Il poeta è morto, il poeta canta

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Io canto e la montagna balla (Blackie edizioni, 2020) trae il suo titolo dal verso conclusivo di una poesia, l’autore della quale è morto. Senonché, non siamo in presenza di una banale citazione da un componimento pubblicato postumo: la poesia, composta dall’autrice Irene Solà, è dedicata da un morto a sé stesso (da un vero morto, da un’anima, diremmo), che, nel passare dal mondo dei vivi all’aldilà, s’è trascinato dietro il proprio io antico e la passione per la poesia, ereditata dal padre. Eppure, i versi, la cui tensione verso l’immortalità ossessiona l’esistenza umana, sono sì immortali, ma non nel senso classico, eternante, della poesia: perché nessun mortale li conosce. Anche Tiresia, prototipo di ogni veggente, aveva ricevuto in sorte di mantenere intatta la sua mente nel regno delle tenebre, ed è questa singolare grazia a giustificare il viaggio di Odisseo e la sua discesa nel baratro. Viaggio e discesa: comunicare con l’indovino ormai morto implica dunque uno spostamento fisico. Prima non sono stato preciso nel qualificare la morte di Hilari (così si chiama il poeta) come un passaggio, uno spostamento all’interno della dimensione (nella sua vesta mitica e religiosa) spaziale, perché il romanzo di Solà può essere riduttivamente interpretato come un’elevazione della permanenza: i morti restano ancorati ai luoghi, i morti diventano i luoghi che da vivi hanno potuto solo solcare, toccare, usare, e con i quali dopo potranno sperimentare la piena sovrapposizione, l’identificazione totale.

Facciamo un passo indietro. Qual è la trama del romanzo? Perché una trama c’è, benché sviluppata con un ritmo e uno stile che mirano a evidenziarne l’aspetto affettivo più che quello narrativo, e che si corrispondono intimamente. Siamo sui Pirenei catalani, dove il tempo scorre a modo proprio e i rari visitatori si rifugiano quando assediati dalle città, quelle informi macchie luminose che di notte ondeggiano sfocate nelle pianure. Sulle montagne i ricordi, che sono ponti sul tempo, franano di meno, perché ci sono legioni di creature pronte a farsene guardiane, esseri viventi e non che animano la danza ancestrale che siamo soliti chiamare vita. Sui Pirenei cadono fulmini che uccidono persone, ci sono donne che conducono un’esistenza libera e sono uccise come streghe, ragazzi che vanno a caccia nei boschi e muoiono per errore come i caprioli che erano andati lì ad abbattere; ma sui Pirenei ci si innamora anche – o l’amore lo si fa e basta –, si piangono i morti, si è tristi – forse un po’ più spesso di quanto non si sia felici –, si trovano pezzi d’artiglieria (anche se più facilmente granate) risalenti alla guerra civile, si lavora, si beve birra, si fumano sigarette. Ma soprattutto sui Pirenei si ricorda, e ogni personaggio di questo romanzo polifonico (che sia umano, animale, vegetale o inanimato, come le nuvole) racconta ciò che vive o ha vissuto in prima persona, generando così un continuo spostamento di prospettive e richiedendo all’autrice l’assunzione di un punto di vista ogni volta differente.

I primi capitoli hanno un’aria trasognata, ma non traslucida come le utopie, mentre via via che le pagine si sommano a sinistra subentra la prosaicità di una vita che sembra sempre più vissuta che immaginata (o ricordata). Solo a fatica, però, ci si rende conto che il tempo sta effettivamente scorrendo, al modo della montagna, in regime torrentizio: gli anni passano a singhiozzo, e spesso una piccola porzione di carta bianca ricopre un abisso, una gola vertiginosa attraverso la quale alcuni muoiono, altri invecchiano. Ma al diradarsi degli aspetti mitici di questo spazio montano corrisponde l’affilarsi della narrazione, e s’incomincia a intravedere l’evento che farà da centro gravitazionale agli avvenimenti che l’autrice tesse e ricama: la morte del poeta.

A occupare il posto centrale è dunque una scomparsa, e quest’evento, sebbene non si possa dire che metta in moto il libro, fa senz’altro convergere su di sé gran parte delle riflessioni degli altri personaggi. Vale la pena soffermarsi un po’ più a lungo, allora, sul testo della poesia che l’autrice, estraendo da essa il titolo del romanzo, ha voluta mettere in primo piano. Ecco il componimento che l’anima di Hilari, il poeta, dedica a sé stessa (ch’è come dire, la poetica di Irene Solà):

«Io canto alla luna quando è piena, / occhio rotondo della notte soave, / gatta gravida. / Canto al fiume gelato, / compagno dell’anima, / come una vena, come una lacrima. / Canto al bosco attento, / sazio di pesci, lepri, funghi. / Canto ai giorni magnanimi, / alla brezza d’inverno, / al mattino, alla sera, / alla pioggia leggera, alla pioggia infuriata. / Canto al pendio, alla cima, al prato, / alle ortiche, alla rosa selvatica, al rovo. / Io canto come canta chi lavora nell’orto, / chi taglia una tavola, / chi costruisce una casa, / chi sale su un colle, / chi mangia una noce, / chi accende la brace. / Come Dio nel creare gli animali e le piante. / Io canto e la montagna balla».

