Utopia, il complottismo post-eventum

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Utopia (2020) è il tentativo americano di riportare alla luce la serie tv britannica uscita originariamente nel 2013. Opera dalla genesi travagliata e produzione controversa, ha tenuto sulle spine gli appassionati, che ne attendevano un sequel o remake fin dal 2014, quando HBO ha provato a ingaggiare il binomio Fincher/Flynn, per poi approdare ad Amazon Prime Video, piattaforma che si è servita solo della seconda dei due, la sceneggiatrice statunitense Gillian Flynn (Gone girl), per iniziare le riprese nel 2019.

Utopia non è un brutto prodotto ma risente molto del paragone con la madre britannica: va considerato infatti che il confronto è d’obbligo, dal momento che la nuova trasposizione fa letteralmente le veci dell’originale (da qui in poi Utopia UK la versione inglese e Utopia USA quella americana).

A suo tempo, Utopia UK apparve innovativa per l’indole feroce, la crudezza delle immagini e la multi-stratificazione scenica, con passaggi repentini dalla comicità al catastrofico, dall’ilarità all’inquietudine. Non si trattava infatti soltanto di una serie tv su un gruppo di diseredati sulla cui banale ordinarietà il complottismo getta una luce di geniale perspicacia (tanto da trasformarli negli unici esseri umani in grado di comprendere un piano di dominio mondiale), ma anche di uno spaccato preciso del momento storico. Il 2013 era l’anno del deep-web, delle scie chimiche, dell’Ebola e dello Zika (virus troppo esotici per pensare che avrebbero anche solo toccato l’occidente, ma perfetti per una teoria del complotto coi fiocchi). La nostra, invece è l’era post-internet dove l’arte della memetica prolifera e ingolfa la macchina produttrice della facoltà immaginativa. Questo, nello specifico, è il momento storico in cui politica e biologia sono definitivamente indistinguibili: la sopravvivenza della specie, che dovrebbe essere preoccupazione della scienza, diventa appannaggio dell’istituzione, una struttura che arriva a un livello di profondo dominio sull’individuo, questa volta perfettamente percepibile. Quello che vediamo in Utopia USA è solo lo spettro di un passato non troppo lontano. 

Utopia USA ha avuto, inoltre, la sfortuna di uscire durante un periodo nefasto in cui la realtà è già di per sé grottesca, senza che nessun contenuto di finzione debba spingere oltre la nostra fantasia. La didascalia che accompagna ogni episodio e spiega come non sia stato ispirato dall’attuale clima pandemico (essendo le riprese iniziate e concluse prima del contagio) ci offre lo spunto per discutere una rimodulazione necessaria, ora più che mai, del genere distopico.

Il potere della rappresentazione in Utopia USA conduce lo spettatore verso una riflessione senza sforzo – non dando tuttavia la sensazione di un concetto confezionato per essere somministrato al pubblico – che rischia di appiattire il richiamo a un’identificazione con il sé. Si tratta perciò di ridisegnare il processo di identificazione per ricostituire la sua originale tensione drammatica: quando la finzione è così vicina al reale tanto da sembrare una sua scimmiottatura, la distopia perde di intensità e ragion d’essere. L’effetto di Utopia USA è infatti quello di una profezia che si autoavvera – il che annoia terribilmente – o quello di una farsa ai limiti dell’offensivo.

Non si tratta solo dei tempi sbagliati, la sfortuna della serie è legata anche alla sua incapacità di innovare un contenuto già brillante, ricalcando pedissequamente le sue mosse, e dunque depotenziandolo. In questo affannoso inseguimento è percepibile la volontà emulativa dei creatori di Utopia USA, che hanno di fronte un pubblico più avvezzo alla crudeltà (una delle critiche più dure mosse a Utopia UK fu proprio la violenza eccessiva e il linguaggio scurrile) e forse, anche per questo motivo, meno suscettibile allo sconcerto; motivo per cui si conserva quell’intensità della violenza ma in una versione meno fresca.

Nella seconda metà della serie si registra una ripresa che per il suo dinamismo restituisce una, seppur piccola, dose di originalità: Utopia UK spiccava per la sorprendente fissità (nonostante l’arco narrativo ristretto), mentre Utopia USA si discosta da queste dinamiche per accelerare il ritmo degli eventi, riuscendo quantomeno a risollevarsi durante gli ultimi episodi. Tutto il compartimento dei cattivi americani supera addirittura i villain inglesi, essendo i primi meglio caratterizzati e approfonditi. Il nuovo cast è impeccabile, anche se non basta la presenza formidabile di Sasha Lane (il cui magnetismo è indiscutibile) a sostenere l’intera esperienza. Il resto degli interpreti è perfettamente equilibrato in un’esecuzione corale che fa rimpiangere ancora di più l’occasione mancata.

Utopia USA, in definitiva, sfrutta quelli che sono i motivi già testati (e riusciti) della parente britannica, ma rispetto a questa manca di audacia; di certo non ha aiutato il troppo tempo trascorso tra la decisione di farne un remake e la sua effettiva realizzazione, e questo insegna quanto sia importante il contesto in cui un prodotto viene calato (a maggior ragione se il genere è distopico). Al netto di ogni analisi Utopia USA ha però il pregio di poter stimolare una riflessione più ampia sulla capacità di innovazione, sulle possibilità di sconcertare e meravigliare; pone l’accento sull’esigenza di creare nuovi percorsi e nuovi temi che ci colgano impreparati, siano essi di pura fantasia o terribile realtà. Nell’era post-pandemica serviranno ben altri motiv per terrorizzare e affascinare l’occidente.