Il 22 ottobre esce su Netflix Kadaver, secondo lungometraggio del regista Jarand Herdal e primo titolo norvegese a far parte del catalogo Originals, fiore all’occhiello della casa produttrice americana. La piattaforma ci propone così un horror psicologico ambientato in un futuro post apocalittico dove al centro di tutto sembra trovarsi uno spettacolo teatrale.
La storia è ambientata in un mondo distrutto da un conflitto termonucleare. Una famiglia, composta da Jacob, Leonora e dalla loro piccola Alice, si rifugia in una casa diroccata; di questa però finiscono ben presto prigionieri, terrorizzati dalla lotta urbana per la ricerca di cibo. Un giorno passa un carretto pubblicitario, con tanto di jingle e lucine. Leonora e Alice si avvicinano al banditore che vende biglietti per una cena e uno spettacolo teatrale organizzati dal signor Mathias, gestore di un lussuosissimo albergo che si erge in mezzo alla città. Leonora, spinta non solo dalla fame ma anche dal richiamo del proprio luminoso passato da attrice teatrale, compra tre biglietti. A Jacob la situazione non piace, ma Leonora lo spinge a fidarsi. La famiglia arriva all’albergo e viene fatta accomodare nell’ampia sala da pranzo dell’hotel. Dopo che la platea si è rifocillata di succulenti pasticci di carne, Mathias sale sul palcoscenico della sala per illustrare la serata: lo spettacolo avrà luogo all’interno di tutto l’albergo, il pubblico si distinguerà dagli attori indossando anonime maschere di ottone, ogni spettatore sarà libero di seguire la storia che più lo intriga. La famigliola si aggira per un po’ lungo l’enorme struttura, passando di stanza in stanza così come di scena in scena. Sempre più agitata per l’inquietudine dell’esibizione, la coppia di genitori finisce per perdere la piccola Alice.
A questo punto, la scomparsa della bambina dovrebbe accompagnare lo spettatore verso una rivelazione disturbante, un colpo di scena, ma niente di tutto ciò accade. La pellicola norvegese gioca a carte scoperte e l’unica cosa non prevedibile è comprendere come Leonora, protagonista a tutti gli effetti, riuscirà ad evitare il tritacarne. Sì, perché se in un film horror e post apocalittico si muore di fame, difficilmente si parlerà di ingegneria genetica (anche se probabilmente un B-movie con delle pannocchie assassine esisterà da qualche parte), quanto più probabilmente di cannibalismo.
Post apocalisse, teatro e cannibalismo sono il trittico che compone Kadaver. Il primo e l’ultimo si legano bene tra loro ma non propongono nulla di nuovo. Il film ricorda a tratti Delicatessen (1991) – lungometraggio di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro – ma difetta del black humor brillante e della regia allucinata che caratterizzano la pellicola francese; il tono e l’atmosfera forse si avvicinano di più all’americano The Road (2009) di John Hillcoat, ma manca dello spessore spirituale di cui è impregnato quest’ultimo. Se da un lato si può cedere sulla mancanza di realismo, come nel caso degli attori/complici di Mathias che ignorano di essere nutriti con carne umana, dall’altro ci si aspetterebbe qualcosa di più: un cannibalismo capace di maggiore violenza sullo schermo, con tonalità più gore, oppure un’ambientazione post apocalittica in grado di veicolare una critica sociale più elaborata.
Ma Kadaver ha una buona intuizione: non pone l’accento su nessuno di questi due aspetti, motore del terrore è il teatro. Il gancio che trascina le vittime del film al macello è infatti lo stesso che attira il pubblico dietro lo schermo, cliccando sul tasto play.
Quel teatro diffuso e vivificato del padrone dell’albergo, il signor Mathias, è già metafora della nostra società: consumare storie, che siano di finzione o prese dalle vite degli altri, è ormai un bisogno primario tanto quanto assumere alimenti. Gli ospiti radunati nelle stanze o accostati alle porte assistono infatti a piccoli siparietti di vita quotidiana, seguendo ciò che li affascina, incuranti della storia nella sua interezza. Se vogliamo, questo atteggiamento non è molto dissimile da quello impiegato sui social, dove entriamo nelle vite altrui attraverso frammenti accuratamente selezionati e fuori contesto.
Il bisogno di realismo di questo teatro è un altro elemento di riflessione. Mathias rimprovera aspramente i propri attori di non essere «abbastanza credibili». Ma quale branco di disperati morti di fame pretenderebbe una performance di livello? E soprattutto, che senso ha un teatro ultra-realista quando il teatro è finzione di per sé? A rifletterci bene, appare quasi sadico domandare a un attore di rendere la propria sofferenza, le proprie lacrime, il proprio personaggio il più vero e vivo possibili, per il godimento voyeuristico di un pubblico pagante. Basti pensare alla scena finale di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu, dove il successo dello spettacolo dipende dall’atto finale che sovverte la più antica regola del teatro, e nel massimo del realismo possibile il protagonista e l’attore si uccidono con un colpo di pistola, mentre il pubblico, invece di soccorrere l’attore, applaude in estasi l’estremo gesto.
Anche l’uso delle maschere è interessante. Nell’economia del film hanno uno scopo prettamente pratico – distinguere e catturare più facilmente i malcapitati – e la prima e più evidente riflessione è sul ruolo di vittima e carnefice. Non è curioso che sia il pubblico però a indossare maschere e non gli attori? A ruoli invertiti il film avrebbe funzionato ugualmente. Chi è dunque più vivo? Tutti indossiamo una maschera, ma gli attori in scena sono più nudi di chiunque altro, quando davanti a tutti si trovano a umiliarsi e dare loro stessi per il piacere di un pubblico che in sala resta impassibile. Forse qualcuno potrà commuoversi: ma se da attori si guarda la platea si vedranno delle maschere di ottone immobili, in attesa della battuta successiva.
Leonora, dall’alto della sua esperienza e del suo talento come attrice risolverà la situazione proprio grazie alle sue abilità performative, smontando il debole sistema di approvvigionamento di Mathias. Il finale è abbastanza sintomatico dell’uso complessivo fatto del teatro all’interno del film: esclusivamente funzionale all’intreccio. Un peccato, forse, ma aprire il Vaso di Pandora di un tema così vasto avrebbe potuto portare fuori strada.
La pellicola risulta alla fine un horror dagli elementi bilanciati, non troppo cruento da disturbare, non troppo psicologico da annoiare una fetta di pubblico. Un “buon compitino” direbbe il più esigente degli spettatori; ma bisogna riconoscere che, oltre a una regia solida e una fotografia livida e fredda (in pieno stile scandinavo) che dipinge un’atmosfera esasperante, si registra una buonissima prova attoriale da parte del cast.
Durante il lockdown è stato sperimentato il teatro in streaming, così come altre forme di spettacolo casalingo. Ma per una buona fetta del settore la pandemia ha implicato la chiusura dei battenti, perché senza palcoscenico non ci può essere attore. Kadaver ci mostra quanto il teatro e la recitazione siano qualcosa che ci contraddistingue, che ci separa dalle bestie, proprio come ripete Mathias ad ogni suo ospite, o come diceva Marlon Brando parlando della propria professione, ancestrale istinto di sopravvivenza della nostra specie.
Davide Cuccurugnani nasce a Roma il 10 giugno 1994. Ha lavorato come redattore per riviste online nel settore musicale e teatrale. Attualmente si occupa di mettere su carta le centinaia di idee che gli passano per la testa sotto forma di racconti, sceneggiature, drammi teatrali e altri deliri artistici.