sullivan marvin

Di deserti, decessi e divinità

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Il paesaggio è arido, desolato. Irsute piante di cactus scorrono sullo schermo a velocità sostenuta. Sempre la stessa sequenza, reiterata in ogni fotogramma, fa da sfondo a quella corsa per la sopravvivenza: l’inquadratura si stringe su Beep Beep, il più celebre Geococcyx californianus della storia, il volatile blu che non vola, ma fugge. Poco più indietro, lo sfortunato coyote Willy lo insegue senza successo, posate alla mano e un tovagliolo annodato al collo, pronto, nel suo inveterato, testardo ottimismo, a farne la sua cena. Ci prova Willy il Coyote, e muore centinaia di volte nel tentativo. 

Nella reiterazione parossistica dell’inevitabile si esorcizza lo sberleffo della morte.

Lo stesso scenario desertico e ripetitivo – il famigliare incedere dell’asfalto fra le rocce acuminate e i serpenti a sonagli – accompagna le vicende surreali della cittadina del Sud degli Stati Uniti dove lo scrittore Gianfranco Mammi ha ambientato il suo ultimo romanzo, Nostra Signora dei Sullivan, pubblicato da Nutrimenti

Sullivan, l’uomo qualunque per eccellenza, che della sua vita non ha fatto molto se non, appunto, morire, viene trovato sulla circonvallazione «schiacciato come un porcospino». E poi «lo stesso identico Sullivan» muore a causa di una scarica elettrica. E un colpo di pistola alla schiena. In tutte le contee degli Stati Uniti, fra i ghiacci sperduti dell’Alaska e le isole Hawaii, cadaveri di Sullivan cominciano a susseguirsi senza posa, provocando sgomento nell’opinione pubblica, scompiglio nella pigra cittadina, e generando un’esplosione mediatica, il rifiorire dell’economia locale, e la nascita del sullivanesimo, con miracoli annessi e fedeli connessi.

Non è sorprendente che Mammi abbia collocato la vicenda nel deserto che lambisce il Vecchio Sud: gli Stati Uniti sono da sempre luogo di proliferazione dei culti più diversi (basti pensare alla Famiglia Manson o al Tempio del Popolo, tristemente protagonisti della cronaca nera degli anni ’60 e ’70). La vocazione liberista e individualista che impregna il mito della nascita della nazione – i primi pellegrini, la guerra d’indipendenza e la retorica falsamente meritocratica del self-made man – offrono un terreno fertile per l’ascesa messianica di personaggi ambigui e carismatici. 

È nel deserto, in fondo, che sono nate le tre principali religioni monoteiste: è Caanan la terra che Dio ha donato ad Abramo nella Genesi, l’arcangelo Gabriele è apparso al profeta Maometto sul Monte Hira nel Corano, e Gesù di Nazareth ha vissuto e predicato in luoghi che per certi versi ricordano le lande desertiche e afose del Sud. 

La torrida estate incombe sulla «nostra aridissima cittadina» e gli eventi si susseguono a un ritmo prorompente, televisivo; i personaggi dai nomi inventati e onomatopeici (lo sceriffo Smid, il vicesceriffo Brul, i necrofori Mapis e Burna, l’assistente Peil), assistono impotenti agli accadimenti che faranno del «nostro povero Sullivan» un Messia, e della sua reiterata morte un culto.

Sebbene al centro della vicenda, Sullivan non appare mai se non come elemento propulsore dell’intera azione: non conosciamo Sullivan prima, da vivo, non ci è dato sapere nulla di lui se non le circostanze delle sue dipartite. L’uomo scompare nella filigrana del mistico e si perde nella narrazione del mito: «[…] nessuno ormai si chiedeva più perché questo benedetto Sullivan continuasse a morire, e come facesse, e se sentisse ancora dolore ogni volta che moriva o se ormai non sentisse più niente eccetera»; appare solo come un’altra inspiegabile salma da seppellire, un fastidioso contrattempo, e il miracolo all’origine del sullivanesimo

Nell’impersonare il mito fondativo di una nuova religione, Sullivan – il cui nome proprio non viene mai rivelato – assume sin dall’inizio un ruolo simbolico: le sue morti non sono oggetto di indagini accurate, e le circostanze non verranno mai interamente chiarite. L’inspiegabile che si fa credo, l’assuefazione alla morte e la forza corruttiva del potere sono i centri nevralgici della narrazione di Mammi; le investigazioni sono meno importanti dei piccoli drammi umani che l’autore inanella in paragrafi brevi e dinamici, e dialoghi spassosi. 

I personaggi, accompagnati da un’aggettivazione ironica e meticolosa, aiutano il lettore a muoversi all’interno di un universo narrativo complesso, e allo stesso tempo parodiano i protagonisti caricaturali e monodimensionali tipici del genere: padre Gomes, il sacerdote della chiesa cattolica del luogo, è un «buon bevitore di vino rosso californiano, mezzo navajo e mezzo portoghese»; la moglie dell’impresario Lir, d’altro canto, è una «grassa normanna dai capelli rossi» che ama i würstel e gli agi. 

Il punto di vista è quello di un uomo, o una donna, altrettanto comuni: il narratore non è onnisciente o distaccato, è un concittadino di Sullivan, qualcuno che percorre le strade larghe a reticolato della cittadina, ne prova la noia e il caldo, l’incompetenza e la monotonia, e – seppur mantenendo uno sguardo divertito e ironico sulle vicende – non può fare a meno di ricadere nello stereotipo. L’ossessione degli americani per la classe, la razza e la provenienza, riecheggia nella prospettiva provinciale di una cittadina appisolata nella ripetizione e nella marginalità, dove persone comuni come Sullivan vivono e muoiono senza infamia e senza lode, e le forze dell’ordine – ma anche l’FBI, i vescovi, i sindaci e gli impresari – fanno della pigrizia e del disinteresse il loro distintivo. 

Le morti inspiegabili di Sullivan mettono in luce contraddizioni e ipocrisie di una nazione che si fregia di essere fondata su infinite opportunità, multiculturalità e meritocrazia. Mammi smaschera la disonestà e l’arrivismo di una terra la cui gloriosa mitologia autoreferenziale si scontra con l’inevitabilità del quotidiano, e allo stesso tempo ci invita a riflettere sulle nostre comuni fragilità, le mancanze e le ordinarie tristezze che fanno dei personaggi di Mammi individui irripetibili e umani oltre che archetipi narrativi. 

Nel suo omaggio ironico e parodistico al crime statunitense, Mammi scompagina i topoi del genere con divertita inventiva, sposta il fuoco della narrazione sui personaggi comprimari e su una comunità altrimenti invisibile, e ci invita in un Gioco dell’oca che si fa satira e tributo.

Critica puntuale alla società contemporanea e alla propensione collettiva alla mitizzazione, con il suo umorismo asciutto e graffiante Nostra Signora dei Sullivan ci rammenta che l’umanità e i suoi credo sono in costante divenire, e i dogmi del nostro presente – religione, cultura, tradizione – non sono altro che le cronache edulcorate e mutevoli di un narratore inattendibile.