Nina sull’argine: un cantiere aperto

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L’espressione “cantiere aperto” si usa spesso in senso figurato per rappresentare una ricerca in divenire, per dare l’idea di un’opera in costante aggiornamento, che si sostanzia dell’apporto di più persone.

Leggendo Nina sull’argine (minimum fax, 2021), il secondo romanzo di Veronica Galletta, si ha invece l’impressione di essere davvero, fisicamente, in un cantiere, con progetti, scavi, gru e operai.

Caterina, detta Nina, è una giovane ingegnera. Qui è doveroso aprire una parentesi linguistica: per tutta la narrazione Galletta usa «ingegnere», e io sono per l’autodeterminazione. Tuttavia, nelle prime battute di dialogo si legge:

«Buongiorno, signora.
Ingegnere.
Signora mi sembrava più gentile.
Non siamo qui per scambiarci gentilezze.
Ha ragione sa? È giusto tenere al proprio titolo.
Non è un titolo nobiliare. È il lavoro che faccio. Ingegnere.
[…]
Preferisce ingegnera? Sapete che quando è venuto il Soprintendente, per il nostro castello, è sceso dalla macchina, era una donna!
Addirittura.
E io l’ho chiamata signora, proprio come il geometra adesso con lei!
E se ne vanta?
E lei mi ha risposto: Architetta, mi deve chiamare architetta!
Ingegnere e basta mi va bene, non pretendo tanto.»

La protagonista, dunque, non pretende tanto dai suoi colleghi eppure, alla luce di queste poche, fulminanti battute, non mi sembra di farle un torto chiamandola d’ora in poi «ingegnera».

Ma torniamo al romanzo. I responsabili dello studio per cui Caterina lavora sono sotto indagine (concussione? corruzione? Non è chiaro) e a lei è stato affidato un incarico importante: la costruzione di un argine che difenda Spina, frazione di Fulchré, dalle esondazioni. Attorno al cantiere si muovono figure singolari: l’assessore Lovecchio, tutto preso a decantare le prelibatezze culinarie della zona, come solo un membro della Pro Loco sa fare; il geometra Bernini, laconico e dignitoso; la vedova Bola, burbera e scontrosa, che ha perso il marito Nando proprio in un cantiere; o ancora Musso, ostinato portavoce del Comitato Fiume Libero. L’ingegnera non deve solo barcamenarsi tra gli imprevisti di un’opera in costruzione, ma anche superare la disgregazione della sua vita personale così come la conosce: il compagno Pietro si è chiuso la porta di casa alle spalle e, dopo anni di convivenza, l’ha lasciata sola con la gatta Nerina.

La lingua del romanzo è asciutta, montata sulla salda impalcatura del gergo tecnico. Descrive argini, prove tecniche, assestamenti, con un’aderenza al paesaggio che segue il ciclo delle stagioni. È degna erede di quella letteratura industriale degli anni Sessanta e Settanta, che conosce i suoi risultati migliori nella Speculazione edilizia di Calvino, nel Memoriale di Volponi e, infine, nella Chiave a stella di Levi (non a caso, gli stessi libri che Nina va cercando in libreria). Così, Galletta abbandona l’ambientazione sfumata e visionaria delle Isole di Norman, che nel 2020 le è valso il Campiello Opera Prima, – ne abbiamo parlato qui – e approda da Ortigia alla Pianura Padana, senza però rinunciare a scene sinistre e allucinate.

L’autrice sostiene che questo non è un romanzo femminista. È vero: è un romanzo di formazione. Ma, come teorizzano Paola Bono e Laura Fortini (Il romanzo del divenire. Un Bildungsroman delle donne?, Iacobelli Edizioni, 2007), nei casi in cui la protagonista è una donna «non di Bildung si tratta – di processo lineare e concluso – ma di un divenire».

