La ricetta è la seguente: tre quarti di animali antropomorfi della tradizione ellenica, una leggera glassa di cinismo, un quarto di Bibbia e una spruzzata di insegnamenti morali di Esopo. Lasciare cuocere per qualche minuto e il dolce è pronto: ecco I miei stupidi intenti, il romanzo d’esordio di Bernardo Zannoni, pubblicato lo scorso agosto da Sellerio Editore.
Al centro della storia, la vita della faina Archy, nato in una famiglia di sei fratelli, orfano di padre – catturato dall’uomo – e figlio di una madre austera la cui unica preoccupazione è sfamare i figli, a costo di lasciare i più deboli indietro. Otis non gode di buona salute, «morirò perché non cresco»; Cara, non vede da un occhio e Archy non brilla per prestanza fisica. Solo Leroy diventa robusto, e accompagna la madre durante la caccia. Infine c’è Louise, la sorella di cui il protagonista si innamorerà in primavera: «Sono bella, Archy?».
Presto le sfortune arrivano con la stessa durezza dell’inverno. Entrambe, la stagione fredda e le insidie, porteranno Archy a diventare operaio della volpe Solomon, detta l’usuraio. Anche se all’inizio la piccola bestia è riluttante, l’esperienza sulla collina di Solomon diventerà sempre più intima e avventurosa. Il rapporto tra i due maturerà attorno alla potenza di un doppio segreto che la volpe custodisce: Dio e la parola scritta.
Il romanzo d’esordio di Zannoni è come un disegno in apparenza semplice, ma che nasconde diversi livelli di lettura. Quello più superficiale è relativo alla struttura narrativa che richiama la favola di Esopo – o la favola classica più in generale. L’autore però è accorto e non appiattisce i personaggi ad anime umane incastrate in corpi ferini. Anzi, lo stile fresco di Zannoni è una costante che accompagna tutta la narrazione, discretamente calibrata dall’autore tra passaggi più intensi e altri squisitamente lievi e aiuta a illuminare, tramite una prosa schietta e leggera, i momenti più crudi con una luce oggettiva. Tale approccio contribuisce a creare una sensazione di sorpresa che avvicina il lettore al protagonista. Il gap tra la crudezza della vita nel bosco e la potenza dell’idea di Dio crea una coesistenza stupefacente e al contempo del tutto naturale. Nel processo di avvicinamento di queste due realtà interviene il linguaggio preciso ma ritmico di Zannoni, che con il suo ticchettio prosaico crea uno scivolo di lettura danzante con il quale inserisce concetti fondamentali in una narrazione agile. Si tratta di una delicata operazione chirurgica, ma ben riuscita. Per questa ragione ne I miei stupidi intenti è possibile riscontrare una compresenza tra Dio e la morte, il duro lavoro e l’amore sulle rive di un fiume, una faina e una vecchia volpe.
Dunque, la divinità si rivela ad Archy e Solomon come l’esistenza di un sostrato ulteriore alle loro esistenze, ed entrambi fanno proprio questo concetto in modo differente: il primo con una specie di devozione eucaristica, il secondo con una fede combattuta. Lo strumento con cui scoprono questo “sostrato” è la Bibbia, in sostanza l’oggetto libro. Questo approccio linguisticamente pragmatico ricorda le filosofie di Giustino, secondo cui Dio avrebbe creato il mondo per mezzo del Logos, come mediatore della volontà divina (Apol. II 6,3). Il linguaggio come messaggero e divinità che si disvela, riportando i due animali a sé stesso.
Infine in questo esordio si potrebbe leggere lo sforzo di osservare la divinità, o più semplicemente il mondo reale, fuori da un’ottica antropocentrica. Il tentativo di raccontare questa storia tramite una faina è emblematico in tal senso. Lodevole l’impegno di Zannoni, nella cui prosa sembra riecheggiare lo sforzo filosofico compiuto in Come pensano le foreste? da Eduardo Kohn. L’idea dell’antropologo parte da un presupposto simile: per allargare la percezione dell’umano è necessario indagare ciò che umano non è. Anche nel saggio-ricerca di Kohn, inoltre, il ragionamento parte dal linguaggio, dalle significazioni che l’autore e la tribù intessono con il mondo circostante, scomodando giganti della semiotica, quali Peirce e Saussure.
Partire dalla lingua delle popolazioni dell’Amazzonia o da quella della Bibbia, che in entrambi i volumi si identifica come parola estranea, vuol dire introdurre una significazione nuova – che muove dall’esterno verso l’interno – e, una volta raggiunto il centro, lo espande e lo arricchisce. In questo doppio movimento di immersione ed emersione, I miei stupidi intenti si propone come una favola antropologica, in cui Archy e Solomon capovolgono il punto di vista: l’uomo e il suo Dio sono due forme da indagare – oltre la paura che provocano – come guardiani del tesoro più grande. Il linguaggio, per l’appunto.

Nato in provincia di Lecce (1993), i suoi racconti sono apparsi su Nazione Indiana, La Nuova Carne, Mircorrizze, Pastrengo e altre riviste letterarie. È stato editor di Sundays Storytelling. Ha co-fondato Salmace. Cosa più importante: ha anche un gatto di nome Mirtilla.