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Il viaggio dell’antieroe

14 min. di lettura

Fra i molti manuali di narrativa o sceneggiatura in circolazione, si può riscontrare un assunto abbastanza condiviso: ogni antagonista è l’eroe della propria storia. Il viaggio dell’Eroe di Christopher Vogler, probabilmente il più famoso e influente tra questi testi, è forse quello che riporta meglio archetipi e passaggi di questa figura centrale.

Già verso la fine degli anni ’70, Il viaggio dell’Eroe diventa il manuale di riferimento per molti sceneggiatori di Hollywood, nonché il testo di riferimento di una tra le saghe più famose di sempre, Star Wars. Negli episodi prequel, infatti, si vede il cavaliere jedi Anakin Skywalker cedere progressivamente al lato oscuro. Le sue motivazioni, però, sono tra le più nobili: portare ordine nella galassia e salvare Padmé Amidala, la donna amata. Motivazioni che prese tout court potrebbero essere condivise da molti eroi che conosciamo. Eppure, è proprio sul filo di questo confine labile che si denota la tonalità eroica o meno di un personaggio, non tanto in base al suo scopo quanto alle azioni compiute per perseguirlo.

Per quanto si possa disdegnare l’interpretazione di Hayden Christensen e la regia e sceneggiatura di George Lucas, Anakin Skywalker/Dart Fener resta uno degli antagonisti più iconici della storia del cinema, il cui fascino risiede proprio nel percorso di caduta e redenzione. In fondo, il cavaliere nero resta pur sempre un cavaliere.

Così, Cobra Kai è il suo villain, Johnny Lawrence (William Zabka), e Johnny Lawrence è Cobra Kai. Nonostante le osservazioni e le critiche che si possano muovere alla serie, se c’è un elemento che le ha permesso di restare sulla cresta dell’onda per così tanto tempo quello è proprio il sensei dal kimono nero.

Nel 2018 lo show debutta come prodotto di punta della giovane piattaforma YouTube Premium. Scritto e diretto da Jon Hurwitz e Hayden Schlossberg – famosi in America per la saga degli stoner movies di Harold & Kumar (qui in Italia il più conosciuto è American Trip – Il primo viaggio non si scorda mai del 2004) – arriva nel gennaio 2021 alla sua terza stagione, prodotta e distribuita da Netflix (e con una quarta già in cantiere).

Riassumere Cobra Kai risulta quasi impossibile: la serie è composta da decine di personaggi con linee narrative autonome (alcune delle quali, purtroppo, vengono abbandonate tra una stagione e l’altra, generando una sensibile confusione). In quanto a registro e stile, la serie è a tratti schizofrenica, ed è capace di saltare da una gag comica a un momento carico di pathos, da un combattimento acrobatico al teen drama più sdolcinato che si possa infliggere, senza troppe remore.

Non si può negare che lungo la strada gli acciacchi e le incertezze siano diversi. Si possono tuttavia individuare tre elementi, tre colonne portanti, che tengono in piedi l’intera impalcatura di Cobra Kai: Johnny Lawrence, il bullismo e una (sana) critica al politicamente corretto. Tre pilastri, un po’ come il motto alla base del dojo:

Strike first

Strike hard

No mercy

Chi è Johnny Lawrence?

In principio c’era l’antagonista. The Karate Kid (o come è arrivato in Italia Per vincere domani – The Karate Kid) esce nel 1984 e racconta la storia di Daniel LaRusso (Ralph Macchio), sedicenne italoamericano tormentato dalle difficoltà di integrazione dopo il trasferimento dal New Jersey alla California. Il suo principale ostacolo, tanto nell’adattarsi al nuovo ambiente quanto nel conquistare Ali (la ragazza di cui è innamorato) è proprio Johnny Lawrence che pratica karate presso il Cobra Kai, il dojo guidato dal sensei Kreese (Martin Kove). LaRusso e Lawrence, dopo essersi scontrati a più riprese, decidono che per risolvere i dissapori la cosa migliore sia affrontarsi al torneo regionale di karate Under18, per il quale Daniel si preparerà grazie all’aiuto del maestro Miyagi (il mentore per antonomasia nella storia del cinema). Il resto è storia: «Togli la cera, metti la cera» e calci in faccia (letteralmente) per il primo premio.

Ma questo è Karate Kid.

Sta a Cobra Kai però dare la propria versione dei fatti, spesso attraverso costanti (e a tratti invadenti) spezzoni presi dalla pellicola originale. All’inizio dell’ottava puntata della prima stagione, infatti, Johnny racconta al proprio pupillo l’origine della sua faida con Daniel LaRusso.

