Hollywood, anni Quaranta. Un giovanissimo Orson Welles, appena ventiquattrenne, viene ingaggiato dalla celebre casa di produzione statunitense RKO, al tempo in crisi, per girare un film. Nei primi secondi della pellicola di David Fincher leggiamo che al ragazzo-prodigio Welles «fu data autonomia creativa assoluta, senza alcuna supervisione. Avrebbe potuto girare qualsiasi film su qualunque argomento, avvalendosi di collaboratori di sua scelta». Grazie a questa libertà autoriale Orson Welles sceglie proprio Herman J. Mankiewicz, all’inverno della sua carriera da sceneggiatore.
Facciamo un passo indietro per una visione d’insieme dell’opera. Mank racconta la genesi e lo sviluppo di quel capolavoro cinematografico che è Citizen Kane (1941, distribuito in Italia solo otto anni dopo col titolo Quarto potere) e del suo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz, uomo poliedrico e dalla verve geniale, virtuoso della parola, e con problemi d’alcolismo e gioco d’azzardo. La narrazione non si limita a questo e porta sul piccolo schermo un lucido spaccato del cinema hollywoodiano degli anni Trenta e Quaranta, dei suoi meccanismi controversi e corrotti, inquadrato in un momento storico-politico che fa sì da cornice, ma che al contempo assume un ruolo di primo piano lungo l’intera durata del film: la Grande Depressione, le elezioni governative tra socialisti e repubblicani in California – c’est à dire tra Upton Sinclair e Frank Merriam –, e l’(ab)uso di potere da parte della radio e dei cinegiornali, con lo scopo di deviare l’opinione pubblica – pensandoci, una piaga non diversa da quella attuale.
La sceneggiatura è stata scritta negli anni Novanta da Jack Fincher, padre di David, ed è rimasta un progetto incompiuto fino alla produzione di questo film. Lo script riprende il saggio Raising Kane di Pauline Kael (1971) che indaga sulla paternità dell’opera, secondo l’autrice ingiustamente attribuita a Orson Welles. La sua tesi resta attualmente irrisolta.
Il film si apre con una coordinata geografica ben precisa: Victorville, North Verde Ranch. Qui Herman J. Mankiewicz (interpretato da un funambolico Gary Oldman, che profuma già di Oscar come miglior attore protagonista) è costretto a letto con una gamba ingessata dopo un incidente d’auto. Insieme a lui troviamo una fisioterapista (Monika Gossmann) e una dattilografa di origini inglesi (Lily Collins), che aiuteranno Mank nella stesura della bozza di Citizen Kane – prodotta in soli sessanta giorni – allora intitolata American. La sceneggiatura racconta la storia del magnate dell’editoria William Randolph Hearst (Charles Dance), della sua giovane fidanzata Marion Davies (Amanda Seyfried) e del microcosmo che orbita loro attorno: la ruggente e scoppiettante Hollywood – di Paramount, Metro-Goldwyn-Mayer e dei fratelli Warner – su cui Mank concentra la sua tagliente e brillante acutezza per metterne in risalto eccessi e contraddizioni. Come possiamo notare già dalle prime scene del film, abbiamo due elementi in forte contrasto: l’avvento del cinema sonoro, elogiato da Hearst come «il futuro», e la fiducia ossessiva e salvifica che Mank ripone nella letteratura. Non sono poche, infatti, le citazioni meta-letterarie: dal Moby Dick di Herman Melville (come nello scambio di battute Welles-Mank «Pronto a cacciare la balena bianca?», «Chiamatemi Achab»), al Cuore di tenebra di “Joe” Conrad (come lo definisce amichevolmente il nostro protagonista), che impegna il giovane Welles – interpretato da Tom Burke – in un film rimasto incompiuto, per arrivare al Don Chisciotte di Cervantes, di cui Mank veste i panni per lottare contro i mulini a vento della cinematografia hollywoodiana. Proprio il Don Chisciotte, tra l’altro, è stato il progetto ambizioso che Orson Welles non ha portato a termine, e a cui i Fincher hanno probabilmente voluto far riferimento.
