I romani possiedono un dono unico al mondo: la consapevolezza delle cose ultime. Sanno che nella città eterna ogni cosa è già accaduta. Ce l’hanno nel sangue, questa consapevolezza, e viene fuori soprattutto quando piove. «La pioggia a Roma ricorda a tutti che la modernità è un battito di ciglia nell’infinito svolgersi del tempo», lo stesso battito che è servito a un padre per carpire al figlio una confessione che avrebbe cambiato le vite di molti per sempre.
La città dei vivi (Einaudi, 2020) è l’ultima, magnetica opera di Nicola Lagioia, più di quattrocento pagine da ingoiare dimenticandosi di dormire. Il libro è una miscellanea di generi, tra cui il giallo, l’articolo di giornale, l’intervista e la biografia, fusi in un romanzo ibrido che avrebbe tutti i crismi per diventare un caso editoriale. Il libro racconta dell’omicidio avvenuto a Roma il 4 marzo 2016, la notte in cui il ventitreenne Luca Varani venne torturato per ore e ucciso da Manuel Foffo e Marco Prato. Il romanzo di Lagioia è anche una documentazione acuta di dettagli poco conosciuti sull’omicidio, a cominciare dalle vite dei tre ragazzi protagonisti.
Manuel Foffo è il personaggio attorno al quale la storia comincia a dipanarsi; tra la confessione dell’allora quasi trentenne, il suo arresto e la condanna si allarga un cono d’ombra in cui entrare significa sancire un’alleanza con l’inspiegabile, accettandone conseguenze e rivelazioni centellinate goccia a goccia. La sostanza del libro sta tutta qui: non è stato affatto necessario estorcere una confessione a Manuel né al suo partner, Marco, per giungere al cadavere di Luca, visto che è stato Manuel stesso a rilasciarla per primo; l’abominio – la cui risonanza mediatica appaga tanto i cultori del moralismo borghese quanto telegiornali e talk show – giace in quell’ombra attraversata da Manuel e Marco, dalla quale non esiste possibilità di ritorno.
La mattina del 5 marzo, Manuel Foffo è diretto in Molise per il funerale dello zio materno, assieme alla sua famiglia. È nella macchina del padre, Valter, un uomo a capo di un’impresa familiare rispettabile, all’interno della quale non è possibile manifestare incertezze – quelle che Manuel esperisce invece nel quotidiano e che confliggono con le aspettative del genitore. Ma il figlio appare in macchina tramortito da qualcosa di più grave del solito che il padre non riesce a comprendere, finché non confessa: «Abbiamo ucciso una persona».
La notte del 4 marzo, in una stanza dell’hotel San Giusto di Roma, la canzone Ciao amore, ciao, nella versione di Dalida, risuona assordante dalle pareti. Si scopre che, al suo interno, un ragazzo ha appena tentato il suicidio con cinque boccette di sonnifero. Quando i carabinieri fanno irruzione, scorgono sul pavimento un corpo inerme ma ancora vivo, dal quale riescono a tirar fuori un nome: Marco Prato. Sulla scrivania vengono poi trovate cinque lettere d’addio scritte dal ragazzo, da cui riecheggiano parole di smarrimento: «… Sto male o forse sono sempre stato così. Ho scoperto cose orribili dentro di me e nel mondo. Fa troppo male la vita: per come ho imparato a comprenderla mi è insopportabile… Perdonatemi… Non riesco… Sono stanco e una persona orribile…».
«Contando gli omicidi che si commettevano a Roma, si sarebbe detto che non era una città così pericolosa. Era violenta sul piano psichico. Muovendosi tra i suoi immensi municipi si respirava un’aria tesa, rabbiosa, capace di ispirare nei più balordi una condotta scriteriata e al tempo stesso la resa totale. Sembrava che perfino la violazione della legge non puntasse a sovvertire l’ordine ma a ribadire un grottesco ristagno. I reati consumati negli ambienti criminali spandevano un’aria di dissesto generalizzato. I delitti tra coniugi trasudavano impotenza. Negli omicidi tra consanguinei (padre uccide figlio a fucilate, fratello prende sorella a colpi d’ascia) ribollivano rancore e frustrazione. Quella sera però, al decimo piano di via Igino Giordani, sembrava che tutta la disperazione, il livore, l’arroganza, la brutalità, il senso di fallimento di cui era piena la città, si fossero concentrati in un unico punto».
