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Gli orli scuciti del futuro

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«Ormai – le dico, – non grido neanche, perché so che se iniziassi, non la smetterei più».

Alien Virus Love Disaster di Abbey Mei Otis arriva in Italia per i tipi di Zona42, casa editrice che divulga una fantascienza di qualità, soffermandosi sulle potenzialità di un genere troppo a lungo ghettizzato, che negli ultimi tempi sembra trovare lo spazio che merita. In un contesto letterario in cui gli autori di spicco che si accostano alla science fiction tendono spesso (ancora) a prenderne le distanze, preferendo definire le loro opere “contaminazioni” o “incursioni”, realtà come Zona42 preferiscono muoversi in senso inverso, rivendicandone letterarietà, bellezza e potenza in quanto tale e non nonostante.

Abbey Mei Otis, autrice statunitense che fa della scrittura professione e materia d’insegnamento, potrebbe facilmente ascrivere la sua opera prima alla dimensione di una science fiction allegorica e strumentale, in cui il genere viene richiamato come espediente per parlare d’altro. I dodici racconti che compongono la raccolta sono infatti, soprattutto, il ritratto spietato della periferia e della disperazione che tende a inglobarla. Otis opera un’autopsia dei confini e della carne cruda che li abita, in una narrazione che, in linea teorica, potrebbe scollarsi dalla fantascienza e dedicarsi con spietata minuzia alla realtà presente, tanto la si sente prossima leggendo. Ma l’autrice non intende affatto operare un simile scarto e il suo amore per la science fiction emerge limpido nei ringraziamenti a fine volume, in cui nomina il padre per averla condotta nella Terra di Mezzo, su Earthsea e Arrakis, luoghi in cui il lettore del genere ama perdersi e da cui lo scrittore desidera attingere. Otis tiene fede a questa folgorazione e in tutta la raccolta l’elemento fantascientifico si irradia come corrente elettrica, incrementando la portata delle vicende e ampliandole ancora di più, da miniature a universo in espansione.

I sobborghi fantaweird esplorati in Alien Virus Love Disaster estremizzano i quartieri in fiamme (metaforiche e non) del nostro tempo e li proiettano anni luce più avanti: lo sguardo dell’autrice si posa su coloro che, pur trovandosi nel futuro, rimangono indietro, marginalizzati, fuori dalle scoperte e dalle rivoluzioni scientifiche, in attesa di accaparrarsi le briciole di chi vive al di sopra di loro (in alcuni casi anche letteralmente, come nella storia Se potessi essere il dio di qualcosa, in cui le classi abbienti sfrecciano sopra i più poveri lasciandovi precipitare sopra i loro scarti, che hanno talvolta le fattezze di robot umanoidi).

Il primo racconto, che battezza anche la raccolta, sembra una versione ucronica (quasi profetica in effetti, considerando che l’uscita in lingua originale della raccolta risale al 2018) della nostra attualità più schiacciante: si apre con un’epidemia non ben specificata, con l’avvento di mascherine, quarantene e il tentativo di contenere un’infezione che assume, prima lentamente e poi di colpo, i tratti di un’invasione, sfiorando il body horror e sconfinando nel metafisico.

Una costante della poetica di Otis è l’esplorazione della solitudine e dell’alienazione, del tentativo di superare i limiti della contingenza e riuscire a colmare la distanza dall’altro, oltrepassando persino sé stessi, come succede in Sangue, sangue, in cui amore e violenza si intrecciano fino a non distinguersi più. Il desiderio di contatto è tale che ogni forma è ammessa, ed è sempre un sollievo, sia pure la lotta, forse soprattutto la lotta. «Oh, penso, è così semplice. Sempre come sferrare quel primo pugno. Queste barriere tra le persone, questi golfi, com’è facile che ogni cosa collassi», riflette la protagonista quando fa sesso per la prima volta.

Il senso di estraneità da sé stessi è una formula che ricorre nell’arco dei racconti, spesso nella forma di distacco dal proprio corpo fisico, visto sempre o quasi come zavorra di cui disfarsi, come ostacolo da sublimare o da cui fuggire senza remore: «Dico a me stessa che il senso di colpa non è che l’ennesima trappola della carne. […] E quando non avrò più un recipiente? Quando non sarò più un recipiente? Non sarò altro che me stessa».

