Una gallina sparuta si allontana dal suo capannone. Bwwaauk, come si faceva chiamare dalle centocinquantamila compagne che si era lasciata alle spalle in quella che fino ad allora era stata la sua casa, aveva deciso (nessuno sa come) di uscire dal cerchio per sperimentare l’al-di-fuori. È così che questa regina Teuta della popolazione aviaria della Fattoria Felice dei Green decide di fare razzia delle cose del mondo e riconquistare la sua singolarità. Cleveland, diligente ispettrice del controllo qualità degli allevamenti intensivi di galline ovipare, si imbatte nella coraggiosa pennuta e al posto di consegnarla alle autorità competenti (che l’avrebbero fatta secca per evitare ogni contaminazione esterna) decide di aiutarla nella sua titanica impresa. Questo è l’inizio della rivoluzione in Capannone n. 8 di Deb Olin Unferth, importato da Sur in Italia per la prima volta, nella traduzione di Silvia Manzio.
Il suo nome, Bwwaauk, si riallaccia al peculiare cinguettio con cui la gallina è nota a sé stessa e alle altre; pioniera della riconquista dello status perduto darà moto alla liberazione massiva delle sue amiche di specie, accompagnata da un manipolo di esseri-umani nostalgici di un passato ecologista, ma che ora si ritrovano rinchiusi in un circolo di rimorsi e fallimenti. Accomunati da un’esistenza al capolinea, svuotata di ogni slancio vitale verso il futuro, questi esseri umani si riscopriranno vecchi guerriglieri e decideranno di riscattarsi per un’ultima volta dalle loro vite banali.
Unferth profila ognuno di loro con un distacco funzionale allo sviluppo di un discorso coerente e composito: c’è un fondo animalista non trascurabile ma nell’insieme si percepisce qualcosa di molto più variegato e per certi versi sfumato; ogni personaggio umano non raggiunge una specifica complessità costruttiva ma è quello che si legge: il frutto di una successione di eventi catalogati con descrizioni e digressioni frammentate ma efficaci. Le loro vite accadono in una sprezzante semplicità, renderle troppo preponderanti nella narrazione significherebbe, infatti, commettere l’ennesimo torto alle galline che risulterebbero (anche nella loro risignificazione) dipendenti delle scelte altrui. Non si tratta di un riduttivo paragone con la vita animale vessata dai soprusi degli esseri-umani, ma di un vero e proprio riconoscimento in un altro tipo di esistenza, una condivisione di disgrazie subite nella più inerte comunanza.
Per Heidegger l’animale è «povero di mondo», e conia appositamente la nozione di “cerchio disinibente” inteso come luogo in cui si attuano tutte le sue capacità[1]. Con un’attenta disamina dell’animalità, Heidegger definisce in maniera speculare quella dell’humanitas, attuando un procedimento per sottrazione che finisce per definire l’animale come “stordito” nel suo avere a che fare con le cose del mondo a differenza dell’uomo che invece è “formatore di mondo”. Cosa accadrebbe a questa definizione se distinguessimo gli animali intesi in senso proprio (e quindi quelli che immaginiamo abitare realmente il mondo) da quelli che ormai sono solo un docile strumento di produzione? Quale esempio migliore se non il Gallus gallus domesticus, sopravvissuto a un asteroide, a un processo di selezione genetica secolare e finito per diventare un tipo di vivente che non può essere concepito senza il suo “cerchio ambientale” che in questo caso è ancora più angusto essendo la sua stessa gabbia. Quello di Heidegger è il tentativo di descrivere minuziosamente come l’animale “conosce” il mondo o per meglio dire il suo “mondeggiare”, il suo rapportarsi al resto della sua realtà attraverso il suo cerchio. Per il Gallus gallus domesticus il concetto è ancora più intrinseco visto che il cerchio è molto più ristretto (la gabbia) e imposto da un’altra specie; e se già l’ape heideggeriana era povera di mondo, nel caso della gallina questa mancanza è tanto più significativa quanto lo è la sua possibilità di essere-libera.
