Consideriamo la letteratura come un videogioco a cui partecipino due entità distinte: il pubblico (o utenti) e gli scrittori e le scrittrici (o sviluppatori). Poniamo quindi che a questo gioco si possa aderire con un grado di intensità differente da entrambe le parti: per gli utenti questo dipenderà dallo stato di immersione raggiunta (legato a fattori che vanno dall’abilità di comprensione di un testo, alla concentrazione, all’interesse); per gli sviluppatori questo verrà invece valutato sulla base della credibilità, della “vivificazione fantastica” proposta: in poche parole, la costruzione dello spazio di gioco, il worldbuilding messo in campo.
Per calare questo piccolo sistema in un caso concreto prendiamo come esempio Lettere da Whalestoe, il nuovo libro di Mark Z. Danielewski (autore del celebre romanzo Casa di foglie), recentemente edito da 66thand2nd, nella traduzione di Leonardo Taiuti e Sara Reggiani. Questa raccolta di lettere potrebbe essere considerata una sorta di spin-off di Casa di foglie. Lì c’era la storia di Johnny Truant, tatuatore di Los Angeles, che trovava nell’appartamento di Zampanò, uomo anziano morto in circostanze misteriose, il manoscritto di un saggio di critica cinematografica su un documentario apparentemente inesistente girato da Will Navidson, rinomato fotografo internazionale e vincitore del premio Pulitzer. Qui ci sono invece le lettere – già presenti in numero parzialmente ridotto nell’Appendice E di Casa di foglie – che la madre di Johnny Truant, Pelafina H. Lièvre, ha inviato al figlio con cadenza quasi mensile dall’istituto psichiatrico Three Attic Whalestoe. A corredo di questa raccolta troviamo l’introduzione di Walden D. Wyrhta, una specie di burocrate dell’istituto, che si autodefinisce l’«Esperto di informazioni», e introduce il lettore al profilo umano e psicologico di Pelafina. Per comprendere però la ragione per cui, se considerassimo la letteratura un videogioco (e il genere ergodico una delle sue forme più riuscite), questo possa fornici una chiave di lettura ulteriore sulle Lettere da Whalestoe, dobbiamo retrocedere alle origini della definizione di gioco.
Secondo Johan Huizinga, autore del saggio Homo Ludens (Einaudi) il gioco è «un’azione, o un’occupazione volontaria, compiuta entro certi limiti definiti di tempo e di spazio, secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa». Per Huizinga, infatti, una caratteristica incontrovertibile dell’attività ludica è quella di definire un tempo e uno spazio autosufficienti e, sulla base di questi, stendere regole situate «fuori dalla sfera delle norme morali», non essendo il gioco «né buono né cattivo» – ragione per cui possiamo definire attività ludiche, a un pari livello, i tornei di Scala 40 o le sevizie sadiche proposte nella saga cinematografica di Saw. Tutte queste condizioni sono necessarie a generare un’arena di gioco (fisica e mentale) dentro cui il soggetto possa muoversi libero, allontanandosi dalla quotidianità per «entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria».
Un tipo di letteratura che mi sembra concentrarsi su questa formazione di arene ludiche è quella ergodica. Nella definizione dell’informatico Espen J. Aarseth tratta dal libro Cybertext. Perspectives on ergodic literature, questo genere letterario richiede «sforzi non superficiali per permettere al lettore di “attraversare il testo”». Questi «sforzi» possono presentarsi sottoforma di giochi testuali (una delle lettere di Pelafina H. Lièvre è un acrostico), vertiginose distorsioni grafiche, profluvi di appendici a cui il lettore infaticabile deve ritornare a ogni richiamo intratestuale. Al di fuori dell’apparente leziosità dell’impianto (rischio in cui la letteratura ergodica, a volte, incappa) queste operazioni hanno lo scopo di vivificare la materia narrata, coagulare la trama in qualcosa di più delle lettere e pagine, «attraversare il testo» al punto da entrarci dentro. Non è un caso che i libri ergodici si presentino spesso non come romanzi ma oggetti ritrovati, la cui esperienza inizia ancora prima dell’apertura del libro (La nave di Teseo, altro celebre romanzo ergodico di J. J. Abrams e Doug Dorst, riporta in copertina il nome di un altro autore, W. M. Straka, essendo il libro stesso un reperto proveniente dalla Laguna Verde H. S. Library). Alcune volte questi espedienti narrativi si innestano su una storia solida (come in Casa di foglie), altre diventano il centro dell’opera, in una sorta di coazione a giocare che consuma la trama (come accade per La nave di Teseo). Questi romanzi, saturi di rimandi, reperti, enigmi, richiedono al lettore uno sforzo di composizione e scomposizione, districandosi tra le numerose sezioni che formano, nella totalità, un testo ergodico. Questa, a mio parere, è la prerogativa che ha permesso di estrarre Lettere da Whalestoe dal suo corpus originario, rendendolo un libro a sé. Tralasciando la critica abbastanza scontata che si può muovere – ovvero quella di un’operazione editoriale legata al nome di Danielewski a uso e consumo dei fedelissimi di Casa di foglie – l’idea che si possa isolare una porzione di libro, espandendo la materia narrata, è un tipo di intervento su cui vale la pena soffermarsi, anche perché somiglia a quella che nei videogiochi viene chiamata espansione, o DLC.
