Lasciamo perdere Tenet, per un momento.
Per sgranchirci il cervello e metterlo in moto, è utile aprire l’analisi con un argomento che potrebbe essere percepito, almeno all’inizio, come collaterale, lontano dal cuore della discussione, ma che, se il ragionamento filerà liscio, dovrebbe risultarci in definitiva molto più vicino di quanto potessimo prevedere.
Dunque, parliamo di MacGuffin.
Termine coniato da Alfred Hitchcock negli anni ’60, il MacGuffin è l’espediente utilizzato per mettere in moto una trama, il carburante dell’intrigo, un oggetto che per i personaggi del film ha un’importanza cruciale, ma che, per la sua intrinseca natura di meccanismo, benzina, miccia, potrebbe (ma non sempre) non essere mai rivelato allo spettatore. In una lunga conversazione tra Alfred Hitchcock e François Truffaut, riportata nel saggio del cineasta francese Il cinema secondo Hitchcock, il maestro del brivido definisce il MacGuffin così:
«Si può immaginare una conversazione tra due uomini su un treno.
L’uno dice all’altro: “Che cos’è quel pacco che ha messo sul portabagagli?”
L’altro: “Ah quello, è un MacGuffin”.
Allora il primo: “Che cos’è un MacGuffin?”
L’altro: “È un marchingegno che serve per prendere i leoni sulle montagne Adirondack”.
Il primo: “Ma non ci sono leoni sulle Adirondack”.
Quindi l’altro conclude: “Bene, allora non è un MacGuffin!”
Come vedi, un MacGuffin non è nulla».
Ma facciamo qualche esempio, che non guasta mai.
Esempio n.1: Psycho. Il film attacca con una ragazza che ruba 40mila dollari, poi fugge dalla città e li nasconde in una busta da lettere che, nelle prime battute della pellicola, viene inquadrata con insistenza, come se costituisse il nocciolo della trama. Poi, scena dopo scena, l’oggetto viene relegato in secondo piano, fino a scomparire del tutto, e la storia prende una piega totalmente diversa. In questo caso, dunque, la busta è servita per far muovere il personaggio, e nulla di più.
Esempio n.2: Pulp Fiction. Anche qui la pellicola ha al centro il misterioso contenuto di una valigetta, che non verrà mai rivelato allo spettatore ma che costituirà l’epicentro delle vicende di Vincent Vega e Jules Winnfield.
Esempio n.3 (dopo centinaia di altri possibili): Tenet. L’ultimo lungometraggio di Christopher Nolan fa un uso cospicuo di questa tecnica narrativa, in particolare nelle scene iniziali. In poche battute si parla infatti di una pallottola molto speciale prodotta in Ucraina, una valigetta contenente del plutonio e, poco più in là ma non troppo, una misteriosa copia di un dipinto di Goya.
Il pregio di questo espediente, dunque, risiede nell’essere un attivatore della trama, un catalizzatore dell’attenzione; anche nel caso di Nolan, il MacGuffin in teoria non sarebbe il cuore del film, che invece batte per altre tematiche più articolate, che riguardano il tempo, il destino e mille altri cripticissimi enigmi dell’universo profondo. Ma se così non fosse?
Se il MacGuffin avesse giocato, nel lungometraggio dell’autore londinese, un ruolo più significativo di quello che possiamo sospettare? E se questo ruolo potesse portarci a individuare una natura più ampia e, forse, più approfondita dello stesso meccanismo narrativo hitchcockiano?
Naturalmente, la questione è articolata, e per procedere è necessario sorbirsi una breve sinossi.
Il protagonista di Tenet (John David Washington) indaga su un trafficante di armi russo, Andrei Sator (Kenneth Branagh), per conto di un’agenzia segreta di nome Tenet. La natura dell’indagine gli viene rivelata da una scienziata (Clémence Poésy) che lavora in un laboratorio, anch’esso segreto, e che si sta dedicando allo studio di proiettili che si muovono indietro nel tempo, e che provengono dal futuro. La macchinazione, si scoprirà in seguito, è ordita da un’umanità residente in un’epoca lontana, che sta cercando di distruggere la popolazione presente per salvarsi da una catastrofe climatica futura. Nel tentativo di sventare questa complicata situazione (utilizzando gli stessi strumenti di inversione entropica), il protagonista si avvale dell’aiuto di un fisico e agente (ovviamente segreto), Neil (Robert Pattinson), e della collaborazione di Kat Sator (Elizabeth Debicki), moglie del magnate russo, il cui compito principale da sceneggiatura è odiare il marito h24.
Tutta questa mega-segretezza, scevra dell’inviluppo temporale, già costituirebbe un materiale degno di nota per un complesso bond movie, cosa che in parte Tenet è. Ma questo a Nolan chiaramente (e anche comprensibilmente) non basta. Il cineasta sceglie così di fondare l’impianto narrativo della pellicola su due pilastri che, da soli, potrebbero reggere la trama non di un film, ma di una saga: il quadrato del Sator e la teoria dell’inversione entropica.
Dunque, andiamo per ordine.
