Una spiaggia di sabbia morbida, bagnata da un mare verdognolo che fa contrasto con un cielo buio, venato di bianco, quasi in tempesta. Ad est c’è una torre, o un grattacielo, che guarda verso l’orizzonte bruno. C’è tanta gente che entra a farsi accarezzare dallo iodio, forse a cercarmi, ma io sono sul bagnasciuga con le gambe al petto ad aspettare l’acquazzone. I grilli cantano, finché non arriva l’odore appagante dei temporali estivi.
Ecco cosa troverebbe il protagonista de La Ferita, di Lucio Leone, edito da Polidoro Editore, se aprisse il mio sterno e ci entrasse a piè pari come fa durante la narrazione.
Leone, nato a Napoli, classe ’76, ha esordito con Nel buio arde (Ad Est dell’Equatore) e ha poi pubblicato per Spartaco Editore A noi la colpa. Negli anni ha collaborato con Perrone Editore, Crapula Club, Neutopia e altre riviste. Nel 2018 assieme a Ciro Marino e Antonio Corduas ha fondato Wojtek Edizioni – alla quale, più tardi, hanno poi aderito Alfredo Zucchi, Anna Di Gioia e Eduardo Savarese.
La Ferita è la storia di un uomo che svolge una professione esplorativa e medica allo stesso tempo. Si tratta di incidere i corpi dei suoi clienti, morti suicidi, e immergersi nel loro altrove attraverso quella ferita – che molto spesso rispecchia il conflitto psichico che li ha portati a prendere la loro decisione –, per provare a distoglierli dal compiere il gesto estremo, almeno in questa personalissima dimensione. Alla terza commissione fallita, l’uomo si trova di fronte all’evidenza dei fatti: soffre del male dei suoi stessi clienti.
Il libro di Leone è una storia simbolica che squarta temi generalmente delicati. Sviscerarli, letteralmente, per osservarli meglio da vicino.
Quando è nata l’idea di questa fiaba nera?
Volevo sin dall’inizio mantenere un registro favolistico con un tema che per sua natura non lo prevede. La Ferita nasce dalla perdita di una persona a me molto cara: è un tentativo di interiorizzare questo evento, un processo molto lungo. La scrittura è una sublimazione, diceva Freud. Ma senza scomodarlo, qualsiasi processo simile, letterario o musicale, crea un confronto interessante non solo intrapsichico.
Per questo nel tuo romanzo si è trasportati subito altrove, letteralmente in un mondo oltre la ferita. Cosa ha influito nella costruzione di questa intuizione?
La simbologia è la chiave del mio romanzo: così come è accaduto per la mia ferita, non vale e non basta la spiegazione di qualcuno che ti dica come reagire. Si tratta di un processo allegorico, allo stesso modo dell’elaborazione del tutto. E tale meccanismo credo sia la chiave di volta per cercare di raccontare. Serve a stimolare un’immedesimazione, una sensibilità, cioè uno spazio vuoto che è colmato dal lettore, che è parte integrante di tutto il processo. Il mio tentativo era proprio quello di allargare questa zona e di innescare questo effetto. L’altrove, inoltre, è il mio modo di percepire la realtà. Così come lo spazio vuoto di un’opera letteraria viene colmato dal lettore, così il rapporto della realtà viene colmato dalla coscienza. Questo spazio qui è ciò che è già altrove. Ho quindi provato a renderlo figurativo, ma quella dell’altrove è una dinamica esistente, un posto che abbiamo tutti.
I tuoi mondi all’interno della ferita sembrano costruiti sul conflitto del suicida.
Ti faccio un esempio: quando si osserva una persona, si crea, inevitabilmente, in qualche modo un’immagine. Se si prova a trasformare tale proiezione in qualcosa di figurativo, ecco che appare il mondo interiore. Che poi è chiaro che a volte possa risultare finto: l’altro è sempre inconoscibile. Questo è un processo di cui avrei potuto scrivere all’infinito, ma sarebbe stato ozioso, andava ponderato. Il tentativo di far emergere il conflitto psichico si trova proprio qui. C’è uno studio approfondito dietro, al contrario di altre situazioni differenti all’interno dell’opera, come il simbolismo dell’albero che invece è arrivato con un’intuizione più naturale.
A proposito di mondi extra-ordinari mi vengono in mente Maurizio Torchio in L’invulnerabile altrove o la cittadina innevata nella testa del protagonista di La fine del mondo/ Il paese delle meraviglie di Haruki Murakami. In entrambi i casi e anche in La Ferita, l’altrove, quindi ipoteticamente un posto lontano ed esterno, è all’interno. Quanto sono legati questi due concetti?
Avviciniamo il concetto di altrove al concetto di irreale o di assurdo. Ad esempio, proprio Murakami in 1Q84 fa accadere qualcosa di particolare: quando la protagonista discende le scalette di emergenza di una tangenziale si ritrova in un’altra dimensione, con due lune. Insomma, l’altro mondo si inserisce nel reale. È un meccanismo che compie anche Antonio Moresco in Gli esordi, introducendo elementi di altrove nella realtà. Una disposizione molto diversa da quella del realismo magico, poiché per Moresco e Murakami la magia è parte della realtà.
