La morte arriva in ascensore

Le luci della ribalta su una comunità “tranquilla”

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«Le luci della ribalta trasformano in mostruose anomalie quei semplici difetti che il volgo assolve con indulgenza tra i suoi».

A parlare è il commissario Ericourt, incaricato di seguire le indagini per la morte di Frida Eidinger. Queste semplici battute racchiudono uno dei motivi principali per cui vale la pena leggere La morte arriva in ascensore. Esse, infatti, suggeriscono una modalità di lettura del testo che oltrepassa e risemantizza il giallo, un genere considerato minore.

Tradotto in italiano da Francesca Bianchi, con prefazione di Ricardo Piglia e postfazione di Francesca Lazzarato, il libro inaugura la collana di narrativa straniera Água viva di Rina Edizioni. È stato pubblicato per la prima volta nel 1954 con il titolo La muerte baja en el ascensor, dalla casa editrice Emecé, nella collana El Séptimo Círculo, curata da due non ancora celebri Jorges Luis Borges e Adolfo Bioy Casares.

L’autrice, Maria Angelica Bosco (Buenos Aires, 1909-2006) è una mosca bianca nel panorama del poliziesco argentino, dominato da figure maschili. Di buona famiglia, pubblica due racconti in giovanissima età. Successivamente si sposa e ha tre figli da un marito agiato. Intorno ai quarant’anni, la separazione da quest’ultimo la esclude dai suoi privilegi, portandola a riprendere la scrittura anche come mezzo per guadagnarsi da vivere in autonomia.

Il romanzo si apre con la scoperta di un cadavere all’interno dell’ascensore di un palazzo elegante, situato in calle Santa Fe, Buenos Aires. I sospettati sono perlopiù abitanti del palazzo. Non sono chiari i loro rapporti con la vittima, che non è un’inquilina e di cui non si spiega la presenza nel condominio.

La morte arriva in ascensore è a un primo sguardo quello che si definirebbe un giallo d’enigma, genere reso celebre da autori come Arthur Conan Doyle, Agatha Christie, Edgar Allan Poe. C’è un delitto, dei sospettati, un luogo chiuso intorno al quale si svolgono gran parte delle azioni (il palazzo in cui viene ritrovato il cadavere) e un detective (in questo caso una squadra di polizia). Ci sono ipotesi, indizi disseminati nel testo, false piste. La ristrettezza dello spazio d’osservazione, che coincide con una comunità piccola e facilmente isolabile, crea un ambiente quasi da laboratorio, in cui sembra che la verità possa essere afferrata attraverso le sole facoltà della ragione deduttiva. Sembra, ma non è così.

In La morte arriva in ascensore, infatti, logica ed emotività si mescolano all’interno di una narrazione che non è riconducibile al gioco intellettuale puro e semplice. I personaggi del romanzo sono figure complesse, che agiscono per motivi difficilmente catalogabili e sono portatori di una storia personale che non è solo funzionale all’intreccio, ma è interessante da un punto di vista psicologico e rivela un intricato sistema di rapporti che gravitano intorno alle istituzioni del matrimonio e della famiglia borghese.

Tra di essi ricordo il dandy Pancho Soler, che conduce la sua esistenza passando da una donna all’altra e vagabondando senza meta tra le luci della notte porteña. Di lui Bosco sembra fornire una diagnosi psicanalitica nel momento in cui afferma che «il suo egoismo non era, in fin dei conti, frutto dell’atteggiamento risentito dell’adulto, al contrario, conservava l’integrità innocente e la fermezza dell’egoismo del bambino». A Soler si contrappone il dottor Luchter, medico di origini tedesche meticoloso e responsabile: «La volontà di Luchter, volta all’agire costruttivo, insorgeva contro le persone come Soler per le quali la vita non sembra essere altro che un molesto gioco proibito».

La ricerca di complessità di Bosco si manifesta nella scelta autoriale di far seguire le indagini non a un unico detective, ma a un’intera squadra di polizia, composta di persone diverse, con le proprie peculiarità e il proprio modo di intendere la professione.

Spiccano il commissario Ericourt e il suo giovane assistente, Ferruccio Blasi. Il primo è un uomo singolare, dall’intelligenza vivacissima e l’attitudine pacata, ma che vive in un mondo tutto suo, indifferente agli altri eccetto per quegli elementi che gli permettono di risolvere un caso. «Per certi versi giustizia e verità erano per lui una sorta di campionato sportivo il cui interesse si rinnova a ogni nuova giornata». Blasi è estremamente sveglio, ma non possiede il distacco del capo. È impulsivo e in lui il piano professionale entra in conflitto con quello dei sentimenti. Allo stesso tempo, però, mostra una capacità empatica che gli dà accesso ad angoli di osservazione della realtà preclusi a Ericourt.