Gli inquirenti non fanno fatica a raccogliere indizi e informazioni, e sembra che dall’inspiegabile la verità venga in superficie con immediatezza, o quasi. I profili psichiatrici degli omicidi sono distintivi di due personalità opposte: Marco Prato, che nella vita è un pr di spicco della movida gay, è un seduttore. Secondo quanto riportato dalla psichiatra, all’indomani dell’omicidio, «non si evidenzia un orientamento depressivo dell’umore del paziente, per quanto non sia del tutto ristabilito, appare lucido e ben orientato. Non si evidenziano idee di colpa o di autoaccusa, né sentimenti di vergogna o disperazione. Il paziente mantiene un’adeguata stima di sé». Manuel, di contro, è profondamente remissivo e succube della figura paterna, per la quale nutre un ambiguo sentimento di odio e rivalsa. Manuel e Marco si incontrano per caso la notte di Capodanno, hanno un rapporto sessuale, che Manuel conferma a bassa voce agli inquirenti. Questo il primo nodo che renderà le loro vite inscindibili: Marco realizza un video di quel rapporto e Manuel ha paura che possa diffonderlo. Entrambi, inoltre, hanno sempre fatto uso di cocaina.
«Quando è arrivato Luca è come se fosse scattato un tacito accordo tra me e Marco», disse Manuel.
«Un tacito accordo per fare cosa?»
«Era come se quella cosa che c’era tra me e lui… ecco, vede, era ancora viva».
Luca Varani è un ragazzo di ventitré anni, figlio adottivo di una madre e un padre prodighi di devozione genitoriale. Un giovane bello e dal sorriso contagioso, dipendente in un’officina vicino casa, fidanzato con Marta Gaia da quando entrambi avevano quattordici anni; Luca è in una cronica precarietà economica e conosce alcune persone, di cui sanno poco anche gli amici più stretti, tramite le quali racimola denaro in modi ritenuti poco ortodossi dall’opinione borghese. Si riunisce spesso con alcuni amici a Battistini, sede del capolinea nord-ovest della metro A; le sue frequentazioni sono antitetiche a quelle di Marco e Manuel, che appartengono a due distinte famiglie della borghesia romana. Marco, soprattutto, ostenta una certa altezzosità che Manuel, da parte sua, non condivide, essendo succube della pressione che Valter Foffo esercita su di lui «perché realizzi qualcosa nella vita». Manuel ha infatti lasciato Giurisprudenza per Economia sotto pressione del padre, e si rivela un ragazzo appassionato e dimesso: legge molto, ha sviluppato un’app che è sicuro gli porterà notorietà, e approfondisce una serie di attitudini che, tuttavia, non bastano ad accontentare le aspettative paterne; legato a un’immagine familiare asfittica e poco incoraggiante, reputa i Foffo gente rispettabile e, ça va sans dire, estremamente virili.
In un climax ascendente di oscenità, contornato da una Roma senza sindaco e sommersa dall’immondizia, dai gabbiani e dai ratti, Lagioia approfondisce la progressività di un omicidio che i due artefici sembrano subodorare già prima della sua attuazione, mascherando i personali istinti – calibrati da ragionamenti illogici – dietro una coltre di abuso di stupefacenti, ispessitasi negli anni.