Johnny si è appena lasciato con la ragazza, Ali, che trova una sera in spiaggia, mentre chiacchiera con uno sconosciuto. Perde la testa e raggiunge Ali per chiederle spiegazioni, ma la situazione degenera perché il nuovo arrivato reagisce alle provocazioni colpendolo al volto. Johnny allora usa il karate per metterlo al tappeto, ma così facendo compromette inesorabilmente i rapporti con la sua ex. Quella sera in spiaggia, Johnny ha incontrato la sua nemesi, Daniel LaRusso. I due continueranno a sfidarsi nei mesi successivi, fino alla resa dei conti al torneo di karate per gli Under18. Qui, contro ogni aspettativa, Daniel LaRusso arriva in finale insieme a Johnny e riesce a metterlo al tappeto.

The Karate Kid – Part II (in Italia a quanto pare ci piace allungare il brodo proponendo Karate Kid II – La storia continua) si apre con Johnny che litiga con il suo sensei, Kreese, che lo accusa di essere un perdente, e prova a strangolarlo. L’intervento del maestro Miyagi libera il ragazzo dalla presa del sensei, ma questo episodio allontanerà Johnny dal karate per molto tempo.

Già Barney Stinson (Neil Patrick Harris) in How I Met Your Mother insisteva sul fatto che Johnny fosse il vero protagonista del film (nella ventiduesima puntata dell’ottava stagione L’addio al celibato/The Bro Mitzvah), in una rivisitazione del suo personaggio in chiave di eroe tragico.

Ma lasciamoci finalmente alle spalle Karate Kid ed entriamo nel merito del suo sequel/spin-off Cobra Kai.

La serie si concentra sulla storia di Johnny Lawrence, che, come accade per ogni bullo degli anni ’80 sconfitto dall’eroe di turno, subisce il contrappasso di una vita amara e deludente (basti pensare a Biff di Ritorno al futuro). A trentaquattro anni dalla sconfitta al torneo, Lawrence vive in uno squallido appartamento, svolge piccoli lavoretti di manutenzione e si è lasciato alle spalle un matrimonio disastroso, con un figlio che lo disprezza profondamente per non essersi mai preso cura di lui. Come se non bastasse, la figura del suo acerrimo nemico, Daniel LaRusso, campeggia nei cartelloni pubblicitari dell’autosalone in cui lavora, e ricorda a Lawrence tutto quello che avrebbe potuto essere e che non sarà mai: un imprenditore di successo, un marito e un padre premuroso e soprattutto un autentico karateka.

L’incontro con il nuovo vicino di casa, Miguel (Xolo Maridueña), un ragazzo ecuadoriano che vive con la madre single e la nonna, costituirà la rampa di lancio per riprendere le redini della propria vita. Una sera Miguel viene preso di mira da un gruppo di bulli, e quando finiscono per importunare Johnny – che si trovava in disparte a mangiare per terra – questo interviene a colpi di karate. L’avvenimento lo porterà a riflettere sulla propria vita e, nonostante le inziali resistenze, a prendere Miguel come allievo e riaprire il vecchio dojo: il Cobra Kai. Questa iniziativa, però, sarà particolarmente sgradita al suo vecchio rivale, LaRusso, che ne ostacolerà i piani.

A dare un ulteriore spinta alla trama è Robby (Tanner Buchanan), il figlio di Johnny, il quale, sentendosi doppiamente tradito dal padre (con l’arrivo di Miguel) entra nel dojo di LaRusso, il Miyagi Do. Un espediente narrativo forse pigro ma che, alla fine, trova lo spazio che merita nella dimensione farsesca che assume l’intero racconto.

A distanza di tre stagioni, Johnny Lawrence continua a valere il prezzo del biglietto. Sarà perché William Zabka in questo ruolo fa scintille, donandogli espressività e umanità; ma il grosso di questa formula magica si deve alla scrittura del personaggio. Sarà la sua vena politicamente scorretta, l’incoscienza o l’irrazionalità a renderlo così simpatico? O forse sarà perché rappresenta i boomer cresciuti negli anni ’80, con la testa piena di mascolinità tossica, luoghi comuni razzisti e analfabetismo digitale? Più semplicemente, Johnny Lawrence è l’antieroe di cui tutti comprendiamo le motivazioni e condividiamo le reazioni. Per ritornare alla correlazione con la saga più famosa della storia del cinema: chi non preferisce Han Solo a Luke Skywalker? Difficile immaginarsi la vecchia trilogia di Star Wars senza il sorriso da canaglia di Harrison Ford.

