzione primaria della cognizione nonconscia è prevenire il sovraccarico della coscienza, che ha capacità di assorbimento e di elaborazione delle informazioni limitate, cosicché la sua assenza spinge la coscienza a trovarsi costantemente sull’orlo del sovraccarico».
La coscienza del protagonista, dunque, una volta perso questo importante lavoro di filtraggio, cerca di instaurare un controllo sempre maggiore sulla realtà. Il narratore, dotato di una disponibilità economica quasi inesauribile (ha ricevuto come risarcimento per l’incidente otto milioni di sterline) riduce inizialmente la materia entro schemi familiari, reiterando compulsivamente le proprie azioni (come il gesto banale dell’apertura di un frigorifero). In seguito, paga degli attori affinché ripetano un copione all’infinito, corrispondente all’unico ricordo nitido della sua vita passata. Ma la realtà resiste a farsi ridurre, e conserva quel rimasuglio (remainder, come il titolo originale dell’opera) di aleatorietà, che si oppone all’«imperialismo» della coscienza ipertrofica, lasciando il protagonista imprigionato dentro l’eco del suo sé.
Il romanzo di fantascienza Blindsight, di Peter Watts, risponde invece alla domanda opposta: cosa succederebbe se fossimo privi di coscienza? L’autore canadese suppone l’esistenza di una specie aliena, i «criptoidi», dotati di una tecnologia superiore a quella terrestre: questa popolazione, però, è priva di pensiero cosciente. Possiede un’intelligenza vastissima, ma non sa di sapere.
«[La coscienza] Spreca energia e potenza di calcolo, è ossessionata da sé stessa fino alla psicosi. I criptoidi non ne hanno bisogno, sono più parsimoniosi. Hanno una biochimica più semplice, cervelli più piccoli – eppure a livello intellettivo ci ridicolizzano, anche quando sono lontani dalla loro nave, senza strumenti, mutilati […] ritorcono le tue capacità cognitive contro sé stesse. Viaggiano tra le stelle. È il potere dell’intelligenza quando non è intralciata dall’autoconsapevolezza».
A fare queste considerazioni è Siri Keeton, protagonista del romanzo e membro dell’equipaggio dell’astronave Teseo, partita dalla Terra in un viaggio esplorativo alla ricerca della specie aliena. Comprese le potenzialità, e la pericolosità, di queste creature, il comandante Jukka Sarasti invia una soldata, Amanda Bates, all’interno della Rorschach, la nave dei criptoidi la cui stessa conformazione è un’allegoria dell’alterità, «un groviglio, un caos grande come una città di filamenti vetrosi, anelli e ponti e spire sottili». Una volta entrata, Amanda Bates si perderà all’interno della Rorschach, comunicando al resto dell’equipaggio soltanto attraverso frasi enigmatiche, «sono già morta», «non sono qua fuori», «non sono da nessuna parte», «non sono niente», manifestazioni di quella ego loss (per usare un termine caro alla psichedelia) di cui la soldata fa esperienza.
«[Amanda Bates] Diviene letteralmente ‘nessuno’, è ridotta al nonconscio cognitivo e ai processi materiali che precedono la costruzione del sé operata dalla coscienza», commenta Hayles. «La dichiarazione “sono morta” non parla della fine della vita organica, ma della cessazione della narrazione del sé, dell’Io le cui superfici topologiche sono spazzate via quando la coscienza si spegne. Questa è l’interpretazione che Siri fa della situazione: “Dal punto di vista di Amanda Bates, dire ‘non esisto’ non avrebbe alcun senso, ma quando a pronunciare la stessa frase sono i processi [nonconsci] sottostanti, stanno solo dicendo che i parassiti [i processi coscienti] sono morti. Stanno solo dicendo ‘siamo liberi’”».
L’impensato è dunque un saggio che ha il valore di una vera e propria rottura epistemologica. L’unica nota stonata del testo è il linguaggio con cui viene presentato: accademico, macchinoso, trasmette la sensazione che l’autrice, sull’altare del rigore scientifico, abbia scelto di sacrificare la comunicabilità. Ed è un peccato, perché abbandonando qualche zavorra teorica, sarebbe potuto (e dovuto) entrare nella mente di una platea decisamente più vasta.
Ma tant’è: l’importante è parlare di questo libro, lasciarsi attraversare dalla scarica elettrica che produce e uscirne rigenerati. «I soggetti umani non possono più essere contenuti dai confini della loro pelle», dice Hayles. E, a pensarci bene, questo potrebbe anche essere un proposito da tenere a mente per il 2022: uscire dalla mia pelle.
Redattore di Marvin, scrive racconti, poesie, articoli di approfondimento culturale e contributi sul tema dei future studies. Appassionato di cinema horror e B-movies, ha sviluppato un feticismo per Sharknado, per il quale è attualmente in cura.