Pratica iniziata nei giochi di ruolo e poi mutuata dai videogames, l’espansione è un supplemento (in forma di mappe, personaggi, strumenti, trame) che aggiunge all’arena ludica regole e dinamiche nuove, aumentando la longevità del gioco e amplificandone l’esperienza. Per questa ragione gli expansion pack vengono venduti separatamente e a un prezzo inferiore rispetto al gioco di origine, e spesso sono sottoposti a feroci critiche (perché aggiungono poco o nulla al worldbuilding originario), mentre solo in rari casi riescono ad apportare una carica innovativa alla materia narrata. Lettere da Whalestoe potrebbe perciò avere la funzione di prolungare e amplificare l’esperienza di Casa di foglie, in un certo senso di “espanderla”.
Ma in quali passaggi le Lettere da Whalestoe “espandono” Casa di foglie?
Il primo, in ordine temporale, è l’introduzione dell’«Esperto di Informazioni» Walden D. Wyrtha. L’uomo è l’occhio che ci introduce alla protagonista, Pelafina H. Lièvre, ancor prima che lei si presenti da sé. Questa donna, secondo Walden e la moglie, vive come «intrappolata in una vecchia fabbrica diroccata», da cui ogni tanto esce della finissima «seta». La fabbrica diroccata è il cervello di Pelafina, mentre la seta sono le lucidissime osservazioni («Di quali parole vivi, Walden?») o le strabilianti abilità creative («in un certo senso riusciva a farti sentire come se ti avesse inventato lei») che la paziente dimostra tra una crisi e l’altra. Questo punto di vista è utile a comprendere Pelafina da una prospettiva inedita (in Casa di foglie abbiamo, sì, le lettere di Pelafina, ma interpretate solo dal figlio, che ha di lei un pessimo ricordo), e questo mutamento di prospettiva ci rivela una versione della donna particolarmente luminosa e, allo stesso tempo, malinconica.
Ma il nervo attorno a cui ruota la raccolta, ancora più della condizione psichiatrica di Pelafina – a cui sono dedicate alcune delle lettere aggiuntive, undici in tutto[1] – è il complesso rapporto instaurato tra lei e il figlio. In questo caso, l’isolamento delle considerazioni di Truant genera l’effetto opposto rispetto a quello citato poco fa, e invece di garantirci una visione policromatica del carattere materno ce ne consegna una monca, unidirezionale, catapultandoci dietro gli occhi di una donna afflitta da una mente instabile, che mescola amore e morbosità in dosi diseguali.
Pelafina e Johnny infatti sono stati separati durante l’infanzia del figlio, quando lei ha provato a strangolarlo per proteggerlo «dal dolore di vivere» e «dal dolore di amare». Da quel momento in poi, la madre ha vissuto nell’ospedale psichiatrico, fuori e dentro quella che a tutti gli effetti sembra un’acuta forma di schizofrenia (quasi silente nella prima parte della raccolta, poi sempre più evidente). Le tre sezioni in cui sono organizzate le Lettere (divisione non presente in Casa di foglie) corrispondono all’evoluzione del rapporto madre-figlio: l’attesa di Pelafina per la visita di Johnny; le considerazioni della madre in seguito all’incontro con il figlio (prima euforiche, poi sempre più deliranti); il recupero precario dopo una terribile crisi di nervi («i medici mi consigliano semplicemente di mettere da parte gli ultimi due anni») e il definitivo allontanamento di Johnny, che ormai non le risponde quasi più (o di cui lei non ricorda le visite). Il loro rapporto diventa dunque il terreno sopra cui si scaricano le ossessioni di Pelafina, in particolare quando, dopo il primo incontro con Johnny, inizia a nutrire sospetti per le rade risposte del figlio, accusando gli infermieri, i medici e il «Nuovo Direttore» (che, in teoria, avrebbe sostituito il «Vecchio Direttore») di cospirare contro la sua felicità. Nonostante gli sforzi per resistere, «determinata a tornare al mio io precedente, / allenandomi a sorridere allo specchio / come quando ero bambina» Pelafina cede a poco a poco al suo incubo, e ne riemerge psicologicamente distrutta. Questa altalena psicologica viene resa con le più articolate scomposizioni grafiche: tra queste, la lettera del 14 febbraio 1988 (parte del corpus aggiuntivo), dove al centro di una pagina sintatticamente esplosa Pelafina scrive: «Questo cuore ha mille difetti»; oppure, la lettera datata 8 maggio 1987 (già presente in Casa di foglie) dove Pelafina compone un lungo acrostico per comunicare al figlio i presunti stupri che subirebbe dagli infermieri, definiti «api operaie».
