Lot di Bryan Washington, o la catastrofe pendente sulla periferia

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John Steinbeck aveva una concezione precisa del Texas, quando diceva che non è soltanto uno «state of mind», quanto «a mystique closely approximating a religion». Una concezione non distante da quella di Bryan Washington: con Lot (Racconti edizioni) l’autore narra di una città che, come un dio o un profeta, impartisce precetti e preghiere ed è al contempo drammaticamente irraggiungibile dall’uomo (povero) che ambisce alle sue grazie. Houston è questo, un dio lontano, circondato da grattacieli – o forse è essa stessa quei grattacieli –, è la downtown, il centro fatto di parallelepipedi che riflettono la luce desertica del Texas, una luce tra il bianco e il giallo, abbacinante, un riflesso di specchi privo di autenticità. Più lontano, all’esterno, c’è invece un piccolo mondo la cui forma corrisponde al perimetro di Houston: è la periferia che accoglie latinos e afroamericani, lo sfondo adatto per una storia dal sapore creolo, nei personaggi e nei fatti.

Lot si presenta come una raccolta di tredici racconti, la dicitura inglese dell’opera è chiara, Stories, ma si sottrae in fondo a una classificazione severa. Sebbene i testi abbiano una loro autonomia, un filo comune attraversa la raccolta dando forma a una sorta di romanzo frammentato e coeso allo stesso tempo. Washington sembra aver vissuto in prima persona una realtà in cui si mescolano più etnie, quel famoso crogiolo che è noto come melting pot, la cui prima traduzione è calderone, e dentro a questo calderone l’autore mette abbandono, aborto, omosessualità e anche un chupacabra. Lot, però, è qualcosa di più di un ibrido letterario per forma e contenuto, è la linea che passa tra la città-dio, visibile e intangibile, e i suburbi oltre il centro cittadino, lottizzati e segmentati secondo una logica urbanistica che pare quasi ispirarsi a una “separazione delle razze”.

Il romanzo novellistico è affidato perlopiù alla voce di un narratore che vive nel pantano di una non-società, più realisticamente il riflesso di una non-famiglia. Il primo racconto, Lockwood, vede il narratore fare conoscenza di Roberto, un quasi-nero, un messicano, e le tresche e i rapporti tra i due non tardano a sbocciare in un quartiere dipinto dalla logica della sopravvivenza. Leggendo il testo, si ha l’impressione che le poche certezze conquistate vengano messe in discussione al rientro a casa, certezze quali i soldi guadagnati dopo un giorno di lavoro al ristorante di famiglia, ma che non bastano mai, o la riconciliazione tra mamma e papà (pronto a tradirla poi con altre donne). La scenografia circostante è composta perlopiù da shotgun house, tipologie di case dalla banalità disarmante: tre cubi di legno disposti orizzontalmente su un solo asse, ossia cucina, salotto e camera da letto, con la facciata sul lato stretto di un primitivo parallelepipedo. Sulle shotgun house c’è poco da dire, è sufficiente un diniego, come quello della madre del narratore ogni volta che passa davanti a una di queste.

La veridicità dei racconti di Washington si mescola a leggende che coesistono nel calderone multietnico, come Bayou, il racconto del chupacabra, un animale leggendario simile a un canide, dedito alla mutilazione di altri animali, che abiterebbe alcune regioni delle Americhe. L’ingenuità di certe leggende contemporanee trova la sua legittimità nell’incontro di due ragazzi, Mix e TeDarus, con una creatura fuori dal comune, una visione innocente rispetto a un contorno sociale ben più spaventoso: «Il coso ci ha squadrato da per terra. Siamo rimasti immobili, col fiato sospeso. Il coso aveva gli artigli di un talco lucido. Aggrappati all’erba. E tremava, una roba del genere, come se il caldo non gli facesse una sega. Il chupacabra poteva essere affamato, o assetato, o perso, oppure tutte le cose insieme, o magari nessuna, e io mi sono voltato verso Mix per comunicarglielo, tipo, dovremmo proprio lasciarlo perdere, la cricca di quel coso lo stava tornando a prendere, ma poi Mix ha incrociato i miei occhi, e ha sollevato un dito, ed era già al telefono con qualcuno uscendosene su chissà quale cazzo di scoperta avevamo fatto».

TeDarus, l’io narrante di Bayou, è cinicamente consapevole del presente in cui lui e la sua famiglia sono costretti; Washington si fa mediatore di tale consapevolezza, non depriva i personaggi della loro estrazione sociale, anzi, ne fa il loro punto di forza, anche se si tratta di una provenienza marginale, al confine di un altro mondo agiato. A TeDarus, poco avvezzo alla fantasia poiché privato dell’immaginazione – quasi un giovane adulto cui sia mancata un’infanzia tranquilla -, viene concessa la possibilità di sottrarsi alla quotidianità sbilenca di un quartiere ridotto in semi povertà, anche se per poche ore, giusto il tempo di trovare una soluzione al mostriciattolo capitatogli per caso.

