Non so da dove cominciare a scrivere questa recensione. Non credo di essere in grado di parlare di questo libro. È stato molto difficile leggerlo e quindi potrebbe essere molto difficile leggere anche questa riflessione – la chiamo riflessione perché non dà giudizi sul libro di per sé, ma è lui forse a giudicare me che leggo. Ha scatenato sensazioni contrastanti: rabbia, senso di colpa, disgusto, tristezza. Ed è giusto che sia così, se la mia esperienza di lettura non è che un pallido riflesso dell’esperienza dell’autore.
Durante l’estate Kabul è caduta in mano ai talebani e per una settimana ci siamo tutti strappati i capelli per le povere donne afgane, per le loro vite distrutte, per quelli che si appendevano alle ruote dell’ultimo aereo americano, per un bambino quasi lanciato al di sopra di un muro. Qualche mese prima facevamo la stessa cosa per il popolo palestinese, scambiandoci sul feed immagini piene di sofferenza, lontanissime da noi e dal nostro privilegio. Eravamo tutti molto tristi e ne sapevamo parecchio perché avevamo letto un articolo su Internazionale o avevamo visto i reportage di Francesca Mannocchi.
Benché il problema non sia in alcun modo risolto, anzi vada a peggiorare, oggi non si parla più di Afghanistan e Palestina. Si è passati ad altro. Per fortuna, qualche attivista performativo ci informa con delle infografiche che Decathlon ha ritirato i kayak dal proprio store a Calais, perché venivano usati dai migranti per oltrepassare la manica; seguendo le persone giuste veniamo anche imboccati di notizie sulla crisi dei migranti al confine fra Polonia e Bielorussia, e di altre cose che non ci interessano più di tanto nel nostro vivere quotidiano. Nel frattempo, Salvini si premura di farci sapere ogni qualvolta un tunisino, un marocchino o un egiziano uccidono o stuprano qualcuno. Noi scorriamo indifferenti. Sembro polemica, ma non lo sono: funziona così il nostro modo di informarci e vivere il mondo esterno, e io subisco la cosa come chiunque altro, perché ci conviene che sia così.
La verità è che sappiamo ben poco di cosa significhi essere un rifugiato in Europa. Di cosa significhi intanto arrivarci vivi, e poi restarci. Probabilmente molti di noi non fanno distinzione tra immigrati e rifugiati – la differenza sta nella libertà di scelta, ma è un confine molto labile. Secondo la convenzione di Ginevra del 1951 il rifugiato è una persona che «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese». Quindi il rifugiato non ha scelta – l’immigrato, invece, si sottopone al viaggio perché probabilmente sta morendo di fame.
Perchè tutto questo preambolo? Perchè Allah 99 di Hassan Blasim, pubblicato da Utopia Editore nella traduzione di Barbara Teresi, parla dell’esperienza dei rifugiati in modo talmente brutale, cinico, ferito, che nonostante il disagio che ho provato nel leggerlo, il senso di estraneità, il bisogno di distogliere lo sguardo come davanti alla scena cruenta di un film, mi ha fatto capire una cosa importante, e cioè che io non so niente. Noi, in generale, non sappiamo niente. E quindi forse bisognerebbe ripartire dalle basi.
Hassan Blasim è uno scrittore e regista iracheno, che negli anni novanta aveva subito minacce e arresti sotto il regime di Saddam Hussein. Fuggito in Kurdistan, approda in Finlandia nel 2004. Anche il suo protagonista è un rifugiato che vive in Finlandia, e i due si confondono continuamente, giocando con il confine tra narrativa e saggistica, finzione e realtà. Nella finzione letteraria Hassan è un ex-veterinario improvvisatosi scrittore. Ha un blog che si chiama Allah 99 – come i 99 nomi dati a Dio, ma anche come le 99 figure che si prefigge di intervistare, in paesi europei e in Iraq, per documentare le esperienze dei rifugiati, di chi è fuggito, di chi è rimasto, e di cosa significano, davvero, l’una e l’altra cosa.