La poesia è un’attività, un canto, che sorge in risposta a elementi della natura còlti innanzitutto nella loro relazione con i sentimenti umani (la luna, il fiume); vengono poi enumerati vari aspetti antitetici che si integrano, senza escludere quelli più tradizionalmente repulsivi: la sera come il mattino, la bufera come la pioviggine; le inclinazioni fisiche del territorio (pianura, collina, montagna); le piante dotate di spine possenti o urticanti, per poi passare alla relazione fisica tra uomo e ambiente (agricoltura, artigianato, architettura), approdando a gesti più semplici e spontanei (come camminare e raccogliere un frutto). Segno di un rapporto sano e olistico nei confronti del dato naturale è la menzione della brace, che sembra toccare un elemento estraneo e che è invece del tutto giustificata, perché chi gode del privilegio dell’equilibrio con l’ambiente circostante sa rispettare la morte dell’animale. L’integrazione tra Hilari e la natura va in verità oltre, fino alla sostituzione e all’equivalenza: il poeta muore esattamente come un capriolo, egli in quell’attimo è il capriolo. Gli ultimi due versi si commentano da soli, e traducono il canto sublimato nella gioia della creazione in perfetta armonia con il simbolo ultimo del suo atto d’amore. Ormai sullo stesso piano di realtà, all’interno della medesima coreografia, sono il poeta e colei che riassume in sé l’essenza della natura, la Montagna, rappresentazione dello strato più profondo e duraturo del fenomeno vita.

Non è difficile comprendere perché Irene Solà abbia eletto il monte a oggetto privilegiato della poesia, a simbolo assoluto della vita e vi abbia riversata la propria commozione per un passato che s’allontana. Addossata ai contrafforti meridionali dei Pirenei, macchiata tutto attorno dalle estensioni degli ultimi campi prima delle incoltivabili radici montane, giace Malla, minuscola municipalità catalana che non raggiunge le trecento anime, patria dell’autrice. Nel corso del libro vengono disseminati i nomi di alcune località che si trovano appena un più a nord, risalendo le creste, luoghi evidentemente amati fin dall’infanzia e restituiti poi nel romanzo. Comprensibile è anche l’immersione più profonda nelle tradizioni di quei luoghi, ricchi di storia e fertili di leggende, nel cui segno si apre il libro, come fosse l’inizio di un itinerario psicologico e sincero nella memoria affettiva dell’autrice. La schietta freschezza della scrittura, che lussureggia di nomi di frutti e verdure, sembra essere il sintomo più evidente di questa sincerità.

Ma alla gioia sfrenata della vita, quale si manifesta soprattutto nei capitoli in cui la voce si fa quella delle nuvole e delle trombette dei morti, s’impasta da subito il dolore per la morte dei cari, evento incomprensibile la cui carica è ben delineata nel primo capitolo, quando l’ignaro Domènec, sorpreso da un temporale mentre tenta di salvare un vitello nel bosco, viene saettato dal cielo. Lo squarcio che si apre nell’intimo di chi continua a vivere nel corpo, questa sensazione d’ingiustizia tutta umana (non hanno teodicea, le bestie), è il rovescio della naturalità e l’estensione della permanenza. C’è un errore, però, in tutto questo: portare dentro di noi il peso di chi non è più, pur essendo l’arma istintiva con cui continuamente tentiamo d’eternare i nostri simili, è in realtà il fallimento di un modello di civiltà, perché è nei luoghi che si radica il poeta, nel vento che perdura il suo canto.

«Polvere tu sei e alla polvere ritornerai» (Genesi 3, 19) non è solo un’immagine poetica, né unicamente un’allusione all’incinerazione: qualunque visione ci compiacciamo d’abbracciare, dalla terra siamo sorti. Ed è di questa tensione tra abbandono e permanenza che si nutre il libro, e se da un lato vediamo diradarsi l’atmosfera sognante delle prime pagine per immettere nuovamente il lettore nel ritmo di un’esistenza a lui più familiare (fatta di oggetti, lavoro, pulsioni), dall’altro è magnifico l’espediente con cui l’autrice tenta di disfarsi (o anche solo di sorridere) del cambiamento e dell’abbandono che ne consegue. È qualcosa di più profondo, di più necessario di una rievocazione di un luogo caro al proprio cuore, intriso dei nostri pensieri e che ci sostanzia il ricordo: travestirsi da montagna, lì al mezzo del libro, assumerne la voce, con un rallentamento del ritmo e un’accelerazione invece dello spazio percorso dagli occhi (più bianche che nere sono le pagine), è operazione necessaria per chi si rende conto che tutto si sgretola, sempre, e che tutto si sta sgretolando anche ora, e domani forse più velocemente.

Travestirsi da montagna è sentire il gusto del diamante, udire l’impercettibile chiarore della vera permanenza, necessaria perché impossibile, lirica perché miraggio. Se potesse, la Montagna riderebbe di ogni sforzo umano, lei che domina la terra dal suo picco nel cielo, lei che sprofonda nel suo cuore le ceneri di così tanti esseri, facendone nascere funghi e alberi. Montagna vuol dire terra, ma una terra più austera, meno docile all’asservimento umano: siamo i figli di coloro che scesero dalle montagne.