Questa considerazione vale anche per Nina sull’argine. Quando conosciamo Caterina, infatti, abbiamo la percezione che sia una giovane ingegnera che fatica a emergere nello studio di professionisti in cui lavora e che subisce (invece di guidare) la propria vita sentimentale. Sfogliando in avanti le pagine, non vediamo una progressione costante della protagonista, piuttosto un graduale sprofondamento, che spesso trova corrispondenza con gli agenti atmosferici esterni (nebbia, pioggia, grandine). In un improvviso accesso di rabbia (o forse di lucidità) Caterina inscatola i libri un tempo condivisi col compagno. Gliene capita tra le mani uno di Michele Mari e, con metodo equo e brutale, decide di scinderlo in due parti: a lui La stiva, a lei L’abisso. Il processo di ricostruzione del sé è innescato, ma il percorso di consapevolezza è ancora lungo e disseminato di passi falsi. Eppure, nonostante permanga la scissione tra una Caterina remissiva e una Caterina aggressiva, anzi proprio in virtù di questo dualismo, la protagonista approda a un equilibrio.

Nella seconda parte del romanzo troviamo un episodio particolarmente indicativo del suo moto oscillatorio, scandito da insicurezze. Tartaro, il responsabile di Caterina, la convoca nel suo ufficio insieme al collega Morabito. La situazione è curiosa: Morabito è curato nell’aspetto (giacca di fresco lana, rasatura recente), Caterina invece «si guarda le unghie, nere dopo una mattinata di prove. Fa mente locale sul giaccone sporco di fango, come i pantaloni e le scarpe». La correlazione lavoro-abito aveva toccato anche Chimamanda Ngozi Adichie, come leggiamo nel suo Dovremmo essere tutti femministi (se volete, qui il TED Talk da cui è nato il libro). Adichie racconta di quando, alla vigilia della sua prima lezione da docente universitaria, la sua preoccupazione fosse tutta volta all’abbigliamento: «Avrei tanto voluto mettere il lucidalabbra e la gonna corta, ma ho preferito non farlo. Ho messo un tailleur molto serio, mascolino e molto brutto. […] Un uomo che va a un incontro di lavoro non si chiede se sarà preso sul serio in base a come è vestito, una donna sì». Caterina è lì, seduta davanti alla scrivania del suo capo. Il suo collega è elegante e pulito, mentre lei sui vestiti, sulle unghie, porta le tracce del lavoro in cantiere. Potrebbe essere più vicina di così a come dovrebbe essere un uomo? Eppure questo non la rende più affidabile. Tartaro definisce Caterina «precisa e puntigliosa», ma le sue parole suonano come offensive: ha ricevuto delle lamentele dalla Provincia e, nonostante l’efficienza patente della donna, vuole sollevarla dell’incarico. Per fortuna di Caterina, il percorso dell’eroina è ormai in ascesa. Le sue insicurezze vanno dissipandosi, ha già affrontato il proprio abisso e non ne vuole saperne di ripiombarci: rifiuta decisa di abbandonare il cantiere.

Come ha detto Marina Pierri sulle protagoniste femminili nelle serie TV (Eroine, Tlon, 2020) «[le progressioni] sono uguali nel descrivere la nostra esperienza eroica non come un percorso di costruzione, ma di distruzione. Se l’uomo ascende, la donna discende per ascendere». 

In questo continuo tempo «in battere e in levare», la nuova identità di Nina arriva a un passaggio obbligato: la riscoperta delle proprie origini. L’ indagine introspettiva della protagonista ha come guida «l’uomo dello scavo». Tramite l’incontro con questo operaio anziano, che le suggerisce la strategia più affidabile per costruire l’argine, che parla con accento siciliano come lei e condivide la sua passione per frittelle e parmigiana, Caterina riconosce le sue radici. Un po’ come quando, durante un esame universitario, si ostinava a cercare il baricentro fuori dalla figura, scoprirà che quel punto di riferimento saldo si trova dentro di sé.

La crescita di Nina non sta nella sua perdita di ingenuità a vantaggio di un certo cinismo, ma nel trovare un compromesso: «tutto insieme non si può tenere, e andare avanti significa sempre un po’ tradire». È un divenire, che approda a un punto per poi spostarsi ancora, accoglie i propri contrasti e li supera. Nina sull’argine ci lascia così, con un cantiere terminato ma che, chiudendosi, apre la strada a costruzioni future.