Da editore noto tantissimo questa tendenza nella litweb – che scandaglio accuratamente per il lavoro di scouting: molti autori scrivono di irreale o di dimensioni che si situano oltre il reale. La bellezza di questo mondo online è che la voglia di scrivere è autentica, tale autenticità è mossa da un’urgenza e in quest’ultima è riscontrabile un certo lavoro sull’altrove. In relazione alla contemporaneità tale tendenza è sintomo di una necessità di qualcosa che vada oltre. Ritornando alla domanda. Non trovo differenze, nemmeno con l’altrove del realismo magico, o del fantasy, che pure pongono uno scarto più concreto tra reale e irreale. L’altrove è sempre parte del “dentro”, il fatto di scinderlo o meno non lo pone a una distanza diversa. Si tratta in ogni caso di una dimensione del sé.
Entrando invece nel set dei personaggi dell’opera, vorrei parlare della ragazza e dei gemelli. L’identità della prima, che «salva dal tempo» l’io narrante all’interno della ferita, rimane fumosa fino alla fine. Il tutto si svolge mentre una coppia di gemelli siamesi segue le gesta del protagonista. Ci racconti meglio le genesi e i ruoli di queste figure?
Sono due personaggi molto diversi che però assolvono entrambi alla funzione simbolico/metaforica di cui parlavamo sopra. La figura femminile in realtà rappresenta ciò che il lettore vuole che sia. Lascio a lui la responsabilità di colmare il vuoto della sua identità. Dal punto di vista dello scrittore l’identità invece è chiara: si tratta della sorella, che funge da bussola nel passaggio. I gemelli sono, d’altra parte, una sorta di coro greco e rappresentano una visione spirituale e dualistica. Banalizzando: l’impossibile e il possibile, il male e il bene. La rappresentazione legata ai gemelli siamesi vuole scatenare una dimensione immateriale e una riflessione, raffigurando per l’appunto l’unione impossibile di due opposti.
Dualismo che mi pare si ripresenti con la coppia di temi che innervano il racconto: la depressione-suicidio e il tempo. Partendo dalla prima, cosa ti ha portato a scegliere di rappresentarla con un albero di pietra?
Motivi intuitivi e inconsci sull’autoanalisi tramite simboli. Penso che sia molto legato al percorso che mi ha portato a scrivere il romanzo. L’albero, tra l’altro, è notoriamente un simbolo positivo e di vita, ma, come detto prima, c’è sempre una parte oscura. Così, questo simbolo vivifico di pietra diventa un’alterazione della vita e della positività stesse. Inoltre, credo anche che l’immagine contempli quell’aspetto subdolo della depressione, che sa anche coccolarti e farti sentire accolto. L’albero oscuro è una porta verso questa dimensione. Un simbolo iperdualistico.
Simbolo strettamente legato con il secondo topos della tua opera, ovvero il tempo e la sua relatività. E subito affiora nella mente del lettore L’ordine del tempo di Carlo Rovelli. Ci racconti di questa relazione depressione-tempo?
Chiaramente ho letto Rovelli e la fisica quantistica in chiave filosofica mi interessa molto. Siamo inoltre in un momento storico in cui la fisica teorica è più avanti di quella sperimentale, anche per questo probabilmente risulta così suggestiva. Il concetto del tempo in relazione alla depressione è un tema chiave, ma se ci pensi bene vale per qualsiasi argomento.
La percezione del tempo è fondamentale, padroneggiarla ti permette di vivere in un’altra maniera. L’ho imparato avvicinandomi al theravada, la corrente più classica del buddhismo. Concepire l’assenza di tempo nel momento, riuscire a capire quanto dura veramente un attimo, è una delle chiavi dell’esistenza. La depressione nella sua finta accoglienza riesce a dilatare il tempo ed è uno degli effetti principali e più disastrosi per chi ne è affetto.
Ci sono, inoltre, tantissimi studi sulla meditazione in relazione alla depressione e i benefici che tale pratica apporta. La meditazione aiuta ad avere consapevolezza del tempo. Nell’ambito delle psicopatologie e delle patologie legate alla depressione, riuscire a spezzare questo timing è una dinamica importantissima. Nel romanzo il senso è quello di evidenziare la connessione tra la depressione della coscienza e il concetto di tempo. Non è un caso che le malattie psicologiche siano spesso associate a questi due concetti.
Perché hai sentito la necessità di inserire la tematica dei suicidi e della depressione nella cornice storica della pandemia?
È stato un caso, in realtà. Ho iniziato a scrivere il testo sei anni fa, sono seguite diverse riscritture prima che scoppiasse la pandemia. Non c’è una correlazione, insomma.
Potessi spiarlo da una fessura, il tuo altrove interno sarebbe…
Un castello diroccato, semi distrutto, circondato da un bosco attorno. Del fuoco vivo che brucia all’interno dell’edificio.
Nato in provincia di Lecce (1993), i suoi racconti sono apparsi su Nazione Indiana, La Nuova Carne, Mircorrizze, Pastrengo e altre riviste letterarie. È stato editor di Sundays Storytelling. Ha co-fondato Salmace. Cosa più importante: ha anche un gatto di nome Mirtilla.