La figura del sensei dal kimono nero funziona ancora meglio quando viene messa di fronte alla sua controparte candida: Daniel LaRusso. Che sia la recitazione legnosa e poco espressiva di Ralph Macchio o gli insostenibili discorsi retorici che gli sceneggiatori gli mettono in bocca, LaRusso non fa che spostare tutta l’approvazione e il sostegno del pubblico verso la sua nemesi.

Non solo: sono gli stessi autori a delegare ai personaggi secondari l’onere di evidenziare la somiglianza tra i rivali, sottolineando quanto, tra Johnny e Daniel, in fondo passi solo il risultato di un torneo. Certo, un mentore saggio come il maestro Miyagi non è paragonabile al crudele Kreese. Eppure, entrambi sono a loro modo arroganti, pieni di sé, emotivi e promotori di filosofie inflessibili, incapaci di stare al passo con i tempi. Ma mentre per LaRusso il Cobra Kai era nel film un riscatto e un inizio di vita, per il secondo la ripresa del conflitto appare come una crisi di mezza età – aspetto sottolineato dalla moglie (interpretata da Courtney Henggeler), forse il personaggio più consapevole e pragmatico dell’intera serie.

È in questo intricato gioco di specchi che non si riesce più a distinguere chi sia stato il carnefice e chi la vittima.

Il bullismo è duro a morire.

La saga di Karate Kid racconta di bullismo. Si potrebbe dire che tratti di arti marziali, di integrazione o più semplicemente di riscatto, ma la verità è che senza le prevaricazioni e le umiliazioni non ci sarebbe stato bisogno di difendersi (una delle ragioni che può spingere a imparare le arti marziali). Cobra Kai parte dalle stesse premesse: Miguel non è che un altro Daniel LaRusso, solo con un sensei più imbranato e meno saggio del celebre maestro di Okinawa. La serie ne dà una rappresentazione convincente: in trentaquattro anni saranno cambiati gli strumenti e il linguaggio, ma il senso di impotenza, di umiliazione e di emarginazione delle vittime rimane sempre lo stesso.

Cyber o meno che sia, il bullismo è ancora una volta la molla che porta al dojo. Ma una cura vecchia potrebbe non essere più efficace come una volta. Bene inteso: neanche negli anni ’80 andare in giro a stendere persone era privo di conseguenze; ma nella fiction di quegli anni la violenza a fin di bene era considerata priva di ripercussioni (il ricorrervi era anzi atto di coraggio necessario a sconfiggere l’antagonista).

Cobra Kai da questo punto di vista ha la splendida capacità di mettere in discussione il registro drammatico della saga da cui proviene. L’elemento più ricorrente (e divertente) a questo proposito è vedere due adulti, intrappolati nel ricordo dei tempi gloriosi, dover scendere a patti con la realtà. Non si sta discutendo se le arti marziali siano uno strumento adeguato a combattere il bullismo, non è una serie che va presa sul serio perché ci pensa lei stessa a smorzare i toni. Anzi, in più di un’occasione, i sensei Lawrence e LaRusso vengono criticati proprio sulla base dei loro antiquati metodi di combattimento.

Ed è così che il dojo che sfornava i bulli torna a sfornare bulli.

Perché tra carnefice e vittima, così come tra eroe e antagonista, il confine può essere particolarmente labile. Gli insegnamenti del sensei Lawrence (e prima del sensei Kreese, che ritorna nella seconda stagione come villain assoluto) puntano sulla sicurezza e l’aggressività (quel Strike first. Strike hard. No mercy è abbastanza auto-esplicativo), e combattere il fuoco con il fuoco è forse il modo più semplice per bruciarsi.

Eppure, l’alternativa ci sarebbe: parlare con i propri genitori o con i docenti, denunciare i comportamenti intimidatori e non isolarsi. Ma a nessuno sembra efficace, meno che mai alle vittime. A dover convivere con gli insegnamenti e la retorica delle due palestre rivali, c’è l’America del politicamente corretto.

