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I nuovi pionieri americani

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Sono i primi di marzo del 2018 e a Santa Monica, in California, si svolge la 33esima edizione degli Independent Spirit Awards. Due donne si incontrano: Frances McDormand è candidata come miglior attrice per Tre manifesti a Ebbing, Missouri, mentre Chloé Zhao sta per ricevere l’American Airlines Bonnie Award, un premio di 50mila dollari come migliore regista donna. Durante la cerimonia di premiazione Frances sale sul palco. È frizzante, non lesina battute e, soprattutto, non riesce a trattenere l’entusiasmo: annuncia un nuovo progetto e strizza l’occhio a Chloé.

Tra le mani dell’attrice è infatti capitato il romanzo-reportage di Jessica Bruder, Nomadland: Surviving America in the Twenty-First Century (pubblicato in Italia da Edizioni Clichy, 2017). Il racconto – che amplia l’inchiesta Dopo la pensione, Premio Aronson 2015 per il giornalismo sulla giustizia sociale – segue il percorso di alcuni nomadi americani del nuovo millennio, che preferiscono vendere i propri averi e abitare su un caravan piuttosto che rimanere schiacciati dal sistema pensionistico e sanitario americani. McDormand, affascinata dallo stile di vita, decide di acquistarne i diritti e produrre un film (insieme a Peter Spears). Poi, dopo aver visto The Rider, non ha dubbi: a dirigerlo dev’essere Zhao, che accetta, nonostante abbia già un contratto per girare il prossimo film Marvel, The Eternals – una scelta in apparenza divergente, ma che permette alla regista di descrivere con linguaggi (e budget) differenti le contraddizioni più profonde dell’America odierna.

Le due si immergono nel progetto segreto, e per quattro mesi viaggiano e vivono in furgone seguendo la comunità di nomadi attraverso South Dakota, Nebraska, Arizona, Nevada e California. Anzi, si interessano talmente tanto ai workcamper che, per cercare di riprodurne lo stile di vita, arrivano a coinvolgerli come attori.

Nasce così la storia della protagonista della pellicola, Fern, una sessantenne che si è lasciata alle spalle la cittadina di Empire, nel Nevada, in seguito alla chiusura della miniera locale e alla morte del marito. Alla donna non resta dunque che vivere sul proprio caravan e spostarsi su e giù lungo il versante orientale del continente, mantenendosi tramite lavori stagionali in cambio di un parcheggio.

Durante queste brevi o lunghe soste fa la conoscenza di altri viaggiatori come Linda May, Swankie e Bob Wells (che interpretano loro stessi): l’istinto di sopravvivenza porta questi personaggi a creare una fitta rete di legami affettivi e scambi di mutuo soccorso, per cui nessuno è mai abbandonato a sé stesso. La vita è comunque dura: non è facile trovare un impiego saltuario (host nei parchi naturali, CamperForce di Amazon) e Fern si deve spesso accontentare di mansioni logoranti a salari minimi.

Potrebbe sembrare un’esistenza costretta ai margini della società, eppure Fern a chi le mostra compassione risponde: «I’m not homeless, I’m just houseless», sottolineando che la sua non è disgrazia, ma scelta consapevole. La protagonista ha infatti più occasioni per tornare alla sedentarietà: potrebbe fermarsi a vivere con il suo nuovo amico Dave (interpretato da David Strathairn) o accettare una stanza in casa della sorella. Tutt’e due sarebbero felici di ospitarla, eppure il suo rifiuto è categorico.

Dunque, cos’è che spinge Fern e gli altri verso una vita nomade? 

Le condizioni di questi uomini e donne avanti con l’età potrebbero apparirci estreme, ma forse sono preferibili a una vita fatta di sola sussistenza. Fermarsi solo per la raccolta di barbabietole durante la stagione, guadagnare quanto basta per poi riprendere la strada, oppure rassegnarsi a una vita di compromessi, aspettando a casa l’inevitabile declino: qual è il prezzo più alto da pagare?

A ben vedere è così per Swankie che, da quando sa di avere un tumore, si è messa in marcia per ritrovare l’unico posto in cui si è sentita connessa al resto del mondo; lo è per Bob Wells, che ha perso un figlio ma ha ritrovato il suo ruolo di padre nella comunità nomade di cui è pilastro e confidente. Anche la storia di Fern, per quanto inventata, si immette perfettamente nella nuova tradizione di questi pionieri moderni. La protagonista è una donna che ha perso ogni punto di riferimento – marito, lavoro, comunità (tutti elementi che consideriamo identitari) – ma che non rinuncia a cercare nuove coordinate. E anche lei, come gli altri, non perde mai di vista il proprio Nord, rappresentato dai ricordi del passato, siano essi un piatto rotto o una pietra lavica. Questa forma alternativa di società ha inoltre piccoli gesti o rituali che ne delineano i codici, come il rito funebre celebrato dopo la morte di Swankie, a cui tutti si sentono chiamati a partecipare, per rispettare le volontà dell’amica defunta.

In questo episodio, come in altri momenti del film, il racconto resta su toni tenui, bilanciando bene i tratti lirici con quelli realistici, senza cedere mai al sentimentalismo. Da Golden Butterflies (tratta dall’album Seven days walking, day one) a Oltremare (della raccolta Divenire), le tracce di Ludovico Einaudi che compongono la colonna sonora sono scelte con cura, risultando sempre calzanti.

Per quanto Zhao abbia un’opinione politica forte rispetto al governo Trump, la regista si sforza di svestire la narrazione di possibili interpretazioni più soggettive e partigiane, per renderla testimonianza universale: Nomadland è un viaggio alla ricerca di paesaggi inediti, da ammirare attoniti, alla scoperta di una felicità modica, tutta interiore e immateriale.

Qualcuno potrebbe obiettare che la scelta di un soggetto è di per sé politica e non avrebbe tutti i torti: per quanto non si perda la dimensione riflessiva, è innegabile che la camera si concentri sulle comunità emarginate, su ciò che rimane da dire di una persona una volta sottratti al discorso gli argomenti comuni (come la squadra del cuore o il menu di Capodanno).

Zhao, con le sue riprese panoramiche del South Dakota, richiama La rabbia giovane e fa proprio l’approccio quasi documentaristico di Terrence Malick. Il suo è un road movie delicato, che restituisce rispetto alla figura del workcamper, anche attraverso le parole di chi, come la sorella di Fern, fa una vita confortevole. Questi esseri umani, che hanno trovato un modo per non farsi travolgere da un passato sofferto o da un futuro scomodo, che hanno esplorato nuove strategie di resistenza, sono degni di essere chiamati «pioneers». 

Nomadland si è aggiudicato il Leone d’oro alla 77esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia perché è riuscito a rappresentare la solidarietà tra compagni di viaggio, la meraviglia che si prova di fronte alla natura e la capacità di opporsi con tenacia a tempi grami. In molti potrebbero riconoscersi nella vita solitaria del nomade, così come in quel saluto tra consimili, «See you down the road!», sincero e universale.