la fuga dei corpi copertina

L’utopia infranta e la pazienza del coltello

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«Chi combatte contro i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro. 
E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro»
Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male

Quando leggo, io penso a James Baldwin. Non solo per la potenza cristallina e “pulita” della sua prosa («pulita come un osso», avrebbe detto lui in una celebre intervista per la Paris Review nel 1984) e la portata radicale del suo pensiero, ma perché l’opera di Baldwin rifiuta categoricamente di essere consolatoria; è lucida, a volte spietata, immensamente generosa nel suo sentire intellettuale, ma non consolatoria.

Addentrandomi nei percorsi di senso tracciati da Andrea Gatti nel suo esordio La fuga dei corpi, pubblicato da Pidgin Edizioni, ho pensato alle riflessioni di Baldwin sulla rabbia, il risentimento e il trauma come prodotti culturali di un razzismo sistemico e secolare, al ruolo imprescindibile della supremazia bianca nelle relazioni personali degli uomini e delle donne nere, e alla violenza, l’abuso, l’omicidio, perfino, come risposta al perpetrarsi di umiliazioni costanti e a un trauma endemico dell’esistere quotidiano.

Daniel, uno dei protagonisti del romanzo, è nato da una madre bianca e italiana e un padre nero «Una volta gli avevo chiesto se l’essere chiamato negro lo ferisse. Per niente, aveva detto lui. Mi diverte. Un negro italiano è inconcepibile», ricorda Vanni, il suo compagno di viaggio. Fin da subito Daniel e Vanni si presentano come due anime combacianti: l’uno razzializzato dall’infanzia, traumatizzato dall’assenza di un padre con cui non ha mai potuto confrontarsi sulla peculiarità della sua posizione nel mondo, e l’altro in fuga da una famiglia apprensiva e da un privilegio che per lui ha il sapore della prigionia borghese. Il passaporto italiano che li accompagna nelle loro peregrinazioni ha per Daniel il valore di una sfida a un sistema che riconosce la sua cittadinanza, ma non la sua appartenenza. Dopo un primo incontro folgorante e un’amicizia a distanza nutrita da un insaziabile bisogno di fuga, i due amici partono alla volta di Cala Bruja, un luogo dove lasciarsi finalmente alle spalle il fardello dell’ordinario.

Il viaggio, quindi, non è solo un tentativo di sfuggire alla monotonia spossante del capitalismo neoliberista, ma è infuso di una ricerca di liberazione intesa come assenza di limiti e responsabilità. Mentre i due si arrabattano per raggiungere la spiaggia, «dove non vige alcuna regola se non quella della libertà individuale e del rispetto reciproco» si imbattono in una fauna di «angeli custodi» e sanremesi ostili, donne in difficoltà e «zingari» con un’impressionante collezione di occhiali da vista.

Gatti, creando una continuità narrativa fra i punti di vista dei due compagni, fa un coscienzioso lavoro di rispecchiamento: i narratori sono inevitabilmente inaffidabili, perché non si conoscono davvero. Le rotte delle loro esistenze si sfiorano e convergono, si fondono e collassano, fino al punto di liquefarsi in uno spaventoso unicum narrativo destinato all’implosione. 

Fin da subito – nonostante sia una lettura possibile solo a posteriori – il viaggio è il concretizzarsi di una “follia a due” in divenire, uno scegliersi per mentirsi, per ricoprire i ruoli predisposti di chi guida e chi segue, e l’arrivo a destinazione, che entrambi aspettavano come un catartico disvelamento sotto il sole andaluso, consegna l’amaro verdetto dell’impossibilità. La libertà sfuggente, che non si rivela nei “processi di liberazione”, per prendere in prestito la definizione di Michel Foucault, ma è definita dalle sue «pratiche di libertà». 

La fuga dei corpi ci mostra cosa accade quando due giovani uomini vissuti nel relativo privilegio che la società occidentale può offrire si inoltrano nell’inaudito, nell’insperato, nell’ignoto di un’utopia radicale agognata ma alla quale si accede da visitatori impreparati. Mentre Daniel – che vive nel suo delirio superomista, «che nemmeno aveva mai letto Nietzsche fino in fondo perché lo sapeva già», nel suo nichilismo e nell’amarezza di non appartenere al mondo – comincia a fronteggiare i suoi fantasmi, Vanni – che nell’innocua zavorra del bravo ragazzo ha trasportato un ospite tumultuoso e violento – lascia alla fine tracimare ciò che da tempo sembrava ribollire nell’inconscio. 