Il romanzo, se così vogliamo chiamarlo, ha tre livelli narrativi che si alternano, si intrecciano, e nel finale tendono quasi a coincidere. Il primo è la storia di Hassan, di cui impareremo a spezzoni a conoscere il passato, i tentativi falliti di attraversare il confine, l’infanzia perduta, il dolore insanabile, la perdita, la nevrosi, la sopravvivenza. È un racconto sofferto, che lui sembra quasi voler buttare via, ce lo dà in pasto senza sconti, crudo, così acido che brucia in gola e negli occhi. Poi ci sono i racconti delle persone che intervista: non ci sono martiri né vincitori, ma gente traumatizzata dalla guerra che per scendere a patti col proprio vissuto finisce per fare cose che forse non possiamo davvero comprendere. C’è un artigiano che inizia a produrre volti in silicone per le vittime delle bombe, così che ai funerali i loro cari possano salutare un volto integro e non deturpato. C’è una donna siriana, che studiava per diventare medico, ma dopo la morte del fidanzato per mano dell’ISIS si è trasferita a Berlino e si è reinventata dj di musica techno. C’è un ragazzo che ha creato un videogioco in cui la missione è attraversare il confine:
«Il tuo viaggio sarà da clandestino e dovrai attraversare i confini illegalmente come fanno i migranti e i rifugiati. A piedi, via mare, sui camion dei trafficanti. Incontrerai molti ostacoli e dovrai affrontare molte sfide: gli squali nel mare, la polizia di frontiera, i temporali, gli insetti velenosi nelle foreste, i deserti, i muri, il filo spinato e così via… Abbiamo studiato gli habitat di quasi tutti i paesi del mondo. Gli ostacoli non saranno vicini solo all’ambiente reale dei paesi in cui passerai, ma rifletteranno anche la memoria nata dalla fantasia e dall’immaginazione dei popoli che in quei paesi vivono. Incontrerai le superstizioni e le realtà nel labirinto temporale di un luogo chiamato Terra. Ed è Mr. Spazzatura, che somiglia a Trump, a guidare e gestire gli ostacoli che ti sbarrano la strada. Mr. Spazzatura ti assedia ovunque e in qualunque momento: installa squali e li indirizza verso le barche dei migranti, finanzia operai per far costruire un muro invalicabile, guida un branco di lupi in una foresta, ti manda la polizia di frontiera, evoca i mostri dell’odio dei secoli passati o istiga un gruppo di razzisti a impedirti il passaggio. Ovviamente c’è anche chi cerca di aiutarti durante il viaggio, uccelli, esseri umani e animali. I punti si ottengono attraversando i confini o superando altri ostacoli. Ma raggiungere la destinazione non significa che il percorso è finito. Qui semmai arriva l’ultimo livello, quello più importante, che richiede una particolare abilità: la capacità di essere convincente. Dovrai scrivere e parlare con animali e umani del posto in cui ti trovi e convincerli delle ragioni per cui sei arrivato nel loro habitat. Se si convincono, rimani. In caso contrario, ti riporteranno al punto di partenza e tu dovrai provare di nuovo ad andare nello stesso posto oppure da qualche altra parte».
C’è un cuoco curdo che serve di nascosto polvere di scarafaggi ai suoi clienti arabi. Un adolescente iracheno che mangiava cavallette e che diventerà un famigerato torturatore. Un giovane che vuole fuggire da Londra e per farlo cerca di uccidere un’anziana signora per conto del figlio, che vuole accaparrarsi l’eredità; non vuole farla soffrire, quindi decide di farla fuori raccontandole storie cruente per farle venire un infarto. Uccidere con una storia – forse è anche quello che vorrebbe fare Hassan, farci venire un colpo, farci soffrire, perché lui soffre, il mondo soffre, e noi siamo parecchio indifferenti.
Il terzo livello narrativo è il più strano: si tratta di lettere che un’amica di Hassan gli invia a cadenza regolare per aggiornarlo su una traduzione di Cioran che sta cercando di completare. È un lato del romanzo che stride fortemente con il resto – riflessioni pacate sulla letteratura e sulla scrittura, sulla malattia e la malinconia, del tutto in contrasto con la bruttezza, la durezza linguistica e concettuale delle esperienze che Hassan ci racconta, parlando di sé e degli altri. Non so se fosse voluto, ma nel corso della lettura sono arrivata a odiare quelle lettere: mi sembrava non avessero alcuna importanza. Immergendomi nei racconti di Hassan e delle persone che intervista ho visto vacillare la mia convinzione che la poesia, la scrittura, la bellezza, ci possano davvero salvare tutti. Hassan stesso sembra non crederci. Come ogni fede, anche quella nella letteratura è costellata di dubbi e delusioni.
