«Torre Maura è un posto per il quale l’unico aggettivo spendibile è brutto. Ma di una bruttezza mediocre, scadente, nel migliore dei casi ordinaria. Di uno squallore che nemmeno concede nulla alla potenza distopica della grande periferia metropolitana, ché quella, a Roma, appartiene a poche e isolate astronavi atterrate tra i pratoni lasciati abbandonati dalla rendita fondiaria, e che portano gli evocativi nomi della scenografia da cronaca nera: Corviale, Laurentino 38, Serpentara».
Questa citazione, tratta da Remoria – il saggio di Valerio Mattioli, pubblicato nel 2019 da minimum fax e diventato in poco tempo un’opera di riferimento per gli studi sulla borgatasfera romana – può essere utile per due ragioni: la prima è introdurci alla terminologia periferica, declinabile secondo attributi di bruttezza, ordinarietà, inutilità. La seconda, e forse più significativa, riguarda il fatto che parlare di periferie vuol dire evocare «nomi», piazze, vie, incroci, geografie di riferimento.
La domanda è: cosa accadrebbe se quei «nomi», di colpo, sparissero?
Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa è la raccolta di racconti d’esordio di Francesca Mattei, nonché prima opera di un’autrice italiana pubblicata dalla casa editrice Pidgin. I testi, diciassette in tutto, sono comparsi su alcune riviste della litweb italiana, tra cui SPLIT, Voce del verbo, Clean Rivista, Malgrado le mosche, Narrandom e La Nuova Verdə.
I racconti che compongono la raccolta – di una lunghezza che oscilla tra la narrativa brevissima (quasi dirimpettaia della flash fiction) e testi con un respiro più articolato – si sviluppano principalmente secondo microstorie, centrate sul rapporto tra la periferia (intesa, da qui in avanti, tanto come borgata metropolitana quanto come luogo dell’hinterland privo di un centro autonomo) e chi la abita.
I personaggi tratteggiati da Francesca Mattei sono perlopiù donne che, risucchiate dentro un vortice di serate alcoliche, botte di cocaina nei bagni, diverbi poi disinnescati dalla noia e dal tedio, tentano minimi movimenti centrifughi verso un altrove, che culminano quasi sempre in un’evasione destinata al fallimento.
Il vuoto di moto, che necessita una qualche forma di rabbocco, si trasforma spesso in prurito fisico – unghie mangiate, croste scorticate, pelli strappate – o mentale – pensieri intrusivi, disturbi alimentari, reiterazioni dialogiche – sintomatici di una frustrazione rivolta tutta all’interno, che lascia intatto il mondo, contribuendo (involontariamente) a nutrire il delirio statico che si abbatte sul soggetto stesso.
I colori che Mattei utilizza per dipingere questo quadro grigio oscillano tra tonalità marcatamente pulp, come in Muta, Croste, Salvo, Le vespe di agosto e Smalto, gradazioni più o meno realistiche, come accade in Struttura ossea, Poco, pochissimo, Un ricordo tremendo, Nata per questo, Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa, e sfumature quasi-weird (che ricordano, alla lontana, i Fotogrammi di un film horror perduto di Helen McClory) in Ma tu non la senti, Ninnananna e Baby-sitter. La lingua utilizzata per marcare questi segni è ritmata, asciutta, veloce.
Ma il tratto unificante che vibra al di sotto della raccolta di Francesca Mattei ha a che fare con le definizioni insufficienti, i riferimenti urbani mancanti: le piazze restano infatti solo ed esclusivamente piazze, le vie vie, le strade strade, gli amici quasi sempre «gli altri». La periferia descritta da Mattei è infatti un luogo geografico che, spostato in posizione laterale rispetto a un centro, perde con i nomi anche il suo ultimo tratto distintivo: il senso di appartenenza. Una delle forze centripete della borgata è infatti quella di costruire linguaggi in codice, tribù territoriali, mappe urbane decifrabili solo da chi, in quel posto, ci è nato (per intenderci, lo stesso proposito che porta Zerocalcare, in ogni opera, a eleggere Rebibbia come centro, relegando il pianeta intero a quartieraccio suburbano). La periferia di Mattei, invece, perdendo questi riferimenti identitari, corroboranti, costituenti, diventa allo stesso tempo universale e brutale, e l’assenza di nomi amplifica il senso di vuoto.
«Pensa che vorrebbe chiamare Luca e dirgli Ti prego andiamo via, lontano da questa città uguale da sempre, dove in estate facciamo la stagione e in inverno facciamo la muffa, ce ne andiamo il più lontano possibile e non torniamo più. Poi pensa che invece va bene così, incontrarsi tutte le sere nella stessa piazza, stare con gli altri a scherzare sempre sulle stesse cose, quelle che possono capire solo loro».
Ma la periferia senza nome agisce anche a un secondo livello, più profondo.
Perché questa fuga inattiva non manca soltanto dei mezzi per attuarsi, ma anche della volontà per verificarsi.
«Perché non te ne vai da questa casa, Elena?»
«E dove dovrei andare?»