La prima parola del titolo, Alien, richiama certamente la vasta e variegata presenza di creature extraterrestri all’interno dei racconti (che appaiono negli aspetti più diversi, entità incorporee, inarrivabili intelligenze lunari ed “esiliati” lunatici, voyeurs che spiano morbosamente la vita altrui), ma allo stesso tempo può nondimeno essere attribuita agli umani, invasi da un perenne senso di disappartenenza. «Le case, il quartiere, ogni posto in cui ero stata da quando ero nata si divincolava sotto ai miei passi, sospirava, non ti vogliamo. E noi rispondevamo, E allora?».

L’immaginazione di Abbey Mei Otis brilla in ogni racconto, pur invischiata in un’atmosfera che non cessa quasi mai di essere cupa e opprimente. Siamo immersi in una fantascienza paranoide (d’altronde il libro è arrivato finalista al Premio Philip K. Dick, che alla paranoia non era certo estraneo), lontana da ogni traccia di ottimismo. La periferia è la no man’s land per antonomasia: «La versione ufficiale per questo posto è che non ci vive più nessuno. Capito? L’autobus è colmo di nessuni ingobbiti e di pessimo umore. I lotti abbandonati non ospitano nessuno, che non spettegola con nessun altro. Nessuno trascina i piedi sui marciapiedi erosi, nessuno compra Fintorte dal baracchino all’angolo. E sul sedile per disabili dell’autobus, una nessuno flagrantemente non-disabile, le gambe stirate, la mano sul viso, cerca di spiare fuori dalla finestra senza farsi notare». Otis setaccia luoghi e persone in abbandono, persone che sono ormai parte dei luoghi stessi e viceversa, descritti per fratture, per danni, per assenze disilluse. «Ma nessuno di noi vuole ammetterlo. Puzziamo tutti di bassa marea». Viene redatta così la mappatura di un hinterland stratificato e ricco, in cui ciascuno è alieno all’altro, che sia autoctono o provenga dallo spazio profondo. Tutte le figure in campo, tutti i nessuno, lottano per la sopravvivenza compiendo sacrifici estremi, come nel racconto Se vivessi qui, ti avrebbero già sfrattato, o decidendo di allontanarsi da una realtà troppo infelice, come in Megasballo casalingo definitivo Vol. 4, in cui le vie di fuga artificiali ricordano il Can-D di dickiana memoria.

Lo stile impiegato è secco e veloce, con incursioni di slang restituite in traduzione da Chiara Puntil e Chiara Reali utilizzando all’occorrenza un linguaggio il più possibile vicino al parlato che, se in prima battuta stranisce, subito dopo genera una più forte contestualizzazione geografica e sociale. Le scelte lessicali e narrative dell’autrice sembrano talvolta permeate da una sorta di freddezza, un cinismo distaccato che cattura la dimensione della rabbia adolescenziale (i protagonisti sono spesso ragazzini) e quella rassegnata della marginalizzazione. Questo approccio rivela una profonda immersione nei personaggi, uno sguardo di camera in soggettiva: non è tanto di Otis il cinismo quanto dei suoi protagonisti. Il carapace che li protegge viene però smascherato – a tratti scalfito – da brevi lampi poetici: «Di me non rimane che un sottile confine di pelle tra due campi stellari», residui di una dimensione di sogno che nessuno, neanche nelle realtà più miserabili, può abbandonare del tutto, «in loro albergano vasti paesi a lei alieni, e poi ci sono questi piccoli punti di contatto. Sugli estremi del loro sudore riesce a sentire l’odore ammuffito di casa», tracce vive di legami che si fanno a loro volta fonte di vita.

Nelle storie di Alien Virus Love Disaster non c’è alcuna assoluzione, non ci sono epifanie, solo talvolta «questi piccoli punti di contatto», che consentono di andare avanti nella desolazione, ma «le cose non cambieranno. Non troveremo lavoro. Non ci appariranno animali in sogno per sussurrarci la risposta giusta. Il mare continuerà a salire. La Terra diventerà più piccola e tremerà nel sonno» (Non è una storia di alieni). L’intera raccolta è infettata – Virus – da un pessimismo che appare insormontabile e lascia un profondo senso di vuoto nel lettore. Sotto i suoi occhi scorre una traslazione della nostra realtà in un futuro che sembra già stare accadendo, in luoghi dove l’amore si mescola sempre col disastro e riesce lo stesso, in qualche modo, a generare bellezza.

«Come una musica senza melodia e senza parole, quindi forse non come una musica. È sempre così forte che non riesci a parlarci sopra e fa un po’ male alle orecchie, ma fa anche un po’ male al cuore in un modo che secondo me, sotto sotto, piace a tutti quanti. Come se l’animale più bello del mondo fosse chiuso in una gabbia là dentro. E noi siamo quelli che devono ascoltarlo, e noi siamo quelli che possono ascoltarlo».