Il mito vulnerabile

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Esiste un legame ancestrale tra uomo e mito – una connessione che va al di là del tempo, una tradizione che ci ricorda da dove veniamo e ci avverte su dove siamo diretti. Le storie che ci raccontiamo non sono solo una chiave di interpretazione della realtà: la plasmano, cambiano la nostra percezione, invadono il nostro sentire e, nei secoli, nei millenni, diventano parte di chi siamo come società e come specie. 

I miti greci, romani e cristiani sono gli archetipi della nostra cultura, ma anche della nostra comprensione della psiche umana. I personaggi di queste storie sono l’umanizzazione di un sentimento fattosi carne, portato all’estremo per mostrarci il meglio e il peggio che da esso possiamo aspettarci. Sono storie complesse – in cui la distinzione fra bene e male appare riduttiva –, ma che conducono un’analisi quasi ossessiva del vocabolario delle emozioni: Achille è dominato dall’ira, Medea dalla gelosia, Elena dalla voluttà, Ulisse dalla curiosità. Il mito diventa epitome di qualcosa che nella realtà non è mai uguale a sé stessa: i sentimenti sono scandagliati, incoerenti, flebili e radicati. Eppure c’è un motivo se torniamo sempre al mito quando ci interroghiamo sulla natura delle emozioni umane – un esempio è il recente saggio Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo, di Vittorio Lingiardi, che proprio dalla favola di Narciso inizia un percorso che, attraverso poesia, arte e psicologia, tenta di analizzare il tratto della personalità che sembra aver invaso la nostra società dell’apparenza.

Alcune teorie psicanalitiche sono così connesse ai miti greci da essere a tratti inestricabili da essi: dal mito di Narciso a quello di Edipo, i drammi e i personaggi che popolano la tradizione greca hanno definito la nostra interpretazione di determinati sentimenti e comportamenti. E così anche il modo in cui intendiamo l’espressione artistica, le tecniche narrative, la morale, dalle favole ai musical di Broadway, dal concetto di pathos a quello di catarsi. 

La società è cambiata parecchio negli ultimi tremila anni, eppure il fascino del mito continua a tentare artisti e scrittori che vi trovano ispirazione per intendere la realtà che ci circonda: ultimamente, si è visto nella narrativa contemporanea un nuovo filone di rilettura del mito greco in chiave femminile e femminista – penso ad esempio a Le Penelopiadi di Margaret Atwood, Circe di Madeline Miller, Il silenzio delle ragazze di Pat Barker. Le autrici in questione cercano di dare a questi personaggi, indimenticabili eppure sempre visti come secondari da chi li raccontava, una voce moderna, nuova, che faccia da guida a chi oggi cerca di conquistare a fatica la propria indipendenza, di reclamare un proprio centro. Già Christa Wolf, negli anni ’80, aveva utilizzato i miti di Cassandra e Medea per denunciare la società patriarcale che riduce le donne a streghe, e aveva cercato di ridare a queste figure nuova dignità, trasformandole in donne forti, consapevoli, coraggiose, libere. Se la società, per come la conosciamo, è cresciuta raccontandosi queste storie, le stesse potrebbero farci crescere in nuove direzioni, se solo ci sforzassimo di spostare il punto di vista.

Il nuovo libro di Matteo Marchesini si muove su binari diversi, ma paralleli. Miti personali (edito da Voland), un titolo quasi ossimorico considerato il valore universale del mito, sono sedici racconti, alcuni brevi, fulminei, altri più lenti, sofferti, che nella narrazione mitologica sembrano cercare le fragilità nascoste dell’eroe, le stesse che ritroviamo in noi stessi. Una ricerca inquieta, che non vuole essere consolatoria o didascalica, ma più caotica, apparentemente casuale, multidimensionale, talvolta incoerente – qualcosa che insomma assomigli, in effetti, alla nostra vita. 

I racconti non hanno un filo conduttore, ma è impossibile non notare la presenza di  alcuni temi fondamentali, che sembrano essere i nodi di una generazione di odierni trentenni-quarantenni, incastrati fra ciò che avremmo dovuto essere e ciò che in realtà siamo, tra le fantasie di onnipotenza e l’immobilismo di una società che promette tutto e non dà niente, tra le spinte al successo e il bisogno dell’intimità del fallimento, tra il volto pubblico dei social e quello privato, in cui ci troviamo realmente liberi a volte anche di essere tristi, spaventati, delusi, soli. E così Achille insegue Ettore per sempre, senza mai riuscire ad acchiapparlo, consapevole che le loro morti sono legate e che ucciderlo significherà anche la propria morte; Ulisse torna a Itaca, ma non siamo affatto certi che sia lui per davvero: tutti sembrano stare al gioco di uno scaltro impostore; Gesù in croce si dispera per l’umiliazione che ha fatto subire ai genitori, anni prima, al tempio («non c’è peccato più grande di quello di aver fatto sentire alla bambina e al vecchio la loro povertà come una mancanza»); Filottete crolla sotto le aspettative dei suoi compagni: 

«“L’unica cosa che vorrei, Neottolemo, non posso averla” lo anticipò Filottete. Esitò un istante, prese fiato. “Essere guardato come un arciere qualunque, ecco cosa vorrei. Uno che ha avuto una disavventura… Vorrei che non mi si chiedesse niente di speciale, e non mi si curasse perché io vi curi”».

Eroi con la sindrome dell’impostore, eroi con l’ansia da prestazione, eroi traumatizzati dall’abbandono, eroi intrappolati in un’eterna fanciullezza da madri e padri maniaci del controllo. Andando avanti nella lettura, i loro piccoli movimenti sulla scacchiera della raccolta appaiono sempre più patetici, forse un po’ grotteschi; meritano compassione, come un po’ la meritiamo anche noi. Sono figure difettose che sembrano quasi voler capovolgere il loro ruolo simbolico; anzi, non vogliono rappresentare niente se non sé stessi e la propria specifica dimensione imperfetta.

Verso la fine, qualcosa si ribalta: non ci sono più nomi facilmente riconoscibili, non si pesca più nell’immortale. Appaiono personaggi nuovi, comuni, nuovi archetipi forse, dèi del futuro. Così c’è un dio che è un imprenditore di successo, avaro e corrotto, che nonostante la meditazione e i corsi di buddismo sembra vivere con il cuore chiuso in una scatola di ovatta, e a forza di occultare i propri sentimenti soffre di attacchi di panico che gli fanno temere la morte. Arriverà, ma non subito. C’è un eroe ragazzino che racconta il Pilastro – quartiere popolare della periferia bolognese – senza conoscerlo, e altri che invece lo conoscono bene, che gli concedono la menzogna perché è ben scritta. C’è una storia d’amore tragicamente moderna, con tutte le sue fasi naturali: l’esaltazione dell’innamoramento, l’abitudine, l’accudimento, la fine, tutte racchiuse in un rapporto che si consuma in quattro giorni, in un viaggio in macchina tra l’Aquila e Roma.  Queste favole odierne sembrano avere l’eco di un monito, scanzonato, forse arreso: i nostri miti sono un po’ sconfitti, un po’ stanchi, e anche noi siamo un po’ stanchi, un po’ sconfitti. Ma la consolazione, come sempre, sta nella complessità di ogni cosa, nel non voler ridurre la vita a modelli preconfezionati, a una realtà bidimensionale. Il mito quindi si fa punto di partenza per la ricerca dell’ignoto – dell’incomprensibile, dello strano, e di tutto ciò che non è facilmente riducibile: in una parola, dell’identità.