Eppure, nonostante tutto, è una copia logora di Palomar di Italo Calvino l’oggetto a cui Hassan tiene di più, e Palomar è l’amico immaginario che nei momenti bui lo aiuta a distinguere sé stesso dagli incubi. Una copia in arabo, trovata a terra dopo essere stato picchiato da alcuni poliziotti, aver passato la notte in cella, aver avuto molta paura. Una copia di un libro sconosciuto, caduta dalla tasca di un uomo grasso che stava salendo su un taxi. La letteratura forse non ti salva, ma sa essere la più fedele compagna. Il libro diventa per lui un rifugio, quasi come Dante per Primo Levi: quando la polizia di frontiera bulgara lo cattura – al suo secondo tentativo di passare il confine – e strappa la copertina del libro, sembra che stia dilaniando la sua innocenza, la sua speranza, la sua stessa esistenza. Gli agenti distruggono anche le foto che aveva portato con sé, istantanee dei tempi dell’università, con amici e colleghi sorridenti. I poliziotti non credono che possano essere state scattate in Iraq, perché le ragazze non hanno il burqa e indossano i jeans. Per questo lo ritengono un bugiardo e lo torturano prima di rispedirlo indietro.
Anche su questo ci sarebbe molto altro da dire. Gli occidentali hanno tendenzialmente questa convinzione che i musulmani siano tutti estremamente fedeli – estremisti nella fede. Non sono individui: sono una collettività che si comporta tutta allo stesso modo, seguendo regole rigide senza sgarri. Non sono come i cristiani, che possono credere nel loro dio e al contempo essere persone dalla moralità altalenante, bere troppo, dire parolacce, fare sesso prima del matrimonio, avere relazioni extra-coniugali, vestirsi come gli pare, mangiare carne il venerdì, sballarsi, leggere Calvino e Irvine Welsh, sperimentare le droghe psichedeliche, e insomma essere liberi, cambiare, contraddirsi, vivere la propria sfera individuale come qualcosa di unico e sacro. I musulmani sono tutti uguali. Questo perché gli appartenenti a una minoranza non hanno il lusso di essere sé stessi: quando si confrontano con la maggioranza incarnano la loro intera categoria. Contenere moltitudini è un privilegio, essere incoerenti è un privilegio, essere unici e irripetibili è un privilegio.
La realtà delle cose è multiforme, e la percezione occidentale dell’altro da sé risulta un filtro impreparato e limitante. Hassan – il narratore, ma forse anche l’autore, non ci è dato saperlo – è un alcolista, un satiriaco. È cinico e scurrile. È ferito e arrabbiato, ma non riesce in alcun modo ad affrontare i propri sentimenti, quindi li vomita. Le droghe lo stordiscono ma, nonostante ciò, ce l’ha sempre duro. È anche un po’ stronzo con le sue donne. A volte attacca briga con la gente al bar. Frequenta altri immigrati o profughi come lui e l’alienazione che provano è dolorosa. Anche chi è riuscito a farsi una vita in quel paese così freddo subisce lo sradicamento, culturale e affettivo, di essere stato costretto a lasciare la propria casa, una ferita che non si rimarginerà mai per nessuno di loro.
«Stavamo passando la serata a casa mia. Tutti siriani. Rifugiati vecchi e nuovi. Un pittore, due scrittori, un cuoco e un autista di ambulanze. C’era cibo siriano in abbondanza, e ʿaraq, birra, vino e discussioni chiassose e traboccanti di rabbia sulla Siria devastata.
Mona, una poetessa che vive a Bruxelles da più di dieci anni, ha parlato dell’importanza di integrarsi nella società belga. Hazem, il cuoco, proprietario di un ristorante siriano di successo nella periferia della città, era d’accordo con lei.
“I nuovi rifugiati sono a pezzi”, ho detto a Mona. “Sono esausti, spaventati, e ancora non riescono a credere che non torneranno più nelle proprie città, ai loro affetti e alle loro vite. A questa gente i discorsi sull’integrazione sembrano a volte uno scherzo di cattivo gusto e a volte la minaccia di una nuova realtà da incubo. Per gli esseri umani non è facile cambiare pelle. Non sono mica serpenti”».
