La scuola cattolica, un mese dopo

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Per orientarsi tra i commenti a La scuola cattolica nell’ultimo mese non è irrilevante – credo – isolare un dato che altrove sarebbe scontato: c’è La scuola cattolicafilm e La scuola cattolica-metafilm (più censura). Partiamo dal primo.

La cifra (tecnica) del film è evidente: montaggio ellittico. L’obiettivo dell’alternanza tra tempo della storia e flashback è quello di riprodurre l’Italia degli anni ’70; il regista Stefano Mordini sceglie climax ascendente e musica didascalica a ogni salto temporale, preoccupatissimo che il film annoi. E il timore diventa ossessione, il contesto è impalpabile: il voice over di Albinati-protagonista riempie i momenti morti, le traiettorie dei personaggi sono scollate da una Roma che è quasi d’intralcio. L’impressione è di restare in superficie, a favore di un’impostazione che ribalta capo e coda del romanzo: il flash inziale di Donatella (Benedetta Porcaroli) esanime che bussa dal bagaglio della 127 costruisce una narrazione sospesa; al contrario, nel libro i fatti del Circeo colgono il lettore impreparato, la scrittura deflagra dopo oltre 400 pagine, circondata da un’accuratissima somatizzazione ex ante. La battuta «come si passa da un giorno all’altro da ragazzi difficili a feroci stupratori e assassini?» rimane inascoltata; stravolgere la narrativa smisurata del libro era inevitabile (un’esigenza), ma saldare la narrazione attorno a una conclusione (già) disvelata, sembra una scelta apotropaica anti-noia, preparatoria, che inserisce il gioco chiave “commento sincronico/cognizione diacronica” del romanzo in una dimensione solo ex post.

Nel racconto-non racconto della violenza al Circeo Mordini invera sé stesso; la narrazione del massacro è – a ragione – asciutta, lucida, ingiustificata, ma solo se isolata dal resto del girato; la suspence indotta dal flash inziale implode su stessa, depotenziando la scelta del regista.

La lezione del professore sulla rappresentazione della crocifissione – «Noi nasciamo derivando dal male» (eco a Kant detto molto, molto male) – è davvero troppo poco per riassumere il grumo teoretico della storia.

Il frame da portarsi a casa è il volto di Porcaroli che canta La collina dei ciliegi dal finestrino della 127. Oltre quella collina c’è l’orizzonte di un movimento femminista per la prima volta soggettivizzato; c’è il tentativo (abbozzato) di mostrare Trieste come il quartiere simbolo in cui borghesia e proletariato si incontravano/fronteggiavano, in una capitale che non si trasforma nel recettore sensoriale onnisciente del romanzo: la diatopia de La scuola cattolica è in secondo piano e non co-protagonista come per Albinati.

Riflettere sulla censura è anacronistico, ma mi porta a ciò che sta oltre La scuola cattolica. In ordine: il divieto ai minori ha fatto parlare moltissimo del film, ha ribadito l’afflato paternalistico del nostro paese, ha sterilizzato il dibattito sulle metatematiche della storia. In più – e vengo al punto – il film ha presentato un messaggio al cento per cento socio-didascalico, socio-accusatorio. L’indirizzo del film altera la dimensione individuale che in Albinati è la vera grandezza. La valanga sociologica che il romanzo percorre avanti e indietro è precisa: società, famiglia, scuola-gruppo, maschio-individuo.

È tutto qui (almeno all’inizio): perché il maschio stupra? Albinati se lo chiede proprio in quanto maschio che è e fa la società; il film invece evita il singolo, la narrazione di Mordini è bulimica di un noi colpevolmente inscindibile. I facevamo, andavamo, vedevamo del romanzo sono maschere del processo di appropriazione maschile. «Essere maschio è una malattia incurabile» anzitutto a livello microscopico: è il noi a fagocitare l’io. Altrimenti tutto diventa sociale, colpe, responsabilità, cause e concause. La mascolinità tossica è uno status che si nutre del racconto plurale. Mi viene in mente Francesco Piccolo: «questa è una caratteristica fondamentale del maschio: bisogna sempre mostrare di sapere già quello che non si sa ancora; quindi se qualcuno inizia a parlare non bisogna mostrarsi curiosi ma indifferenti […]. Questo porta ad avere meno informazioni di quante ne vorresti perché non puoi chiedere visto che già sai» (L’animale che mi porto dentro, Einaudi).

Il film filtra l’intenzione famelica, predatoria, programmatrice, impunitaria che co-ordina la società dello stupro, di cui dimentica l’analisi sociologica. Il sesso è linguaggio e non strumento, perché è manifestazione del volere oltre: il maschio è al centro del rapporto individuo-società, trasforma la libertà in metalibertà della pulsione, del delitto. Solo a questo punto ha senso chiedersi in quale misura siamo tutti coinvolti. La scuola cattolica è un film necessario; ricordare, analizzare è il fondamento della prospettiva futura. Ma un sottotesto socio-cronachistico è inutile, soprattutto se lontano dal presente. La prendo larga: leggo e seguo ogni giorno Carlotta Vagnoli e la sua battaglia contro (per esempio) il “not all men”. Ha ragione, è una presa di posizione irrilevante e dannosa, ma è cruciale misurare a livello individuale l’inferenza sociale, partire cioè da quei men consapevoli della bolla machista in cui si muovono – il loro contributo è determinante (oltre che dovuto). Non andava sottovalutata l’impronta maschile dietro la narrazione della «malattia incurabile»; Mordini lo fa, dimenticando però il discorso precursore di Albinati: Il femminismo è il più importante movimento politico dal Novecento ai giorni nostri. Nel film delle due donne resta solo la bellezza di un volto, non si sa altro.