Secondo Giorgio Manganelli, chi ha in mente di voler fare lo scrittore non si dovrebbe mai iscrivere a Lettere. Dovrebbe scegliere altre facoltà: Geologia, ad esempio, almeno verranno fuori belle metafore.
Paolo Zardi è un ingegnere e scrive molto, quasi un romanzo all’anno: scrivere – dice – è il suo unico hobby. I grandi lettori e i tanti scrittori evitano accuratamente di parlare di letteratura come hobby: si tratterà invece di una vocazione, un’urgenza, uno sfogo, una via crucis, uno scontro interminabile con la propria ombra, rischiando, nei casi peggiori, di prenderla anche troppo sul serio.
Il protagonista dell’ultimo romanzo di Zardi è un dittatore che ha vissuto un’inarrestabile ascesa e un improvviso declino nell’Italia contemporanea, e ora è in esilio su un’isola sconosciuta. La morale e l’allegoria sono sempre dietro l’angolo, visto il soggetto, e per fortuna saltano fuori solo di rado: Memorie di un dittatore è soprattutto un romanzo divertente, che inizia così: «Lo ammetto, non avevo mai preso in considerazione l’idea dell’esilio – del mio esilio».
In effetti il dittatore, nella sua pur breve carriera, ha fatto esiliare, sparire e uccidere i dissidenti rubando qui e là da Napoleone, Stalin e Hitler («a cui rivolgo spesso un pensiero affettuoso»), senza mai pensare all’ipotesi della sua fine. Ora, nell’isola e nell’immensa villa decadente che la domina, ci sono solo lui e Fernando, un servitore incolto che «forse, cercando tra i libri della biblioteca, ha trovato un abecedario grazie al quale sta imparando il segreto dell’alfabeto. Nel giro di qualche secolo potrei trovarmi nella spiacevole situazione di essere servito da un intellettuale».
Dietro alla parabola politica del dittatore non c’è nulla, né progetti né ideali: «Non avevo ancora cinque anni e avevo già capito le due o tre regole fondamentali che stanno dietro al potere», ovvero non credere in Dio, possedere pazienza e capacità di dissimulare. Semplicemente, ha sempre cercato il potere perché ha scoperto presto che esercitarlo era l’unica cosa che sapeva fare. Comandare è il delitto perfetto, non c’è movente e l’arma coincide con il misfatto: «Il potere andava esercitato ricordandone l’esistenza».
Il romanzo è in prima persona: il dittatore sta raccontando la sua vita, ma non è chiaro se cerchi complicità con chi legge, forse neanche si pone la questione, dato che il popolo per lui è sempre stato solo «gente». Il lettore ha la rara occasione di vedere un dittatore sconfitto ma vivo, e di cercare una rivincita, forse, guardandolo annoiarsi tra le mille stanze della villa. Ma qual è la rivincita su un ex dittatore? Vogliamo che non sia felice? Che muoia? Che sia dimenticato? Che si penta? Che ci riveli il segreto di una vita a suo modo eccezionale?
Quello che porta il lettore fino in fondo a Memorie di un dittatore non è tanto l’interpretazione che se ne può ricavare della politica attuale in Italia – i passaggi un po’ didascalici in cui vengono delineate le prevedibili parabole del potere o la debole opposizione di un progressismo a cui basta compiacersi di sé – ma la volontà di capire cosa può dire, a noi, un dittatore che non ha desiderato altro che il potere e che non si è pentito. Vedere che fine fa un uomo solo che ha avuto tutto e che passerà alla storia, un uomo che non ha avuto cura per ciò che a noi sta o dovrebbe stare a cuore – le relazioni con gli altri, i sentimenti degli altri, l’amore per gli altri.
Un dittatore che si sta parecchio simpatico, mantiene sempre vivace il tono e conosce rari momenti di sconforto. Riesce quasi a farsi compagnia da solo e continua a trovare occasioni di esercitare – con gioia – il comando. Le pagine più riuscite sono proprio quelle in cui le atrocità del potere intervallano il soliloquio del dittatore senza che ci sia un vistoso cambio di tono: il lettore ha accettato di spiare la sua vita senza essere visto, ma si trova, da un certo punto in avanti, a voler smettere di osservare e ascoltare. Ciò che non gli è consentito di fare è intervenire.
«Gli indico i rettili, il pietrone sul quale ho posato il piede e la mia pancia, come in una sorta di sillogismo. Fa no con la testa, ma io gli appoggio una mano sulla spalla e gli dico: non sarai solo. Prendo dunque una pietra, mi avvicino alla testuggine più grande e inizio il mio lavoro di scalpello. […] Sento che il cammino che ho compiuto verso la conquista del potere condivide alcuni tratti non secondari con la mattanza di quei placidi animali: una cieca determinazione, il sangue freddo, il lucido calcolo dei benefici attesi, la correlazione strettissima tra pensiero e azione, e una fondamentale, irrinunciabile assenza di pericolosi moralismi. Ma Fernando non capisce: vomita (in acqua, per paura di sporcare la spiaggia)».
Nel romanzo di Zardi, la violenza e il grottesco fanno parte fin dall’inizio della voce del protagonista, ma il lettore comincia a sentirne la carica offensiva e pericolosa solo quando gli eventi precipitano. La condizione del lettore, allora, assomiglierà a quella dello spettatore di un monologo tragicomico (o a quella dell’elettore poco informato): ha sorriso finora di questo perdente, ha accettato che sproloquiasse, gli ha regalato la sua complicità quando si trattava di cose di minor importanza, e quando il personaggio arriva alle sue estreme e naturali conseguenze, solo allora – troppo tardi – se ne dissocia.
Memorie di un dittatore fa parte di una letteratura che non si prende eccessivamente sul serio (il cameo letterario più gustoso è quello di Tu, sanguinosa infanzia di Michele Mari, trovato nella biblioteca della villa: «Dopo qualche pagina, superata la diffidenza per lo stile francamente incomprensibile dell’autore, mi sorprendo a provare una commozione piccola e tenera») e diverte, creando un mondo attraverso l’invenzione di un personaggio e di una voce.
Paolo Zardi ha delegato del tutto la narrazione al suo protagonista, a una voce molto ben costruita, che non va mai troppo a fondo nella riflessione e si rende così invulnerabile al rimorso che commenta senza lirismi l’isola e non si cura di dare il giusto nome alle piante agli alberi agli animali, liquidando senza troppo filosofeggiare la grande massa della gente e la ritirata nicchia di intellighenzia di sinistra che gli hanno permesso, dall’inizio alla fine, di concentrarsi solo sui suoi bisogni primari: mangiare, bere, scopare, potere.
Vive a Roma, gira in bici, chiede spesso Qual è il tuo bar?