Lo stile del terzo biopic firmato David Fincher è chiaro già dalle prime battute: film devoto a uno stile cinematografico della prima metà del Novecento, ma allo stesso tempo profondamente attuale. I movimenti di macchina sono statici, precisi ed essenziali, e calcano le tecniche di ripresa delle pellicole anni Quaranta, omaggiando spesso il fratello maggiore Citizen Kane (diversi i parallelismi tra le due opere, come il lento carrello verticale della prima scena che ci riporta al «No trespassing» di Welles; il dettaglio della mano penzoloni di Mank dopo aver ingenuamente bevuto del sonnifero è un evidentissimo riferimento alla sfera di neve che Charles Foster Kane lascia cadere sul letto di morte; il campo largo e dal taglio obliquo della cena a casa Hearst richiama la spiazzante grandezza e la solitudine del mausoleo-Xanadu quando, nella scena conclusiva della pellicola del 1941, la macchina da presa si allontana con uno zoom all’indietro). Il montaggio costituisce un altro chiaro riferimento al sopracitato film di Orson Welles, indiscusso precursore del flashback nella settima arte: un ping-pong temporale tra passato e presente che lascia respiro allo spettatore, un espediente tramite cui è possibile mettere in ordine i pezzi della narrazione. Infine, la scelta del bianco e nero, linguaggio cinematografico per eccellenza, va a coronare l’opera – la fotografia, sublime e luminosa, è di Erik Messerschmidt, con cui David Fincher ha già collaborato per la serie tv Mindhunter targata Netflix. E ancora le finte bruciature di sigaretta (autoreferenziali da parte di Fincher, si veda Fight Club), il cambio di rullo della pellicola analogica riprodotto in digitale, il suono incisivo e sporco, ma en pendant col resto. Il film procede con ritmo calibrato e martellante anche grazie allo scambio di dialoghi elettrico e fittissimo – forse troppo – e alla colonna sonora pressoché ininterrotta che sposa ogni scena alla perfezione – ottimo lavoro da parte di Trent Reznor e Atticus Ross.
Mank è contemporaneamente un Don Chisciotte e un Capitano Achab dei giorni nostri: lotta contro i mulini a vento mentre naviga in cerca della balena bianca (proprio la sceneggiatura di Citizen Kane). Nonostante l’austerità di Welles, considerata da Mank la Nemesi del sistema, il nostro protagonista riuscirà a imporre la sua firma sulla «migliore [sceneggiatura] che abbia mai scritto».
Citizen Kane verrà nominato a nove premi Oscar, di cui ne vincerà solo uno, appunto per la miglior sceneggiatura originale. Né Mankiewicz né Welles parteciperanno alla premiazione, ma alla domanda: «È deluso per aver vinto un solo Oscar?», il regista risponderà: «Beh, questa, mio caro amico, è Hollywood». Seguirà un augurio per il suo collaboratore: «Mank, you can kiss my half!», letteralmente «Mank, puoi baciarmi il cuore!»
Non ci è dato sapere se siamo davanti a un futuro classico della cinematografia, ma di certo Mank è un film di cui si parlerà ancora a lungo. Denso di inquadrature memorabili e di acuta lucidità sul passato e sul presente, il film si chiude con un commosso Mankiewicz-Oldman che stringe una sudata, e sacrosanta, statuina. Chissà che non rivedremo, tra qualche mese, la stessa scena; e chissà che Hollywood non ne riconoscerà il merito anche a Jack Fincher, sceneggiatore di questo ennesimo ottimo capitolo nella storia del cinema.
Classe ’96. Altamurano – celiaco – a Roma. Dal suo breve elenco di sogni irrealizzabili: essere Steinbeck e aver scritto Furore; essere cordialmente invitato a far parte del realismo viscerale (e, naturalmente, accettare); suonare la chitarra come Paco de Lucía; diventare immortale e poi… morire. Nel tempo libero scrive poesie, ma non ditelo a nessuno. Se mai rifiuterà una buona birra, avrete davanti il Gerry sbagliato.