Non tutto il male

Gli onironauti di Tula

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Il romanzo d’esordio di Andrea Cassini, Non tutto il male, esce per effequ nella collana di narrativa Rondini. È sufficiente il doppio esergo in apertura a testimoniare i molteplici strati e le contaminazioni che compongono il libro: la prima pagina coniuga infatti, senza soluzione di continuità, i versi di Leopardi e le riflessioni di Bojack Horseman, in una corrispondenza tra pessimisti insospettabile quanto coerente.

La storia si innesta in un luogo immaginifico vasto e strutturato: Tula, città che sorge su un albero roso da un incendio perenne, i cui abitanti sono scortati – o tormentati – da fantasmi diversissimi per forma e comportamento. L’unico a non essere infestato è il protagonista, Zero. La sua professione è assistere nel suicidio chi lo desidera, scrivendo, se richiesti, biglietti d’addio confezionati ad arte. L’azione prende il via quando Zero viene avvicinato da un uomo che si presenta come il Cartografo e gli chiede di accompagnarlo nella realizzazione del suicidio perfetto. Portare alla massima espressione il proprio lavoro non è l’unica attrattiva che l’offerta del Cartografo presenta: Zero, infatti, è interessato a scoprire la sorte dei fantasmi che si separano dai loro proprietari (cosa che avviene di solito al momento della morte) per ritrovare lo spettro della donna che ama, sprofondata nel sonno da quando l’ha perduto. Sullo sfondo delle gesta dei due uomini incombe la presenza del Questore, massima autorità di Tula, che con i corpi degli abitanti privi di fantasma, definiti impuri, intende alimentare le fiamme dell’incendio e con esse uno stato d’eccezione permanente.

Da queste premesse ha inizio la storia di Non tutto il male: un viaggio onirico in un luogo impossibile, una sorta di quête forsennata attraverso l’intrico ramificato della città-albero, in un comporsi e disporsi di ambienti diversi e vividi. Le descrizioni di Cassini sono ricche e lussureggianti o fosche e meccaniche, a seconda dei settori di Tula che vengono di volta in volta esplorati. Il paesaggio ne emerge vivificato: la città d’altronde ha un nome di donna ed è a tutti gli effetti personaggio, se non addirittura protagonista. Ogni pagina ha un forte impatto visivo, che coagula nello spazio un worldbuilding complesso e chiaro. Osservare Tula è posare gli occhi su un mondo post-collasso, in cui anche gli elementi hanno mutato il loro esistere.

«Non era vento, quello ormai non soffiava più sulla città che è sull’albero […] eppure al tempo stesso […] avremmo potuto ancora chiamarlo vento, perché non ne conoscevamo più altri, di venti, e avremmo potuto disegnare una nuova rosa per distinguerne le direzioni e dare nuovi nomi a quell’aliseo infernale».

Bastano brevi frasi a sottintendere un mondo cristallizzato in un presente eterno, radicalmente diverso dal nostro, ma che del nostro conserva una nostalgia malinconica:

«Mi sarebbe piaciuto che ci fossero ancora i giorni e le notti, perché quella sarebbe stata una di quelle faccende a cui pensare un altro giorno».

I riferimenti più importanti dell’autore spaziano dal China Miéville di Embassytown o La città e la città, passano dall’Area X di Jeff VanderMeer, per approdare ad Antoine Volodine. «La stranezza è la forma che prende il bello quando il bello è disperato», scrive quest’ultimo in Angeli minori e, seppur queste parole calzino appieno alle vicende di Non tutto il male, è più in Terminus radioso che le simmetrie, stilistiche e di pensiero, si svelano in misura maggiore. Quella di Cassini non è tuttavia una ripresa pedissequa: al contrario, è il riuscito assemblaggio di un mondo che da quello volodiniano trae stimoli e slancio.

Anche le descrizioni degli spettri sono ricche di suggestione: hanno spesso forma animale – in un mondo che di animali veri non ha più traccia – arricchiti da elementi artificiali e chimerici, in ogni caso profondamente ibridi. Cassini sembra rispondere e dialogare con l’appello lanciato da Matteo Meschiari in Antropocene fantastico: «Non basta che ci siano spettri, occorre frequentarli, bisogna evocarli e parlare di loro e con loro il più possibile. Spettri-luogo, spettri-piante, spettri-animali, spettri-popoli, che ci fissano chiedendo pace». I fantasmi di Non tutto il male sono fisici, presenti e pregnanti, racchiudono in sé i traumi e i desideri dei loro proprietari ma riflettono anche una Terra che non è più, proprio con il loro frequente e distorto aspetto d’animale: ne è un esempio il cervo dai palchi tanto immensi da non riuscire a sollevare la testa, immagine tra le più struggenti e vivide del romanzo. Sono entità spesso sofferenti, riflesso del dolore di chi infestano, entità che non per forza devono essere respinte e incenerite tra le fiamme, come molti degli abitanti spererebbero. In una città su cui incombono insieme il crepitio del fuoco e gli abissi della depressione la sirena del suicidio risuona come un appello allettante e i servizi di Zero si fanno sempre più richiesti. Eppure rifiutare la sofferenza non è l’unica via percorribile, così come non lo è cavarne a forza una ragione.

