Il (poco) dannato caso del Signor Emme

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Nessuno vuole essere dimenticato: dalla propria discendenza, dalla compagna di banco delle elementari, i più ambiziosi dalle generazioni future, i meno da un ex. E tutti lasciamo tracce evidenti, non sempre consci che il motore delle nostre azioni è il desiderio di essere ricordati. Lo so, stavate pensando all’amore, che facciamo tutto pescopà, e invece spoiler: questo non è un film di Christopher Nolan.

Proprio sulla memoria Massimo Roscia impernia il suo Dannato caso (Exòrma edizioni), ricercando indizi che strappino alla censura e restituiscano alla storia Paolo Monelli, il giornalista-giornalaio del primo Novecento protagonista assente del romanzo.

Per ogni intellettuale caduto in oblio c’è sempre un ricercatore pronto a scartabellare tra gli archivi, ma Roscia è prima di tutto un narratore e adora mescolare finzione e realtà. Quindi ecco che da un fondo della Biblioteca Baldini di Roma nasce il road trip di una famiglia atipica: Carla, un’ex giornalista d’inchiesta, i suoi due gemelli di undici anni, uno zio in tonaca che si fa chiamare Giordano e un’entità non ben identificata, che tutti chiamano Buf.

La compagnia viaggia su un pullmino per tutto il continente europeo alla ricerca di lettere, oggetti e foto del signor Emme da sottoporre al vaglio della Pontificia Congregazione dell’Indice delle vite cancellate e delle opere proibite. Chi legge scova gli indizi e ricompone, insieme ai protagonisti, i tasselli dello scenario culturale in cui ha vissuto e operato questa figura.

Così l’autore, senza scrivere una biografia o un saggio – per intenderci, è un tentativo diverso da quello che fa Claudio Giunta con Labranca – ci restituisce il pensiero e l’attività di un intellettuale eclettico, Paolo Monelli, che tra la prima e la seconda metà del Novecento scrive per i quotidiani nazionali più importanti, è fine intenditore di cibi e di cocktail e soprattutto strenuo difensore della lingua italiana. Ci ricorda qualcuno? Massimo Roscia non ha scritto per caso La strage dei congiuntivi (Exòrma, 2014)? Poi, se Monelli sia legittimamente scomparso dai radar della critica letteraria è altra questione.

Ma torniamo al romanzo e tentiamo di inserirlo in un genere. È un giallo a tratti picaresco, un’apologia di Monelli ma anche un esercizio di stile à la Queneau. La narrazione viene portata avanti da tre punti di vista differenti. Alla voce del gemello numero uno, il bambino Prodigio, sono affidati i riferimenti colti, le citazioni filosofiche, tenuti insieme da un linguaggio aulico e raffinato. Fa da contraltare la narrazione del fratello «un po’ tocco», grammaticalmente scorretta, infantile – a volte cringe, avrei detto, se l’autore non odiasse i forestierismi. Eppure nei suoi discorsi trovano spazio anche i tratti più esilaranti. Come i malapropismi, dall’ambito culinario («quattro sassi in padella») a quello della moda («pantaloni a zanna di elefante»), che rendono il secondo gemello estremamente divertente. Ai due bambini si alterna Buf, una sorta di archivio intelligente della documentazione raccolta, escamotage per inserire intere citazioni (o presunte tali) dell’opera di Monelli. Roscia infatti dissemina falsi d’autore tra gli scritti originali, sfidando il lettore a riconoscerli. Di certo non dev’essere stato difficile indossare gli eleganti pantaloni di un autore così affine a lui: «Abilissimo uso della penna, gusto raffinato ed esclusivo per le suggestioni della parola, caratteristico ricorso ad aggettivazioni essenziali e rivelatrici» (questa sovrapposizione, tra l’altro, è indicativa di quanto lo stesso Roscia tema la damnatio memoriae). Pur non essendo narratore diretto, anche il personaggio di zio Giordano ha una lingua riconoscibile e ben costruita, che ricalca la prosa filosofica di Bruno, con le sue “d” (eu?)foniche e i detti in latino che, in bocca al gemello più ingenuo, spesso suscitano un effetto comico:

«– In marcia, Carla. Si va a Parigi. – E poi in napoletano stretto aggiunge: – Alea iacta est».

L’autore si diverte a saltare da un registro all’altro ma la sua cifra stilistica è l’accumulo: immagini e paesaggi sono richiamati da scrittori e artisti talmente emblematici da suggerire al nostro immaginario una sorta di collage. Eppure l’accatastamento di nomi, lontano dall’essere evocativo, sembra piuttosto uno sfoggio di erudizione, come in questa descrizione di Parigi:

«Rue de Vaugirard, il Jardin du Luxembourg, place de l’Odéon… Mi sembra di camminare in compagnia di Voltaire, Victor Hugo e Marcel Proust, con la sua bella orchidea bianca all’occhiello».

Non mancano rimandi culturali molto pop, che disorientano e al contempo confortano: passando da Gomorra a Beccalossi, non capiamo mai in che epoca siamo o come tutta la tv andata in onda dal 1970 in poi sia stata assorbita da un bambino di undici anni, ma ci sentiamo al sicuro perché, verosimili o meno, noi quei riferimenti li cogliamo tutti e ce ne compiacciamo.

Spesso anche i piani spaziali sono confusi: il pullman segue una cartina di cui il sovranismo ha disgregato i confini (confini che somigliano molto a quelli di tre o quattro secoli fa), dove di nuovo lo Stato pontificio domina al centro della penisola e Milano è la capitale del Protettorato cinese della Longobardia. Viene da chiedersi, come farebbe Simon Reynolds: siamo così afflitti da retromania che non riusciamo più a immaginare un futuro se non con i tratti esasperati del presente? Tuttavia, in questo caso, piuttosto che di distopia è meglio parlare di ucronia.

In questa storia alternativa, per esempio, la fotografa Ghitta Carell è ancora in vita e i protagonisti possono raggiungerla in un’enclave di femminismo e resistenza: la Maison des Babayagas. Si tratta di una casa di riposo – esiste davvero – che ospita anziane arzille, dal passato avventuroso. Tra tutte Charlotte, un tempo Charles, che intreccia un particolare legame affettivo col secondo dei gemelli. È qui, in questo fortunato esperimento di coabitazione sociale, dove tuttə vorremmo invecchiare, che l’autore suscita l’adesione emotiva più autentica nei confronti dei personaggi. 

D’altronde come non provare simpatia per Carla, paladina dei diritti degli ultimi e ossessionata dal riscatto dei dimenticati, per lo zio Giordano ateo, anticlericale, che ancora puzza di bruciato, o per il gemello preso da tutti per scemo, che si rivela sempre la chiave di volta del romanzo: grazie alla sua ingenuità spesso l’azione esce dallo stallo, il mistero si risolve e il pericolo si scampa. A questo punto, però, mi chiedo se sia più efficace raccontare di problematiche sociali con apologhi edificanti e manichei, o con storie in cui i confini sono meno netti e i personaggi controversi. Un esempio: ho capito qualcosa in più sul razzismo dopo aver visto Green Book o BlacKkKlansman? Per carità, Green Book è un film che di per sé lancia un messaggio condivisibile, ma volete mettere il cinismo di Spike Lee?

In altre parole, se volete una lettura godibile ma rassicurante, aprite le pagine del (poco) Dannato caso del signor Emme.