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Mi farò nido per te: La figlia unica

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«“E tu, Laura?” mi ha domandato con un’espressione seria, e insieme disinibita dal vino. “Quando farai un figlio?”
Come al solito non ha domandato Pensi di fare un figlio?, ma Quando lo farai?».

Laura, la voce narrante dell’ultimo romanzo di Guadalupe Nettel, La figlia unica, edito da La Nuova Frontiera e tradotto da Federica Niola, ha deciso di sottrarsi a quell’impegno che in molte società sembra somigliare più a una meta prestabilita, a una legge naturale, più che a una scelta. Come lei la pensava anche Alina, l’amica con cui aveva condiviso l’esperienza di vita parigina. Una volta tornata in Messico per Alina, innamorata e felice con il suo compagno Aurelio, le priorità cambiano. Così, mentre Laura viaggia per il mondo, avvicinandosi alla cultura buddista e orientale e facendo pace con il suo desiderio di non avere figli – talmente saldo da decidere di farsi chiudere le tube di Falloppio –, Alina si impegna con tutta sé stessa per restare incinta. Laura è certa che la decisione di Alina di farsi recipiente di una nuova vita produrrà un dirupo tra la loro amicizia che nessun ponte potrà rendere attraversabile. Eppure, quando Alina le comunica la notizia della gravidanza, Laura scopre di provare un sentimento inatteso: «Anche se avevo militato tutta la vita per salvare il mio genere da quel fardello, ho deciso di non combattere contro quella gioia». Quando l’ecografia rivela che la creatura nel grembo di Alina è una bambina – Inés – Laura non può fare a meno di constatare quanto sia dura nascere femmina in Messico, «dove ogni giorno nove donne muoiono assassinate per ragioni di genere».

Nel frattempo, le continue liti dei nuovi vicini di Laura interferiscono con la stesura della sua tesi di dottorato. Doris e suo figlio Nicolás non hanno un rapporto felice. Con fin troppa frequenza il bambino sembra cedere a un agghiacciante livore e a una volgarità di fronte alla quale Doris non sa reagire, e inerme si lascia umiliare. Laura, non sa per quale ragione, sente come un richiamo provenire da quella porta e, giorno dopo giorno, lievemente, si intromette in quelle vite e si ritrova a essere, sorprendentemente per una che di bambini non voleva saperne, l’amica più fidata che Nicolás potesse desiderare. Prendendosi cura di Nicolás e di Doris, Laura sta vivendo a suo modo una maternità. Dopo la morte di suo padre, un uomo violento e possessivo, Nicolás ha iniziato a manifestare i medesimi comportamenti contro la madre. Quella presenza così simile al suo ex aguzzino annienta Doris nel corpo e nella mente, costringendola a letto per giorni e rendendole impossibile occuparsi di suo figlio. Laura, portando Nicolás al parco e preparandogli da mangiare, si rende conto di quanto il bambino sia totalmente diverso con le altre persone, più docile e al contempo consapevole dell’esistenza di una voce nella sua testa – quella del padre – che lo spinge a maltrattare Doris.

Nel frattempo, i mesi passano e un’ennesima ecografia, seguita da una risonanza, svelano ad Alina e Aurelio una disorientante e tremenda realtà: il cervello di Inés non è cresciuto quanto avrebbe dovuto e non si sono sviluppati i circuiti neuronali adatti a consentirle di vivere una vita in maniera autonoma. I medici assicurano ad Alina che, una volta venuta al mondo, Inés non sopravvivrà più di qualche ora e che, se dovesse riuscirci, non sarebbe altro che un vegetale. Ad Alina viene consigliato di non interrompere la gravidanza per avere la possibilità di restare incinta una seconda volta, costringendola così a sentire la vita muoversi dentro di sé sapendo che di vita, poi, non ce ne sarebbe stata neanche l’ombra. Mentre preparano gli scatoloni per i vestitini, le scarpette, la culla e i giochi che Inés non vedrà mai, Alina e Aurelio iniziano ad accettare con grande maturità la situazione verso la quale stanno correndo, cercando di godersi ogni istante con la loro bambina fin quando gli è ancora possibile. Il giorno del parto Alina si assicura che nessun anestesista la addormenti, non vuole perdersi i pochi minuti di vita di sua figlia, vuole stringersela al petto e sentirla fino a quando le sarà concesso. Succede però una cosa inattesa: le ore passano, passano i giorni e Inés vive, nonostante sia probabilmente cieca e sorda, nonostante non sappia muovere i muscoli, vive. Il quadro che si offre agli occhi di Alina la disorienta: dovrà occuparsi di lei per sempre, imboccarla, vestirla, lavarla, e «se prima le aveva detto che avrebbe voluto conoscerla, ora le chiedeva mentalmente […] di andarsene».

A poco a poco, le donne di questa storia capiranno quanto siano eterogenee le sfumature della maternità e quanto sia lecito ammettere che la nascita di un figlio comporta la perdita di una rimpianta indipendenza. La figlia unica non è solo la narrazione di tante, diverse maternità e ognuna con le sue incertezze e i suoi inciampi: quella desiderata, quella rifiutata e poi accolta, quella non biologica ma radicata e intensa. È anche una storia sul libero arbitrio, sulle decisioni prese nonostante pareri contrari o tradizioni ataviche; sul volersi prendere cura degli altri anche quando non vi sono vincoli, anche quando basterebbe voltarsi dall’altra parte e continuare con la propria vita.

La scrittura asciutta, vera, soppesata della scrittrice messicana non ha intenzione di rassicurare il lettore: accadrà quello che deve accadere, e Guadalupe Nettel sceglie sempre e solo le parole adatte a descriverlo, con imparzialità e fermezza. Il suo stile è fatto di armoniosi contrasti, delicato ma mai stucchevole, deciso, impavido eppure narratore di spietate e vacillanti realtà. Nettel prende una esperienza biografica accaduta ad una sua amica, come spiega lei stessa nella dedica, e la trasforma in un manifesto della contemporaneità dove, oltre al tema della maternità, trovano spazio il maschilismo e la necessità di educare le nuove generazioni – Nicolás – al rispetto delle donne e di aiutarle ad allontanarsi dall’incombente modello patriarcale – e in questo caso anche paterno.

Sullo sfondo, Città del Messico con i suoi femminicidi, le manifestazioni, la violenza, la diseguaglianza sociale. E infine ci sono gli animali, elementi non estranei alle narrazioni di Nettel. Come in Bestiario sentimentale anche qui il regno animale si fa metafora della condizione umana: il cuculo che occupa i nidi altrui con le proprie uova, delegando ai piccioni il compito di crescere la sua prole e l’accettazione, forse conscia o forse no, degli stessi piccioni di prendersi cura di un piccolo non loro, è una realtà così diversa da quella che tante famiglie vivono? Quasi in punta di piedi, Guadalupe Nettel porge al lettore una quantità di temi su cui meditare che lui, alle prime pagine del libro, neanche si aspettava di trovare, perché credeva di avere in mano una storia su come essere mamme. Questo libro non ha pretese formative, non intende ergersi a parabola della maternità. Che tu sia genitore, che tu voglia esserlo un giorno o che tu abbia scelto di non volerlo essere mai, Guadalupe Nettel sembra dirti che non importa, che va benissimo anche così.