 «Avrei voluto dirgli che a volte chiamiamo malattie quelle che sono incrinature nell’anima, assi della ragione che si spezzano, fratture nella parete, altoparlanti che crollano e smettono di chiacchierare, e senza il brusio che ci distrae e lo schermo che ci protegge capiamo improvvisamente che vivevamo già in una terra inabitabile, o che forse siamo animali incapaci di abitare in qualsiasi terra, e allora diventa una questione di odio o di amore, per noi stessi e per il mondo intero, e che non tutto il male ha una ragione, non tutto il male è alieno, certe volte esiste e basta, certe volte i fantasmi hanno fame e si nutrono insieme a noi».

La vera possibilità di sopravvivere in un luogo impossibile non consiste nel respingerne l’assurdità ma nel riuscire a creare dei legami, a generare corrispondenze e affinità con l’altro, abitando la disperazione, in ogni caso preferibile a una monotona abulia.

I protagonisti sono intrappolati in una stasi violenta dalla quale cercano una fuga, sperano in uno strappo che laceri il susseguirsi identico delle giornate e l’eterno ritorno di un uguale in cui il tempo è imploso e lo spazio si è annullato. Una dimensione insopportabile – inabitabile, come recita il sottotitolo – di sospensione perpetua. Che significato si può dare all’agire (ma anche alla negazione stessa dell’agire) in un mondo simile? Il Cartografo, Zero e la ragazza in nero che presto si unisce al loro vagare sono onironauti che si muovono cercando un senso alle proprie azioni, prefiggendosi obiettivi dai contorni ora malfermi, ora monolitici. Su tutto resta poi la dimensione di una colpa oscura che si estende tra sogno e veglia, colpa individuale nei confronti di un uomo macellato in sette pezzi e colpa collettiva verso un albero che non riesce a smettere di bruciare. Il rimorso verso il singolo e verso il mondo intero si mescolano, mentre Cassini scoperchia contemporaneamente il cranio di un omicida e di un suicida.

«Se nella realtà si è commesso un atto atroce, mi domandavo, una volta addormentatisi, che si debba forse continuare a sognare in eterno, per paura di affrontare l’onta del sangue al risveglio? O viceversa, se si è ucciso un uomo in sogno, che quel sogno si sia fatto tanto vivo e pesante da sostituirsi al mondo della veglia? Sono forse un uomo che sogna di essere un assassino, mi chiedevo, o forse un assassino che sogna di essere un uomo?»

Anche la lingua usata è lingua del sogno, labirintica nelle formule che si ripetono e ripetendosi fanno della prosa un canto e ne stabiliscono le leggi. Quando sopraggiungono, le certezze del protagonista si palesano incrollabili, subitanee e certe come lo sono soltanto le consapevolezze improvvise dei meccanismi nei sogni (“se non mi volto il mostro non mi prenderà”, “se non guardo giù continuerò a volare”).

«Si erano chiesti se, per uccidere un uomo che non può morire, si debba sognare che non sia mai nato, e sognare così forte e con tanta fede da scomporre il sogno e ricomporlo in realtà».

Il racconto impiega spesso un uso fiabesco e ricorsivo dell’imperfetto, che sancisce ancor di più il persistere di una ciclità, reiterazione continua dei propri atti e dei propri incubi. Interessante è inoltre l’interscambio straniante, tra un capitolo e l’altro, ora della prima, ora della terza persona: anche la voce sembra così fluttuare fantasmatica sui protagonisti, trapassandoli e venendone di nuovo fuori, diventando Zero e poi un occhio a lui esterno.

Non tutto il male è un libro di difficile definizione: potrebbe ascriversi al macro maelstrom del weird e della letteratura antropocenica, in piena coerenza con una certa temperie letteraria attuale, come anche al romanzo allegorico dalla forte connotazione ambientalista, o rivelarsi un peculiarissimo fantasy. Tuttavia ogni classificazione – come tutte le classificazioni – è più limitante che funzionale: Non tutto il male, più che appartenere a un genere, è una miscellanea trans mediale di suggestioni che derivano dalla letteratura come dal cinema, dalla cultura pop come dalla dimensione videoludica, senza che una fonte oscuri o cannibalizzi l’altra.

Tra gli elementi di un’ecologia allo stremo e l’esplorazione degli abissi interiori dei personaggi, in cui i demiurghi finiscono ostaggio dei loro stessi disegni, Cassini tratteggia soprattutto un dramma identitario, la crisi di un protagonista che cerca di definire sé stesso e i propri scopi, e ancora sé stesso attraverso i propri scopi e viceversa. Nonostante la ricerca di Zero si sposti presto anche su binari di impostazione classica (l’inseguimento dei sette frammenti di un uomo, ad esempio, tra le cifre più esemplari dell’immaginario fantasy) questa scansione non comporta delimitazione alcuna e, in virtù delle sue radici oniriche, la storia-albero di Tula potrebbe in potenza espandersi all’infinito. La sua (presunta) chiusura del cerchio è, a ben vedere, più una spirale e l’unico modo che ha per finire è all’improvviso, come un brusco risveglio.

Dopotutto, come non si stanca di ribadire il Cartografo mentre ridisegna il sistema linfatico impazzito della metropolitana di Tula: «La stazione giusta è quando decidiamo di fermarci».