Il quadrato del Sator è una criptica iscrizione di origine latina, sparsa in varie chiese e monasteri tra la Spagna e la Siria. L’iscrizione è composta da cinque parole (Sator, Arepo, Tenet, Opera, Rotas) che, inserite all’interno del quadrato, possono essere lette in qualsiasi ordine, dall’alto al basso, da sinistra a destra e via dicendo.
Insomma, un rompicapo da perderci il sonno, su cui si sono arrovellati frotte di archeologici, linguisti, filologi e semiologi vari, tra cui anche il nostro Umberto Eco, in Sator Arepo eccetera (Nottetempo). Le spiegazioni di questo cruciverba vanno da un tentativo di traduzione (che cerca di dare senso a parole latine ambigue), all’ipotesi di un’iscrizione bustrofedica, nella quale il verso di lettura cambia da riga a riga, assumendo un significato ogni volta differente. Un’altra interpretazione vede formare due volte il termine Paternoster, escludendo due o e due a (alfa e omega, l’inizio e la fine). Un’ultima lo prende come un semplice ma acutissimo gioco linguistico.
Decodificazioni a parte, quest’enigma secolare porta con sé, proprio per la complessità e il considerevole significato che le parole palindrome hanno rivestito nella storia, una grande carica esoterica, mistica e teologica (basti pensare che veniva utilizzato come amuleto per le malattie o, in epoca cristiana, per proteggere le partorienti).
Il fatto è che ogni riferimento di questo tipo, nel film di Nolan, è assente.
La complessa architettura palindromica viene infatti relegata a semplice easter egg, rendendo lo spettatore, più che un collaboratore attivo nell’interpretazione del significato, un allenatore a caccia di Pokémon. Sator è infatti il nome del cattivissimo russo, Arepo il cognome del falsario che realizza il quadro di Goya, l’Opera (di Kiev) il luogo in cui inizia il film e la Rotas l’azienda di massima sicurezza che custodisce le opere d’arte nel freeport di Oslo. Quindi, con un po’ di macinazione intellettuale, si ottiene: «Sator Tiene le Opere di Arepo nella Rotas».
E uno potrebbe dire: wow. E un altro potrebbe dire: e quindi?
Tutto ciò, nuovamente, si giocherebbe quasi sul filo del rasoio della chiarezza narrativa se l’intera pellicola non si reggesse su un altro macigno, in questo caso fisico-filosofico, il cui unico scopo diventa, con l’avanzare del minutaggio, soffocare senza diritto di replica qualsiasi verve narrativa: la teoria dell’inversione entropica.
Per inversione entropica si intende, in breve, una deviazione della seconda legge della termodinamica, che afferma, in uno dei suoi corollari, che l’entropia di un sistema non possa mai diminuire, ma solo aumentare. L’esempio più classico è: se viene inserito un cubetto di ghiaccio in un bicchiere di tè freddo, il sistema passa da uno stato a bassa entropia (in cui la temperatura dell’acqua è quasi tutta concentrata nel cubetto di ghiaccio) a uno di massima entropia in cui, scioltosi il cubetto, la temperatura è omogenea in tutto il bicchiere.
Per molti anni si è ritenuta questa legge un dogma, e solo nella seconda metà del Novecento alcuni studiosi (Richard Feynman, John Archibald Wheeler, Hilary Putnam) hanno dimostrato (seppure su un piano prettamente teorico) che delle deroghe a tale legge esistono.
In Tenet queste eccezioni vengono riportate sullo schermo ipotizzando che si possa invertire completamente l’entropia di un oggetto: ci viene spiegato, ad esempio, che con un’esplosione inversa si può morire congelati anziché bruciati, oppure che viaggiando in una linea temporale entropicamente contraria l’aria nei polmoni non entra ma esce (e viceversa), e dunque ci sia bisogno di una mascherina per respirare. Che questo vada a scontrarsi con alcuni paradossi, come il Paradosso del nonno, non è per Nolan una questione rilevante, dato che lo cita senza declinarlo in una spiegazione, o anche ipotesi, degne di nota.
Arrivati a questo punto, sempre lo stesso individuo di prima potrebbe dire: wow. E l’altro ripetere a sua volta: e quindi?
Dando per scontato il fatto che nessuna risposta sia giusta o meno (anche perché di giusto esistono solo i sensi di marcia) la differenza di reazione tra i due protospettatori ci è utile per arrivare al nocciolo della questione, e permetterci di recuperare, con una mossa Kansas City, il MacGuffin di cui sopra.
L’espediente narrativo hitchcockiano non ha, come abbiamo detto in precedenza, una sua natura autonoma, una ragion d’essere, se non in funzione della trama. È, insomma, uno di quegli oggetti fini a sé stessi, un espediente che potrebbe far benissimo nascere la domanda «e quindi?» senza prendersi la briga di dover dare una risposta, perché una risposta fondamentalmente non c’è.
Allargando un po’ le maglie del MacGuffin, dunque, possiamo provare ad applicare questa nozione non solo a un oggetto fisico in grado di muovere la storia, ma a qualsiasi oggetto narrativo che serva a far carburare la trama.
