Marvin_Diabolik

Autopsia di un disastro

8 min. di lettura

Quando si comincia a disegnare, che sia perché si ha la passione o perché è un modo come un altro per passare il tempo, di solito si impara ricalcando o riproducendo altre illustrazioni che già ci piacciono. Lo faceva Walt Disney da bambino con le vignette satiriche di Ryan Walker sulla prima pagina dell’Appeal to Reason, giornale filosocialista che distribuiva porta a porta con il padre, lo abbiamo fatto tutti noi comuni mortali con i nostri fumetti o libri d’arte. Col tempo si acquista maggiore sicurezza e, condizione imprescindibile per fare il salto di qualità, si comincia a mettere del proprio in quel bozzetto, rendendolo unico e riconoscibile. Lo si fa disegnando, ma lo stesso avviene anche con le cover musicali: non è importante la mera riproduzione, quanto piuttosto la reinterpretazione personale. Detto ciò, ricalcare rimane il metodo più sicuro per non sbagliare. O per sbagliare tutto, come in questo caso.

Togliamoci il dente fin da subito: Diabolik (2021) dei Manetti Bros. (nome d’arte dei fratelli Marco e Antonio Manetti) è un film pieno di errori e scelte infelici che contaminano quasi tutti i reparti. Nonostante ciò la pellicola dei due registi resta un esperimento fallito a suo modo interessante. Diabolik non è semplicemente un flop del cinema italiano, perché dietro a Diabolik si intravede un disegno, un’idea che forse sulla carta avrebbe potuto veramente funzionare, ma la cui resa cinematografica non poteva che essere fallimentare. In tutto ciò, c’è anche un mistero: perché farlo così?

Cominciamo dal film.

Un’ombra si aggira per la città di Clerville: è Diabolik (Luca Marinelli), ladro freddo e calcolatore che elimina chiunque si frapponga lungo il suo cammino. Alle calcagna ha Ginko (Valerio Mastandrea), inflessibile ispettore di polizia devoto alla causa di arrestare il ladro in calzamaglia. Questo indissolubile equilibrio di cane e gatto viene sconvolto dall’arrivo di Eva Kant (Miriam Leone), femme fatale dal passato oscuro, arrivata dal Sudafrica con un prezioso diamante, ereditato dal defunto marito, morto in un incidente di caccia dalle circostanze oscure. La donna finisce nel mirino di Diabolik, che vuole mettere le mani sul suo tesoro; appena i due si incontrano, però, scatta l’amore. Da quel momento in poi faranno coppia fissa, un colpo dopo l’altro.

Questa è anche la vicenda del fumetto di Angela e Luciana Giussani, pubblicato per la prima volta nel 1962 (e attualmente in corso). La trama è così classica che solo a leggerla c’è da stropicciarsi gli occhi, come dopo che si soffia via la polvere da un vecchio libro in soffitta. E andrebbe benissimo così, perché di solito partire da un intreccio tradizionale è la soluzione più comoda se si vuole scrivere qualcosa che funzioni. Di solito.

Tanto per cominciare: Clerville. È Bologna. Non c’è modo di nasconderlo, quella è Bologna: i portici, gli incroci, gli edifici storici. Quindi perché non ambientarlo semplicemente a Bologna? Non ci sono neanche grossi problemi di coerenza interna: Diabolik è un uomo senza nome, Eva Kant viene dal Sudafrica e Ginko, se proprio quella cappa rappresentasse un problema, che diventi “Ginco” e andrà bene lo stesso. Però no, non si può. Non si può perché nel fumetto siamo a Clerville, quindi rimarremo a Clerville. E sia, passiamo dunque sopra la polizia vestita come a New York nei ruggenti anni venti che sfreccia su FIAT d’epoca per le strade di Bologna.

Se lo si prende con ironia (perché il film al contrario si prende molto sul serio) si può anche apprezzare la messa in scena posticcia, la fotografia abbagliante da sceneggiato RAI e perfino il costume di Diabolik, anche se per quest’ultimo ci vuole un po’ per abituarsi. Ma per quanto ci si impegni l’intreccio e i dialoghi rimangono indigesti per tutta la durata del film: le battute sono artificiose, scontate, le reazioni dei personaggi estremizzate fino alla caricatura. Senza contare le scene interminabili in cui i personaggi spiegano cosa faranno, cosa accadrà, insomma raccontano l’azione, l’ultimo chiodo sulla bara della narrazione cinematografica. Emblema della sceneggiatura farraginosa (firmata dai Manetti e da Michelangelo La Neve, recentemente scomparso) è il momento in cui il film sembra finito e poi, all’improvviso e senza una ragione valida, ne comincia un altro, con un nuovo furto, in un’altra città, praticamente un seguito del film nel film stesso. Forse un tentativo disperato di ravvivare il fuoco, che ha finito invece per soffocarlo definitivamente.

E la responsabilità non è del cast, anche se potrebbe sembrare.