Eviterò di tracciare un profilo completo dei molti personaggi che popolano questo libro per non togliere al lettore il piacere di inoltrarsi nei recessi delle loro psicologie. Mi preme però sottolineare che il romanzo riserva ampio spazio alle figure femminili, forse le più complesse della storia. Di loro l’autrice fa intravedere la dialettica che incarnano tra assoggettamento e spinte di rivolta in relazione ai canoni comportamentali prescritti alle donne nell’Argentina degli anni ’50.

Ciò si può dire a partire dalla stessa Frida, la misteriosa vittima, la cui personalità è ricostruita a posteriori mediante le testimonianze degli indiziati e le congetture dei detective che, nel cercare notizie sulla sua morte, gettano luce sulla sua vita.

Tra le donne del romanzo spicca Beatriz Inãrra, giovane, al tempo stesso anticonformista e discreta, dotata di un sarcasmo pungente, capace di smascherare le ipocrisie di una comunità dominata dall’imperativo del decoro. La vediamo apparire per la prima volta nelle parole di Soler: «Betty è una ragazza indipendente, la famiglia può fare ben poco affidamento su di lei». Stigmatizzata in questo giudizio morale, che viene da un personaggio tutt’altro che integro, Betty si carattterizza immediatamente a partire dall’indipendenza. Questa stride con l’accondiscendenza prescritta al genere femminile, cristallizzata in altri personaggi: la sua matrigna, Gabriela Iñarra, ha votato la propria esistenza ad assistere il marito malato; un’altra inquilina del palazzo, Rita Czerbó dà l’impressione di essere completamente assoggettata alla volontà del fratello, il losco e autoritario Boris.

Nel tentativo di risolvere il caso, gli investigatori – e con loro i lettori – entrano nella mente degli indiziati e nella complessa rete di relazioni personali e sociali in cui sono inseriti. Si indagano i rapporti familiari e le problematiche di una classe altoborghese raffinata e cosmopolita, dall’apparenza rispettabile, ma che a uno sguardo più attento rivela contraddizioni e segreti.

Il libro entra nelle zone d’ombra dell’istituzione della famiglia, fondata sul matrimonio e costruita attorno a valori come la discrezione, la rispettabilità, la fedeltà. Parallelamente, attraverso lo scavo nel passato dei personaggi, affiorano dettagli inquietanti sulla loro vita individuale. Il romanzo è scritto in uno stile piano e scorrevole. Alterna in modo molto equilibrato dialoghi e parti descrittive. Queste ultime sono spesso puntellate di similitudini che impreziosiscono la narrazione, espandendo ancora una volta i confini del genere poliziesco. Ne emerge una Buenos Aires che funziona come un’estensione del condominio di calle Santa Fe. È quotidiana e al tempo stesso inaccessibile, in bilico tra eucalipti e signore che sferruzzano a maglia sulle panchine e figure che avanzano nella notte, «come sonnambuli», «su uno sfondo di isolamento e solitudine».

Spicca l’uso abbondante del monologo interiore, che spezza la rapidità narrativa del giallo e dilata lo spazio-tempo del romanzo, conferendo spessore alle psicologie dei personaggi e a elementi secondari dell’intreccio, che, nell’insieme, costruiscono l’affresco di una comunità ristretta.

Per concludere, La morte arriva in ascensore rappresenta un ambiente che in superficie si mostra senza incrinature. Esso è colpito da un evento traumatico che apparentemente lo sconvolge, ma in realtà lo rivela, portando alla luce ciò che era nascosto. Le indagini funzionano come una lente di ingrandimento che amplifica conflitti già esistenti, desideri confinati nel chiuso delle stanze.

«L’immancabile ritornello. L’ispettore se l’aspettava… palazzi tranquilli e gente perbene… ogni volta… e allora com’è possibile che succeda sempre qualcosa?». Il punto del romanzo allora non è più semplicemente chi ha ucciso Frida Eidinger, ma chi sono davvero gli abitanti di calle Santa Fe, quali desideri li muovono, quali fantasmi del passato cercano disperatamente di scacciare. Per capire tutto questo non bastano le armi della sola ragione deduttiva che, come afferma lo stesso Ericourt, «ha il vizio di fondo di essere soggettiva», ma occorrono tutte le ferramenta teoriche della scrittrice attenta, empatica e ironica al tempo stesso, fine conoscitrice dell’animo umano.