Il bayou, che dà il titolo al racconto, è propriamente una distesa paludosa tipica del delta del Mississippi, in cui non è raro incontrare coccodrilli, di certo non la consueta foresta incantata delle fiabe. Ma Bayou, in fondo, è questo: una pseudo-fiaba contemporanea che usa il realismo di quella parte di società marginalizzata proiettandola all’interno di un temporaneo principio di meraviglia.

Sono poveri che guardano ai prismi di acciaio della città-dio. Houston è infatti sempre lì come punto nevralgico di aspettative, affari e magari sogni, sebbene di fatto non esista e tutto, in primis i sogni, sia un’illusione; in profondità, i personaggi sono catturati da avventure di periferia – più o meno veritiere.

Il centro della narrazione è affidato al racconto Lot, che porta lo stesso nome dell’opera. L’io narrante, ossia lo stesso di Lockwood, espone senza particolare partecipazione emotiva la sua situazione familiare: un padre sparito dalla circolazione, un fratello aggressivo, una sorella insofferente ai problemi, una madre incapace di dimenticare il marito; l’arrendevolezza è tratteggiata con essenzialità, non ci sono decorazioni di sorta che possano addolcire una pillola estremamente amara: «A parte il problema dei soldi, lasciare il quartiere significava abbandonare il negozio. Cioè abbandonare Mamma. Abbandonarla da sola e spiantata. Di solito mi scaricava con un gesto della mano, diceva che ci sarebbe stata Jan, ma io con mia sorella ci sono cresciuto, e certe cose non si scordano. Ho provato pure il Community College, per una settimana o tre, quello su Main Street, seduto in prima fila e tutto il resto, ma un giorno ho smesso di botto e nessuno ha detto un cazzo. Non ha suonato nessun allarme. Nessuno ha chiamato al ristorante. E non ci vuole tanto a capire che da una parte esiste il mondo in cui stai tu, e dall’altra esistono le costellazioni che lo circondano, e non saprai mai cosa ti stai perdendo, se non alzi nemmeno gli occhi per guardare».

In questa famiglia sempre sul punto di crollare, il protagonista prende le redini in mezzo al disinteresse generale scatenato dall’abbandono del padre, asserendo di non essere d’accordo sulla vendita della casa; attorno a questo termine, si riscontrano significati molteplici: lot indica abbondanza nella sua forma avverbiale perifrastica, è il lotto ed ha una vaga eco biblica. Da Houston, la città che è di competenza degli dèi della modernità, viene diramata un’equazione silenziosa, alla quale i disperati si adeguano: se non puoi più permetterti una casa, vendila, cerca fortuna lì dove la stessa parola non è mai stata nemmeno pensata.

Il protagonista rischia di più, oltre a ribellarsi affinché l’abitazione non venga messa in vendita, e fa la cosa più difficile, parlare della sua omosessualità al fratello: «Gli ho detto di quello in biblioteca. Di quello della caffetteria. Gli ho detto tutte queste cose, di come ci avevo provato con Cristina e Maribel, con LaShon e sua sorella; e di come non avesse funzionato, con nessuna di loro, nemmeno quando mi fissavano dritto negli occhi, a braccia conserte. Ho guardato l’espressione di Javi per qualcosa che spiccasse o si contorcesse o si accartocciasse nell’oblio ma niente di tutto ciò. Non è successo».

Lot non ammalierà i puristi della lingua: di fatto sono racconti che puntano alla contaminazione con altre lingue (come lo spagnolo nel suo registro colloquiale) o con altre varietà dell’originale inglese, in un più diffuso gergo giovanile che non punta affatto al rispetto di un’ideale concinnitas ciceroniana. Washington attinge a piene mani al bacino verbale ed espressivo dei sobborghi che, per tradizione, rifuggono da sempre il principio della lingua sorvegliata, facendosi veicolo di un realismo carnale, incurante dello scandalo dei ben istruiti.

Houston, che è un dio che si vede ma non esiste, a ben pensarci, non è un dio né il principio di un credo; la downtown c’è in quanto riflesso dei vetri dei grattacieli, ma ciò che pulsa ed è senziente sono i suoi tentacoli che si diramano nella periferia e creano la vita oltre i giochi di luce dei prismi di acciaio nel centro città. Eppure, questa vita disperata e inventiva nei modi di sopravvivere, per quanto esista ai confini della città-dio, non riesce a esondare e tutto si incanala nella prevedibilità di una inconsistente ribellione alla famiglia, agli amici o ai parenti, assecondando velleità che rimangono tali perché non incoraggiate; si torna così a cercare un’ispirazione e un conforto verso quei grattacieli che luccicano, mute divinità del potere.