All’indomani del delitto, sembra essere lo stesso Manuel a chiedere agli inquirenti di aiutarlo a comprendere il suo gesto, in apparenza non dettato da alcuna motivazione o legame con la vittima. Il movente assoluto parrebbe essere un nichilismo schiacciante. Manuel non conosceva Luca – a differenza di Marco, che l’aveva definito un marchettaro. Potendo contare su una padronanza di linguaggio quasi ipnotica, una robusta disposizione all’autoindulgenza e un’intelligenza acuta e polimorfa, Marco potrebbe aver pensato a Luca come qualcuno di cui usufruire senza preoccuparsi di eventuali conseguenze; distorcendo la natura di un ragazzo per i suoi tornaconti, giustifica il suo agire in previsione di future ricompense personali, a detrimento di chiunque metta piede sul suo percorso.
L’appropriazione (auto)giustificata di una vittima passa per diversi fattori: in primo luogo, l’estrazione sociale; secondariamente, il profilo lavorativo e, terzo, la sua capacità di sopportare le manipolazioni esterne del carnefice. Luca, secondo le convinzioni bipolari e narcisistiche di Marco, sarebbe stato il capro espiatorio perfetto per quella cosa che iniziava a serpeggiare tra lui e Manuel; Marco dava spesso a Luca il denaro che questi cercava con frequenza, soddisfacendo così i suoi bisogni – come portare fuori a cena la sua ragazza –, a patto di accontentare qualsiasi richiesta di Marco e, quel 4 marzo, anche di Manuel, divenuti un’endiadi confusa nel buio di coscienze messe a tacere.
Luca Varani ucciso da gay pervertiti.
Froci demmerda #lucavarani.
Facciamogli pure adottare i bambini a queste merde #lucavarani.
«Quindi lei è omosessuale».
«Sì, ma più che omosessuale – precisò Marco, – io sono attratto dagli eterosessuali. Ho avuto tante relazioni con omosessuali. Ma la mia vera attrazione è verso gli etero. Le assicuro che per Manuel è più facile pensare di aver ucciso qualcuno per il gusto di farlo che immaginare di essere gay».
Quando a intervenire nella storia sono i genitori degli accusati, le posizioni dei padri divergono diametralmente. Valter Foffo concede agli occhi dell’opinione pubblica un profilo di impeccabile padre e imprenditore, e la quieta compostezza di chi non riesce a capacitarsi di quanto accaduto. Ledo Prato, uomo di cultura vicino alle istituzioni, in un post sul suo blog accompagna il nome (mai citato) del figlio a una visione cattolico-remissiva dei peccati del mondo, figlia di un’innocenza primordiale delle persone macchiate da atti oscuri, per i quali sarebbe stata necessaria una mediazione divina. A un provato Valter Foffo, una giornalista riesce a tirar fuori alcune considerazioni alquanto opinabili:
«Sta dicendo che suo figlio è una vittima?»
«Stiamo aspettando gli esami tossicologici, sono convinto che la cocaina, e chissà quali altre sostanze, abbiano contribuito ad annebbiare la lucidità di mio figlio, che però non è gay».
«Meglio drogato che omosessuale? Dagli atti risulterebbe che suo figlio ha avuto un rapporto sessuale con Marco Prato poco prima di commettere l’omicidio».
«Non è vero neanche questo. Hanno avuto un solo rapporto sessuale, il 31 dicembre. A noi Foffo non ci piacciono i gay, ci piacciono le donne vere. E mio figlio non è da meno».