Il flebile colpo del politically correct

Cobra Kai dà molto spazio (alle volte forse anche troppo) al teen drama. Il tono resta farsesco e le dinamiche relazionali (per non parlare degli intrecci amorosi) tra i personaggi adolescenti vanno parecchio oltre la soglia dell’incredulità, tanto da sembrare usciti da un anime giapponese (ovviamente uno di quelli pieni di combattimenti). Fra una dozzina di ragazzini però, quelli più utili a comprendere la critica a una rappresentazione stereotipata, tanto dell’autorità scolastica (troppo cauta e protettiva) quanto delle arti marziali (aggressive e istintive) sono Aisha (Nichole Brown) ed Eli/Hawk (Jacob Bertrand).

Aisha ed Eli sono due vittime di bullismo ed emarginazione scolastica: Aisha è una ragazza sovrappeso, appassionata di materie scientifiche e scarsamente interessata al proprio aspetto fisico; Eli è un ragazzo che porta una cicatrice sul labbro superiore, a causa di un intervento per sigillare il labbro leporino. Aisha subisce umiliazioni pubbliche e attacchi di cyberbullismo a causa del peso, mentre Eli, anche lui vittima di umiliazioni pubbliche, si sente ancora più vulnerabile a seguito dell’intervento dell’autorità scolastica che cerca, goffamente, di tutelarlo.

Entrambi i ragazzi scelgono di entrare nel Cobra Kai per imparare a difendersi e acquisire un po’ di sicurezza. Mentre Aisha guadagna l’audacia necessaria per vendicarsi della ragazza che l’aveva presa di mira, Eli subisce una vera e propria trasformazione, lasciandosi alle spalle sé stesso e creandosi un alias: Hawk. Hawk è la completa negazione di Eli: sfrontato, sleale, provocatorio e aggressivo. Per distogliere l’attenzione dal suo labbro si fa una cresta dal colore metallizzato (prima blu e poi rossa). Il suo è probabilmente uno dei percorsi sviluppati con maggiore attenzione, soprattutto per quanto riguarda il rapporto/scontro con il vecchio amico Demetri (Gianni Decenzo).

La scuola non ha saputo aiutare Eli con i suoi timidi e cauti interventi, così come il Cobra Kai non ha fatto altro che rimpiazzarlo con un altro bullo, Hawk.

Nel corso della serie emerge comunque una certa cautela nell’attaccare l’approccio politically correct all’interno della scuola americana. Con il passaggio di produzione a Netflix, è apparsa più evidente l’emersione di una morale precisa, quella del non “buoni e cattivi”, ma “buoni e buoni che si sono persi per strada” (passaggio più esemplificativo la rievocazione del passato del sensei Kreese). Ma questo è anche uno dei tratti fondanti di Cobra Kai stesso, trattandosi pur sempre di una serie sul riscatto dell’antagonista.

Dispiace che dalla terza stagione sia stato eliminato il personaggio di Aisha, attraverso una giustificazione peraltro debole (a causa dei fatti narrati nella seconda stagione i genitori si sono trasferiti e le hanno cambiato scuola), così come deboli sembrano le motivazioni date dagli showrunner per l’assenza Nichole Brown dal cast.

Si spera di rivedere Aisha nella quarta stagione, implicitamente annunciata nell’ultima puntata della terza.

L’ultimo colpo

La fortuna di Cobra Kai è di essere stata un vero e proprio fulmine a ciel sereno. Nonostante la nostalgia degli anni ’80 caratteristica di questo periodo storico (con in testa Stranger Things dei fratelli Duffer) la popolarità delle arti marziali nei media è tramontata da parecchio. È così che la prima stagione è arrivata, quasi quattro anni fa, senza alcuna aspettativa addosso e con ampi margini di manovra: partendo da una buona idea, sviluppandola meglio, intrattenendo e riuscendo a sfruttare in maniera credibile personaggi e situazioni appartenenti a un passato non troppo lontano.

A distanza di quasi quattro anni, però, gli autori non sono riusciti a mantenere la stessa perfetta alchimia della prima stagione. Molti tra i fan temevano che l’assorbimento di Netflix avrebbe tradito lo spirito della serie, ma la verità è che già nella seconda stagione – ancora prodotta da YouTube Premium – si poteva intravedere una lenta discesa, dovuta all’intensificazione di quegli elementi surreali, farseschi e ridicoli che dovevano essere non centro ma contorno.

E così Cobra Kai arriva alla sua terza stagione in bilico tra essere un buon show scanzonato e ricco di combattimenti e uno dei tanti guilty pleasures, che continuiamo a vedere per affetto, coscienti delle evidenti criticità.

Ma ci aspetta ancora un ultimo (si spera) round, dove dare il tutto per tutto, fino alla fine