Marinelli nel ruolo del ladro (non troppo) gentiluomo sembra imbottito di Xanax: per essere inquietante abbassa la frequenza della voce fino al cavernoso e regala sguardi persi nel vuoto. Dei tre principali è forse quello che ne esce peggio. Mastandrea è un Ginko malinconico e sconsolato, viene voglia di abbracciarlo e incoraggiarlo a non mollare. Infine, Miriam Leone risulta l’unica autentica vincitrice in questa Caporetto: la sua interpretazione di Eva Kant riesce a convincere e appare a suo agio nelle vesti del proprio personaggio e spontanea in quel modo di parlare così farsesco. Queste sono le punte di diamante, gli attori sulla locandina; ma nel cast ci sono altri interpreti validi come Alessandro Roja, Serena Rossi e Pier Giorgio Bellocchio. E quindi cosa è andato storto?

Poniamo il caso che a fine film vi venga in mente di sfogliare un vecchio Diabolik che avete a casa, o di ripescarlo andando a trovare zii o nonni: vi rendereste subito conto della somiglianza abbacinante. A questo punto sembra evidente che l’idea di partenza fosse quella di riprodurre fedelmente, nel 2021, il fumetto di Diabolik, trasponendolo dalla carta alla pellicola con luterana fedeltà alle scritture, ma senza carpire il senso, per reinterpretarlo secondo una propria idea di cinema. Ecco spiegato quell’effetto straniante fin dalle prime battute. Anche il ritmo brachicardico è frutto di questa idea bizzarra: rispetto agli anni in cui usciva l’opera e al pubblico di riferimento, il ritmo delle narrazioni è cambiato, tanto nei fumetti quanto nel cinema, e questa differenza si sente.

Questa trasposizione sul grande schermo, così semplice nella teoria quanto contorta nell’esecuzione, andrebbe bene se Diabolik fosse una parodia. Cosa che non è affatto. Il primo lungometraggio dei fratelli Manetti, Zora la Vampira (2000), prendeva solo il titolo dall’originale fumetto erotico degli anni ’70 e lo sfruttava come espediente per creare un film comico, che vede un Conte Dracula muoversi all’interno dell’underground romano. Per quanto amatoriale e grottesco possa risultare se rivisto oggi, resta comunque l’idea forte di un cinema scanzonato e anticonformista di due registi figli del cinema di Lenzi, Fulci e Bava.

Parlando del diavolo, proprio Mario Bava ha realizzato una celebre trasposizione per il cinema di Diabolik, a soli sei anni dalla prima uscita dell’opera delle sorelle Giussani (partecipi in prima persona della stesura del progetto), e che i Manetti avranno sicuramente visto senza, apparentemente, apprenderne la lezione. Infatti, mentre il primo film di Bava è un compendio di pop art, psichedelia e trama invisibile da thriller poliziesco balordo, un prodotto colorato e dal ritmo esplosivo tipico del cinema degli anni ‘60, quello dei due registi romani alterna luci opache ad atmosfere cupe, che cozzano ancor di più quando gli attori si muovono vestiti eleganti come manichini di una boutique francese. Il secondo lungometraggio è certamente più fedele alle atmosfere del fumetto, ma non per questo altrettanto interessante dal punto di vista cinematografico. Da spettatori sembra come se il giovane Dario Argento della Trilogia degli animali dirigesse Il paradiso delle signore.

Stoccate a parte, la domanda dell’inizio rimane senza risposta: perché farlo così?

La cosa più semplice da pensare sarebbe che i due fratelli romani, mossi da un amore profondissimo per l’opera delle Giussani, si siano sentiti in dovere, così come probabilmente abbiano provato il piacere, di trasporre l’opera con la maggiore fedeltà possibile, dalle tavole alla pellicola. E avrebbe senso, ma c’è da considerare che per il film era stato inizialmente chiamato alla regia Gabriele Mainetti, che invece si è chiamato fuori (e che a quanto pare possiede un sesto senso per i flop, visto che prima di questo film ha rifiutato anche la regia di Venom del 2018). Quindi, neanche a dire che si trattasse del sogno nel cassetto.

Si riconferma il fatto che i Manetti Bros. si muovono meglio nella parodia che su un registro più serio: Song’e Napule (2014) tra commedia e poliziesco, Ammore e malavita (2017) un gangster musical esuberante; per non parlare dell’intramontabile Ispettore Coliandro che dopo otto stagioni (e anche qui tra alti e bassi) resta una delle migliori serie Rai mai girate. E poi Diabolik, che a suo modo avrebbe potuto essere divertentissimo, forse osando ancora di più e dimenticandosi dell’opera originale. Può darsi, ma ormai non è più rilevante. Ciò che forse è ancora più interessante, in questo Hindenburg della recente rinascita del cinema di genere in Italia, è il fatto che sia già in lavorazione un sequel, in cui Luca Marinelli (che ha abbandonato la nave alla prima falla) verrà sostituito da Giacomo Gianniotti. Bene così.