La tesi di fondo di Unferth è proprio questa possibilità di libertà dell’animale (di questo animale) su cui l’autrice induce a riflettere grazie a una finissima capacità di condurre un discorso problematico servendosi di espedienti utili, come le diverse digressioni sulla natura della gallina o la storia del suo allevamento (e le prospettive di quello intensivo). La gallina, per com’è concepita ora, è il risultato di un decadimento progressivo che da nobile simbolo di coraggio la riduce a metafora di stupidità cieca, da bellezza piumata nelle esposizioni aviarie del XIX secolo a instancabile ovipara da nascondere alla vista.
Per aiutarsi in questo compito, l’autrice si serve di personaggi umani totalmente in balìa delle loro storie, delle loro scelte. Donne e uomini addomesticati dal loro vissuto, ridotti a “bestie da gregge” che decidono di rivendicare un ultimo atto di libertà e che trovano nelle galline quella che Donna Haraway in Chthulucene definisce «specie compagna»: una specie che permette di procedere insieme e di instaurare legami che possano far rimanere a contatto con “il problema” della possibilità di esistere, resistere, con-divenire e render-capaci di fare esperienza del mondo. Rivalsa umana e liberazione animale si uniscono all’interno di Capannone n. 8 in un unico e mastodontico gesto coraggioso: restituire dignità a un’intera specie. La scrittura manifesta la diversità di queste esperienze attraverso un procedere inorganico e variegato, con un andamento a scatti e una tonalità emotiva cangiante a seconda del contesto o se a parlare è la componente animale o quella umana. Questa scelta stilistica è il motivo per cui in prima battuta non è facile simpatizzare con Capannone n. 8, questo incedere frastagliato può scoraggiare; bisogna sforzarsi un po’ prima di entrare in sintonia con il testo. Osservandolo nella sua totalità, si comprende che la composizione delle storie dei personaggi (che sul momento sembrano essere semplicemente giustapposte) corrisponde a una specifica rievocazione: si ha l’impressione di entrare in un pollaio in cui ci si sente storditi dal coro lamentoso di migliaia di galline.
La natura degli animali d’allevamento intensivo è sopita da millenni, non ricordano più la loro essenza originaria e non hanno modo di rimpiangerla. Anche nella loro liberazione l’essere umano si arroga la possibilità di stabilire come restituirli alla loro animalità. L’ultima lezione che Unferth impartisce è che non basta “rispondere” a un’ipotetica esigenza dell’oppresso per affrancarlo dalla sua condizione; ma è necessario anche ri-significarlo all’interno di un codice di comprensione più ampio, che non sia solo l’imposizione della prospettiva umana. In Una relazione per un’Accademia (1917), Kafka riporta il racconto (in prima persona) di Pietro il Rosso, una scimmia catturata in Costa d’avorio a cui era stato insegnato a parlare. Il primate descrive in maniera vividissima la sua cattura, e il luogo da cui proviene diventa per la prima volta il suo “ambiente”. Nel momento stesso in cui l’ambiente viene riconquistato come tale (con l’aiuto del linguaggio codificato dall’umano) è in realtà già perso (come ogni approccio animale a esso): prima Pietro il Rosso non sapeva nemmeno di trovarsi in Costa d’avorio e realizza che la gabbia stretta in cui si ritrova adesso è l’unico modo possibile per lui di vivere tra gli umani.
Jacques Derrida nel suo incessante e nutrito discorso sull’animale (per cui ha scritto moltissimo e tenuto altrettante conferenze e corsi) afferma che esistono «due modi di sapere sull’animale»[2] che a loro volta esplicitano una differenza sostanziale di consapevolezza. Ci sono quelli che lo considerano «una cosa vista e non vedente» e quei pochi «poeti o profeti» in grado di «assumere su di sé l’appello che l’animale rivolge loro».
[1] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, Il Nuovo Melangolo, Genova 2005.
[2] J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2020.
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