Questo breve scambio di battute, estratto dal racconto Ninnananna, riporta una delle più classiche repliche che si incontrano in un dialogo periferico tipico, e costituisce ancora oggi uno strumento efficace per raccontare come lo sbriciolamento della borgata non sia soltanto infrastrutturale, economico, sociale, ma anzitutto psicologico.
«Dietro l’apparente dissennatezza del “ragionamento tossico”», spiega sempre Mattioli in Remoria, riferendosi al celebre video Rai (1976) del «capellone della Romanina», «sta in realtà la chiave di volta di un percorso che da allora attraverserà, con diverse gradazioni, l’inconscio collettivo della periferia tutta, sebbene sotto le forme più disparate e anche contraddittorie. E cioè che non è nella “politica riformista” che sta la soluzione alla “angoscia di chi vive in borgata”: è nel desiderio».
La periferia senza strumenti è il luogo devitalizzato per eccellenza, dove non si vive ma si sopravvive giorno dopo giorno, un territorio che risiede ai margini di un centro brulicante di vita per il quale si prova un senso di inadeguatezza profondo. Il movimento che potrebbe portare verso l’esterno, dunque, per mancanza di mezzi reali o ipotetici, per il terrore di pagare lo scotto del contatto col mondo, conduce a un moto verso l’interno, una forma di difesa territoriale senza limiti, una celebrazione di una realtà brulla che, con l’avanzamento del degrado urbano, diventa un soliloquio non distante dal delirio.
Un luogo periferico che perde i nomi, in breve, è un luogo privo di vita e, spesso, di ogni forma di amore.
Lo stesso sfibramento geografico è quello che risiede nelle viscere del pluripremiato Dogman (2018), il lungometraggio di Matteo Garrone ispirato alla storia di Pietro De Negri, detto “Er canaro della Magliana”, che nel 1998, dopo aver subito decine di soprusi da parte del criminale e pugile dilettante Giancarlo Ricci, scelse di uccidere brutalmente il suo aguzzino. Il luogo in cui è calato Pietro De Negri (interpretato da Marcello Fonte) però, non esiste, è quasi un palco teatrale, un quadro con tagli di luce hopperiani, una periferia priva di connotati, dove il muro, di nuovo, è un muro qualsiasi, la strada una strada senza nome, la vittima un uomo qualunque. La diretta conseguenza è che ogni sopruso, in un ambiente privo di bordi, viene amplificato, e la fatica si tramuta in agonia, la tristezza in disperazione.
La periferia senza nome, dunque, sfoga questa incessante fuga mancata dentro una logorante ripetitività, unico sistema per far accadere qualcosa in un luogo dove non accade nulla.
Salvo, il racconto di un pomeriggio tra amici al bar che rimbalzano tra drink annacquati, piccoli buffi di cocaina, sbadigli e poco altro, riferisce proprio di una stasi che, attraverso la reiterazione, spazza via l’identità degli stessi personaggi, lasciando il locale popolato di persone irreali, «elementi o sagome o tipi», incastrati nel loop.
«[…] anche io ho un nome che non è il mio nome, ho un nome che è quello che mi hanno dato queste persone qui, che mi incontrano in un bar e poi in un altro, mentre pizzico la zip e poi la barba, mentre bevo birre e birre e ascolto le storie di gente che beve birre e birre e racconto le mie storie di birre e birre perché non si può fare nient’altro qua, forse al massimo ogni tanto pippare o fumare qualcosa. O forse tormentarsi la cerniera».
Ricercare connessioni in questo luogo sfibrato diventa dunque inutile, un puro esercizio mentale simile a quel Teorema di Thomas, riportato anche nella raccolta, per cui: «Qualsiasi fatto assunto come reale dagli uomini sarà reale nelle sue conseguenze». L’essere umano, secondo Thomas, tende infatti a dare significati a eventi che non ne hanno, che accadono secondo leggi antropiche. Così, l’individuo periferico vuole ricercare segni dove non ce ne sono.
Questa ripetitività, che il lettore sente tutta addosso sfogliando le pagine della raccolta di Mattei, in alcuni (pochi) casi muta in una stridente ripetizione tematica (come accade in Un ricordo tremendo o Nessuno ha provato a riaccendere il fuoco), e sembra ingabbiare la macchina narrativa dentro piccoli atti identici a sé stessi, incanalando i personaggi dentro percorsi e schemi noti, depotenziando quella miccia creativa in grado di rendere un evento anonimo una storia da raccontare.
Nel complesso, però, Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa di Francesca Mattei riesce non solo a ritrarre il luogo periferico, ma anche a viaggiarci attraverso, riportando il tedio dei movimenti immobili e ripetuti, la violenza della disperazione incompresa e muta, l’inefficacia delle scarne soluzioni impiegate come cura:
«Offrimi ‘sto tiro, bello, amico mio, amico di sempre, uomo meraviglioso, che ‘sta serata altrimenti non finisce più».
Redattore di Marvin, scrive racconti, poesie, articoli di approfondimento culturale e contributi sul tema dei future studies. Appassionato di cinema horror e B-movies, ha sviluppato un feticismo per Sharknado, per il quale è attualmente in cura.