Lo squilibrio psichico va a innestarsi su una dipendenza emotiva – della madre nei confronti del figlio – rintracciabile tanto nel contenuto delle lettere quanto nelle dediche a chiusura delle stesse. Pelafina si firma infatti come «Eternamente tua», «Con indicibile affetto», «Con adorazione ed eterno amore», «Col cuore che ribolle d’amore», «Con amore sconfinato», «Con adorazione ed eterno amore», «Con amore e devozione inestinguibili», «Con disperato amore», «Amore, amore, amore» e simili. Queste dichiarazioni, se in pochi casi concludono lettere ricche di consigli acuti e speranze: «Procurati un dizionario e non stancarti mai di consultarlo. Non trascurare mai la mente, Johnny», oppure: «Un giorno ti verrò in soccorso con ben altro che i libri […]. Sotto una luce precoce escogiterò il racconto giusto, la narrazione perfetta», molte volte invece sugellano la pressione emotiva che Pelafina esercita su Johnny: «Ho bisogno, bisogno, bisogno di te. […] Il proposito di emanciparmi da te è crollato. […] Non ti manca? Questo mucchietto di ossa che è tua madre?», oppure: «Cosa saprà liberarti di me dal peso di me», «Quando mi uccideranno che cosa proverai?», «Tua madre deve avere tue notizie». Le dichiarazioni sono (di rado) accompagnate da lettere in cui Pelafina prende consapevolezza del potere che detiene sul figlio: «Non ho assolutamente considerato che potessi essere impegnato a vivere le tue avventure, a patire le tue tragedie».
Questo rapporto, profondo, distorto e disturbante, viene dunque amplificato dalle lettere aggiuntive contenute nella raccolta, nonché dall’isolamento di queste rispetto al corpus di Casa di foglie. Questa scelta chiude il lettore all’interno di una stanza buia e densa, la «fabbrica diroccata» della mente di Pelafina, dove l’amore espanso della donna può toccare picchi di gelido delirio ma anche di sconfinato affetto:
«Ricorda: io ti sarò radice e ti sarò ombra sebbene il sole mi bruci le foglie. Spegnerò la tua sete e ti nutrirò di frutti sebbene il tempo mi rubi i semi. E quando sarai perso e di questa terra nulla riconoscerai io ti darò speranza. E sempre udirai la mia voce e sempre avrai il mio cuore, perché io ti sarò riparo e ti conforterò. E quando non sarò che polvere, perfino nella morte, io ti ricorderò».
Lungi dall’affermare che Lettere da Whalestoe possa essere letto a prescindere da Casa di foglie, sento però di poter dire che quest’opera potrebbe essere considerata come un esperimento di “Letteratura espansa”, proprio come accadrebbe per il pacchetto di espansione di un videogioco il cui sviluppatore si chiamasse Mark Z. Danielewski. La raccolta aggiunge infatti un tassello al worldbuilding da cui proviene, sostanzia il mondo di Casa di foglie di una plancia di gioco più ampia. Rende l’istituto psichiatrico Three Attic Whalestoe, semplicemente, più vero.
[1] Le lettere del 9 marzo 1983, 24 giugno 1984, 6 novembre 1984, 9 novembre 1985, 17 marzo 1986, 6 gennaio 1987, 14 febbraio 1988, 23 febbraio 1988, 18 marzo 1988, 23 dicembre 1988, 24 dicembre 1988.
Redattore di Marvin, scrive racconti, poesie, articoli di approfondimento culturale e contributi sul tema dei future studies. Appassionato di cinema horror e B-movies, ha sviluppato un feticismo per Sharknado, per il quale è attualmente in cura.