«La nostra vita, allo stesso modo di questi dialoghi e di ogni cosa, è stata prefissata. […] Conversando, ho cercato di pensare che è indifferente che ad aver ragione sia io o lei; quel che importa è giungere a una conclusione, e da quale parte del tavolo questa venga, o da quale bocca volto o nome, è il meno».
Questa è l’introduzione a un volume (Conversazioni, Bompiani) di interviste a Jorge Luis Borges che lessi al liceo e non ho mai dimenticato. L’anno successivo vidi Che strano chiamarsi Federico, di Ettore Scola, e l’unica cosa che ricordo è che Fellini non voleva mai andare a dormire, e si offriva di accompagnare chiunque a casa, pur continuare ancora a chiacchierare con qualcuno. Molto più recentemente, pensavo al fatto che due degli scrittori anglosassoni più in voga del momento, Sally Rooney e Ben Lerner, provengono entrambi dai dibattiti competitivi, mentre Roberto Bolaño, l’ho scoperto qualche giorno fa, pare fosse dislessico, e anche se sembra che i suoi problemi riguardassero il distinguere la destra dalla sinistra (chi soffre di questo disturbo oggi viene anche detto: calendiano), non ce lo vedo proprio a sciorinare argomenti retorici tre volte più veloce del normale. Dai tempi del lockdown, poi, ho sviluppato questa preoccupante sindrome che mi costringe a riempire ogni momento di silenzio della mia giornata con un podcast. Sindrome da cui, a quanto pare, non sono riuscito a riprendermi in tempo per il nuovo periodo di forzata vita monastica che ci aspetta. Insomma, c’erano molte cose che mi giravano per la testa riguardo il tema della conversazione, e che mi hanno indirizzato verso Il gusto della conversazione (Il Saggiatore), di Pierre Sansot, 210 pagine, di recente pubblicazione in Italia.
Giudizio espresso in due parole: grossa delusione.
Quello di Sansot mi è sembrato infatti un perfetto esempio di quella che definirei “saggistica per normaloni attempati”, ossia, poco più che un grosso conglomerato di (condivisibili, peraltro) luoghi comuni (cito: «credo nell’importanza delle macrocategorie»). Forse non avrei dovuto aspettarmi niente di diverso, da un autore famoso per titoli quali: Sul buon uso della lentezza (un best-seller, edito sempre dal Saggiatore) o Vivere semplicemente (Pratiche editore) o Passeggiate (Net) e che ha pubblicato il libro di cui parliamo nel 2003, all’età di 75 anni, quando forse cominciava a perdere anche quel poco di tenacia intellettuale e di acume critico che doveva avere avuto.
Una conversazione per Sansot è, prevedibilmente, una pratica senza finalità o agonismo, premurosa e affabile, guidata dal piacere, che ha l’effetto di legare armoniosamente i suoi partecipanti. È però di estrema importanza che si tenga su toni leggeri, perciò si dovranno evitare argomenti divisivi – o troppo personali/profondi – come la religione e problemi esistenziali in genere. I conversatori istrionici e loquaci, anche questo è un chiodo fisso, faranno bene a moderarsi per non accentrare tutta l’attenzione su di loro («la qualità d’ascolto mi pare ancora più importante di quella dei conversatori ed è necessario amalgamare bene entrambi. Una squadra ha bisogno sia di attaccanti che di difensori»), mentre i più tristi dovranno celare il loro stato d’animo, per non guastare l’umore altrui. Le diatribe culturali, meglio di no, possono annoiare.
Nel corso del saggio si distinguono e vengono esaminate varie declinazioni di conversazione: dialogo, corrispondenza, comunicazione, chiacchiera, dibattito, conferenza, ma anche parola politica, preghiera e dialogo fra scrittori, ossia letteratura. La tesi ricorrente è che, in un tempo in cui ci perfezioniamo in tutto, non dedichiamo abbastanza attenzione al nostro modo di conversare: «Mentre per sciare con più grazia, paghiamo e remuneriamo dei maestri di sci, per porre fine ai nostri spropositi, e parlare con più tatto e educazione, non ci facciamo nemmeno un rapido esame di coscienza». Tutto il saggio difetta clamorosamente di qualsiasi tipo di nota bibliografica, o di riferimenti alla filosofia, greca o contemporanea (Martin Buber, per dire, fondò la sua intera filosofia sul dialogo e il rapporto interpersonale), che pure pretenderemmo da un professore universitario di filosofia quale era Sansot.
Visto l’andazzo, ho pensato che continuando a leggere avrei perlomeno potuto capire qualcosa di quel modo di conversare tutto francese, alimentato da vino rosso, sigarette e formaggi pesantissimi, e che si vede nei loro film (da Éric Rohmer a Olivier Assayas), o che viene raccontato da Proust (che ovviamente non ho letto: ho solo ascoltato l’audiolibro de La strada di Swann). Anche in questo senso, manco a dirlo, delusione.
A questo punto vi sembrerà che io abbia covato un odio personale nei confronti dell’autore, ma non è così: Sansot in realtà mi sembra una persona simpatica, guardatelo.
Vive a Roma ma non dimentica le sue origini avellinesi. È un avido lettore di Cesarea Tinajero. Non appena ha tempo, si dedica alla sua passione: il birdwatching.