«[…] ripensavo ad Adel il marocchino che si prodigava in una scenata isterica a proposito del concetto di casa. Il barista gli aveva detto: “Va’ a casa, Adel. Sei ubriaco fradicio e molto stanco, torna a casa!”.
Adel aveva perso la brocca sentendo la parola casa. Si era messo a urlare come se stesse recitando in un film: “E come faccio a trovare a Helsinki un taxi che mi porti in Marocco? Vi ha dato di volta il cervello? Sì, siete pazzi… Dai, ora chiamami un taxi che mi riporti a casa in Marocco. Casa mia è in Marocco, pazzi! Chiamami un taxi, adesso, che mi porti da Helsinki a Marrakech”».
La condizione dell’espatriato viene presentata come l’annientamento dell’idea romantica del “cercare fortuna altrove”: andarsene significa privarsi di qualcosa che non riavrà mai indietro, e sì, adesso è al sicuro, e forse sarà libero, forse sarà arricchito, forse crescerà come individuo e scoprirà lati di sé che non avrebbe altrimenti saputo. Ma il prezzo è così alto, che chiamarla fortuna sembra macabro, grottesco. Nessuno dovrebbe mai sentirsi costretto a lasciare casa propria. Sembra una cosa banale da dire ma, leggendo queste storie terribili di guerra e devastazione, di lutti e fughe nella notte, mi sono chiesta se non stiamo sottovalutando – noi europei, noi italiani – il fatto che tutti quanti ce ne siamo andati da casa come fosse niente, e nella stragrande maggioranza dei casi non ci torneremo a vivere mai più. Con leggerezza che odora di negazione facciamo le valige a diciotto anni – chi va a vivere all’estero torna poi solo a Natale, e ne parla sempre bene; chi si stanzia a Milano o a Roma dice “è come stare a casa”. La nostalgia è vietata, bandita. Ma ci è stato tolto qualcosa e forse non lo vogliamo vedere – chi saremmo se fossimo rimasti, cosa siamo diventati andandocene – perché è troppo doloroso ammettere che siamo partiti per lavorare, per fuggire alla miseria. Parlare di ambizione suona meglio.
In Allah 99, alcuni passaggi sulla difficoltà di integrarsi suonano fra i più intimi, i più vicini forse all’autore stesso.
Un ultimo appunto: la scrittura è confusionaria. Sembra che l’autore voglia rendere la lettura faticosa anche a livello stilistico. Cambia persona continuamente, parla a sé stesso dandosi del tu, parla con Palomar, che gli risponde, poi torna l’io narrante, e subito l’io narrante diventa quello dell’intervistato, c’è un uso smodato del grassetto per separare e unire i personaggi, i registri, le voci. Non si comprende mai del tutto se queste storie siano vere o no (per buona parte del libro ho creduto di leggere delle vere interviste).
Alla fine, che fossero vere o inventate poco importa – il caos narrativo e sgangherato di Allah 99 riflette con crudeltà beffarda il piano emotivo di questo conglomerato di vicende da incubo: l’alienazione, la solitudine, la rabbia, la tragedia dell’assurdo, la poesia, l’attaccamento alla vita, la perdita di senso. L’integrazione, necessaria ma indesiderabile, perché è come una resa, un tradimento. È come dimenticare. Hassan non va avanti, sta fermo e ricorda tutto, le cicatrici, i traumi, l’amore, il sesso, la violenza, la tenerezza, l’infanzia, la perdita, la morte che incombe. Non c’è una vera conclusione, perché la vita e la tristezza non finiscono. Ma, con tutto il suo dolore, questo libro coraggioso e sporco mi ha messa ancora una volta in discussione, mi ha posto domande senza darmi risposte, mi ha fatto sentire scomoda sul mio divano morbido. Credo che la migliore letteratura debba fare questo.
Emanuela Anechoum, calabrese marocchina, classe ’91. Ho fatto un tuffo carpiato da Londra a Roma e mi sto lentamente abituando all’imprevedibilità dell’Atac, alla familiarità dei quartieri assolati, all’avere un salumiere di fiducia e a fidarmi di nuovo a ordinare un espresso al bancone. Non amo la sintesi, chi usa il sarcasmo come forma di autoerotismo e le prese di posizione a posteriori. Amo la gentilezza e il latte al cioccolato. Scrivo e poi mi vergogno di quello che scrivo.