L’idea che Luca si prostituisse suscitava repulsione, la si rifiutava perché, secondo le visioni alienate di pubblico, amici e parenti, avrebbe messo vittima e carnefici sullo stesso piano. In qualche modo, si dovevano tenere separate le due entità, che corrispondevano alla manicheistica antitesi tra bene e male, ingenuità e perversione, bontà e cattiveria. Ma la faccenda si scoprì essere di non facile analisi, a cominciare dall’approfondimento della perizia psichiatrica di Marco Prato, ragazzo dall’adolescenza stereotipata, omosessuale dichiarato fin dal liceo e sovrappeso. Dopo un primo tentativo di suicidio, intraprende un percorso di rinascita, perde peso, si dedica al culto della bellezza, si proietta nella comunità gay romana. L’anamnesi psichiatrica parla di personalità premorbosa, senso di vuoto, instabilità dell’umore, approccio intellettualizzante delle emozioni (meglio parlarne che viverle), ogni azione è atta a proteggersi da qualcosa. Traumi infantili, forse, o l’assenza di una figura materna – viva sì, ma ininfluente – o un’insoddisfazione atavica e famelica, a cui non rimaneva che ingoiare opportunità sempre nuove e sempre a portata di mano. A furia di esagerare, di forzare confini, di superare limiti, Marco Prato potrebbe essersi trovato di fronte a un vuoto definitivo che aveva sottratto il senso a qualsiasi cosa.
L’apparente perfezione delle due famiglie ingigantisce le finte innocenze dei Foffo e dei Prato; tutto si rivela un siparietto destinato a disintegrarsi man mano che le indagini proseguono, mentre i genitori di Luca pretendono giustizia contro due ragazzi che, a detta di Giuseppe Varani, si sarebbero divertiti col corpo di suo figlio, prima di ucciderlo.
La personalità istrionica e adattativa di Marco convince Manuel a fare cose che non pensava di poter fare o che aveva bisogno di essere stimolato a fare, carpendo a sua volta scenari che potessero allontanarlo dalla sua stasi esistenziale e dal fantasma vivo del padre. I due passano i primi giorni di marzo a drogarsi senza sosta nell’appartamento di via Igino Giordani, a casa di Manuel; le disinibizioni si acuiscono e così anche un potenziale caleidoscopico di desideri inespressi.
Si parla di ritiro psichico, una sorta di stato mentale che porta il paziente a estraniarsi da una realtà per lui intollerabile, che, nel caso di Marco, corrispondeva a una debole o mancata percezione di un sé maschile dovuta a problemi dell’infanzia o al rapporto coi genitori. Un ritiro in una dimensione estatica, che avrebbe avuto nella perversione la sua via di accesso.
«Non appena mi vide, Luca iniziò a riempirmi di complimenti, disse che ero affascinante. A me fece molto piacere. Certo, intellettualmente è probabile che non ne avessi stima. Un ragazzo che cresce in periferia, che spaccia, che si prostituisce, be’… questo è un soggetto che una persona come me dovrebbe temere, non considerare un debole. Uno come me potrebbe pensare che uno come lui possa essere armato, o comunque violento. Pensavo che Luca per soldi avrebbe fatto qualunque cosa. Ero a conoscenza della sua situazione economica. Sapevo che aveva problemi in famiglia. Luca con me si confidava».
Una volta che l’amicizia tra Marco e Manuel inizia a consolidarsi, Marco non lesina nessun giudizio su come, a suo dire, funzioni la sessualità. Giocando con la sprovvedutezza di Manuel, Marco lo convince che ogni etero ha una discreta componente omosessuale. Potrebbero aver avuto diversi rapporti sessuali, ma la ricostruzione è fatta su conferme e smentite reciproche di entrambi, che iniziano a incolparsi a vicenda sull’esecuzione dell’assassinio, reso possibile da un consumo raccapricciante di cocaina.
«Ripresero a pippare. Manuel lo guardava, guardava Marco, riconosceva la cosa. Grazie alla cocaina tutto era ricominciato come prima, come due mesi fa, come a gennaio. Il magnetismo. Un’onda bianca e luminosa. Adesso si capivano di nuovo».
«Mentre parlavamo, Manuel aveva gli occhi irriconoscibili», disse Marco.
Secondo Manuel era invece Marco, in certi momenti, ad avere «lo sguardo criminale».
«Fu allora che mi parlò degli stupri», disse Marco.
«Fu allora che gli feci la finta dello stupro», precisò Manuel.