Cala Bruja non è però il focolare del primitivismo, una comunità paritaria dedita ai piaceri semplici e droghe a chilometro zero. 

Mentre Vanni trova la sua dimensione – e la perversione fino a quel momento celata dietro più di una maschera –, Daniel si scopre, un’altra volta, estraneo: «Ma poi – eccolo – il paradiso è sempre interdetto, sempre nascosto, velato, oscuro. Se lo raggiungo non è già più paradiso. Il paradiso è una finzione».

Il paradiso dell’autosufficienza e dell’autodeterminazione si rivela presto una farsa fra le fronde, e sopruso, gelosie, faide interne, violenza sulle donne, stupro e omicidio si ripropongono in una cornice di acque cristalline e rituali orgiastici dal retrogusto sacrificale.

La depravazione, dunque, non si può separare dall’umanità? Siamo noi, esseri umani, irredimibili?

L’autore sembra infatti mostrarci come l’allontanamento dalle maglie opprimenti della società contemporanea non sia sufficiente per liberarsi dal suo condizionamento profondo: il panopticon, da cui i protagonisti credono di sfuggire abbandonando la società dei consumi, si ripresenta a Cala Bruja, perché la prigione non è nei luoghi, ma nelle relazioni; «l’inferno sono le altre persone», recita una delle frasi più famose del filosofo francese Jean-Paul Sartre. 

«[…] non è la libertà a rendere felici, ma la continua liberazione senza fine», rivela con amarezza Daniel. Perseguire la libertà significa prendersi cura degli altri, della comunità, della terra e del pianeta. La libertà non esiste finché non diventa collettiva, orientata verso un’utopia del possibile che sarà sempre in divenire, e nella cura del processo si rivelerà. 

Ma «la libertà è dura da portare» scriveva, per l’appunto, James Baldwin.

Nella prefazione all’edizione del 1961 de I Dannati della Terra di Franz Fanon, Sartre scrive «[…] battiamoci: in mancanza d’altre armi la pazienza del coltello basterà». Il filosofo si riferisce alla violenza come liberazione degli oppressi e dei colonizzati, in cui il momento di perfetta sintesi hegeliana si verifica nella fenditura, fisica e metaforica, creata dal coltello. Quando gli oppressi e le oppresse si liberano dei loro travestimenti di colonizzati, e si riconoscono come esseri umani, ecco la libertà, il riconoscimento di sé come altro dalla condizione subalterna a cui sono stati destinati.

Quell’impeto di violenza generatrice che Sartre augura ai «dannati della terra», epifania di una lotta di liberazione collettiva, nel romanzo di Gatti si fa arma di autodistruzione: «il fratello, alzando il coltello contro suo fratello, crede di distruggere, una volta per tutte, l’aborrita immagine del loro avvilimento comune». Quando l’utopia si frantuma, cadono tutte le maschere. 

In questo esordio potente e destabilizzante, Andrea Gatti ha ricamato una tela sontuosa e complessa che ci mette di fronte alla realtà di incontrarsi davvero: sia Daniel che Vanni vengono posti di fronte al dilemma di “rompere lo specchio” come gesto finale di una scoperta di sé scevra di abbellimenti e ipocrisie. Nelle affannose pagine che si srotolano nel finale, entrambi riconoscono quel rispecchiamento iniziale, quel collassare impetuoso della ragione e della loro unità; non attraverso lo specchio, dove la verità si palesa come inevitabile e inespugnabile, ma riflessi nello specchio. 

Se Alice precipita in un Paese delle Meraviglie che custodisce gli orrori di una monarca crudele e mercuriale, sono Daniel e Vanni stessi a cesellare l’inferno di Cala Bruja con la precisione di un coltello. 

Il rivelarsi di Vanni e Daniel non come semplici paladini della verità e della libertà radicale, ma anche come i prodotti di un privilegio che fa della loro rabbia un capriccio e dei loro crimini meri effetti collaterali, illumina l’abisso di Nietzsche di inediti e inquietanti significati, immersi nella contemporaneità del nostro esistere e nell’eredità del nostro bagaglio sociale.

In un romanzo in cui domina palpabile il «pessimismo dell’intelletto» di gramsciana memoria, Gatti apre uno squarcio critico nei confronti dell’egocentrismo nichilista e nel solipsismo edonista, e identifica la libertà non nell’abiura bensì nella presa di coscienza della responsabilità individuale per la nostra sopravvivenza collettiva.