Nella versione di Manuel, Marco gli mise una mano sulla spalla: «Su, avanti, a me puoi dire tutto. Qual è la tua fantasia più inconfessabile?» Allora Manuel, che non aveva mai desiderato stuprare nessuno in vita sua, tirò fuori l’idea più estrema che riuscisse a concepire.
«Mi piacciono gli stupri».
Una volta arrivato a casa di Manuel, Luca viene drogato con l’Alcover, un farmaco che aiuta a smettere di bere. Se si mescola l’Alcover con l’alcol, si rischia di collassare e si ottiene l’effetto del Ghb, anche detto droga dello stupro. Luca si sente male, cade a terra, viene ferito più volte da Marco e Manuel, che, drogati da giorni, hanno interrotto qualsiasi legame con la realtà. Luca si risveglia dal trauma, viene ferito e torturato ancora sotto gli occhi increduli dei carnefici, ai quali non rimane che ucciderlo.
«Mi ero andato a rifugiare di nuovo in soggiorno, – disse Marco, – me ne stavo sul divano con un braccio intorno alle gambe, volevo finisse il più in fretta possibile. Manuel urlava dall’altra stanza: vieni qui, vieni qui, aiutami!»
E Manuel: «Soffriva tantissimo ma non moriva, non moriva! Voleva vivere tantissimo, non sapevamo come fare».
Da un lato, i carnefici redigono il proprio testamento di odio sotto la spinta di una comunità avida di sfamare le proprie frustrazioni e incapace di vederli nella loro emotività e complessità psichica; dall’altro, alla vittima viene negata un’inopinabile empatia a causa della straordinarietà della sua sorte.
Il linciaggio del borghese facile all’impressionabilità, l’odio dell’utente di una qualunque piattaforma sociale e la disistima del pubblico televisivo – affamato di spettacolarità per creare un distacco tra esso e l’evento aberrante – consumano la tragedia in un’equazione fin troppo semplificativa. A fronte di una privazione di dignità emotiva e psicologica così evidente, si dovrebbe semplicemente voler bene alla vittima e, di contro, non distanziarsi troppo dal carnefice che potrebbe vivere in ognuno di noi. Nell’immaginario che è divenuto realtà, agiscono senza criterio reazionari a capo di istituzioni pubbliche, telespettatori facili allo scandalo, gente comune che risolve una faccenda di un abisso quasi insondabile con precipitose convinzioni dettate dall’impellenza del biasimo sociale, necessario per vivere la catarsi che segue a ogni delitto e consentire una rinascita comunitaria.
Senza eclissare il sacrificio di Luca a fronte dei processi mediatici dei suoi carnefici, appare chiaro che l’odio nei confronti di Marco e Manuel sottintende un lascito comportamentale di stampo totalitario sempre redivivo, all’occasione, nel tessuto sociale italiano: la pronta risposta all’esecuzione – di qualunque natura essa sia – basata su presupposti inconcludenti che soddisfano l’emotività, anziché un naturale bisogno di giustizia; invece di portare l’attenzione sui motivi reali, per quanto insondabili, dell’omicidio, e sulla natura fragile di due ragazzi di ventotto anni, l’opinione pubblica, come una Fama virgiliana, vola sulle nostre teste e attende un verdetto impellente e imprescindibile, sempre che, nel frattempo, non l’abbia già espresso lei.
Chiamatemi Zac. Classe 1992, viene da Zancle e non perderà occasione di rimasticare grecismi con tutto lo snobismo possibile, lo stesso che si riserva di usare con quelli che non hanno mai letto Dostoevskij, Melville e Genet. Sa anche essere molto simpatico, soprattutto coi gatti, per i quali inventa un vocabolario quasi ogni giorno. Ha un profondo affetto per Bach, il pianoforte e il mare, che ha visto per anni dal balcone di casa sua sognando di essere Odisseo (ma ha ancora molta paura di Polifemo). I posteri diranno che il suo nome fu scritto nell’acqua, lui si augura almeno che non sia benedetta.