Cosa vuol dire, questo?
Significa provare a interpretare Tenet con un paio di lenti diverse, tentando di osservarlo, così, quasi per gioco, come un gigantesco MacGuffin.
Ma procediamo per gradi, e partiamo dai personaggi.
Iniziando con Il Protagonista (di cui non verrà mai rivelata l’identità), passando per Neil, Andrei e Kat Sator (e via dicendo), si ha la sensazione tangibile di trovarsi davanti a una sequela di individui bidimensionali, figurine private di un autentico spessore narrativo, esseri la cui unica qualità è apparire sullo schermo. Ci si accorge ben presto, con il minutaggio che corre inesorabile, che quella spia potrebbe essere qualunque spia, quell’agente esperto di fisica qualunque agente esperto di fisica, quel malvagio spacciatore di radioattività russo un qualunque malvagio russo, eccetera.
Ora.
Questa interpretazione non riguarda la performance dei singoli attori, ma la ragione stessa dell’esistenza dei personaggi, la motivazione che li ha portati a divenire parte di una storia. Ogni figura narrativa, in Tenet, più che sembrare composta di carne, assomiglia a un guscio vuoto ripieno di aria impalpabile, una busta da lettere con dentro 40mila dollari, una valigetta che potrebbe contenere un ordigno nucleare così come il vestito d’oro di Elvis Presley. Insomma, un oggetto che potrebbe essere tutto, perché è nulla.
I personaggi di Tenet sono nomi senza corpo, appellativi che si disperdono nel caleidoscopio roboante di scene d’azione, significanti privi di significato. Tutto il contrario di quello che accade al protagonista del racconto di Tommaso Landolfi A caso, testo che dà il titolo alla raccolta stessa, Premio Strega nel 1975. In un contesto avulso da tempo e spazio, il personaggio senza nome, impelagato in un dialogo con una voce interiore dai toni mefistofelici, sta discutendo se iniziare o meno a uccidere gli esseri umani, per soddisfare «le mie segrete esigenze, placare la mia noia, provare nuovi brividi». Il punto è che per iniziare l’opera, il personaggio interroga l’interlocutore diabolico, prima di tutto, sulla propria identità, considerando la scelta del nome un passaggio essenziale per proseguire nei propri intenti. «Ascolta piuttosto: uno di noi, uno della mia razza, e tanto più se sta per compiere un’azione importante, ha bisogno di vedersi come dall’esterno, di definirsi e nominarsi in quanto compitore della stessa; ha bisogno, si potrebbe aggiungere, di tradursi in termini letterari: questa è la sua sola giustificazione! “Io sono il tale appunto, e sto facendo la tale o tal altra cosa […]. Ti chiedo: io che specie di tale sono? Più esattamente, come mi chiamo?»
In questo caso l’autore si interroga dunque non solo sul contenuto del guscio, ma anche sulla nominazione dello stesso, cosciente di quanto il secondo porti in nuce i semi del primo.
Si potrebbe replicare: i personaggi in Tenet sono bidimensionali, occhei, ma forse questa scelta è stata funzionale a mettere in risalto l’architettura temporale, a immergersi dentro la vasca dei viaggi fisico-filosofici, per poterli osservare da una prospettiva nuova e fertile.
Il fatto è che questo, nuovamente, non avviene.
Tralasciando l’assunto tautologico per cui un film, come qualsiasi opera che implichi la narrazione, deve anzitutto riportare, anche in forma embrionale, un abbozzo di storia, le teorie sopramenzionate non vengono percepite all’interno del film, ma solo ripetutamente e instancabilmente dette. Questo effetto di disvelamento progressivo, oltre a risultare particolarmente irritante, crea un vertiginoso alternarsi tra scene d’azione e spiegoni megagalattici in controtendenza non solo a buona parte delle tecniche narrative conosciute, ma anche alla stessa arte cinematografica, nata anzitutto per essere vista, prima ancora che detta.
Anche queste teorie, dunque, diventano dei gusci vuoti, riportate sullo schermo senza essere né chiarite in modo accurato (e magari comprensibile) né tantomeno rese immagine, pellicola, film. Allargando ancora un po’ la maglia e stando bene attenti a non lacerarla, possiamo dunque vedere anche la struttura teorica come carburante, benzina che serve a mettere in moto qualcos’altro. In poche parole, un MacGuffin.
A questo punto è lecito domandarsi: che cos’è questo altro da innescare?
L’altro è l’azione che, in questa particolare accezione non racchiude solo le scene da action movie (onnipresenti, spettacolari e, alla fine dei conti, vera ossatura del film), ma lo stesso movimento narrativo della pellicola, che diventa così una narrazione che ha il solo scopo di verificarsi, un motore che brucia solo per accendersi, un meccanismo il cui unico pregio è quello di essere in movimento. Christopher Nolan attiva con Tenet un ingranaggio che non porta a nessun risultato, un veicolo che si va a schiantare contro un muro fatto di nulla, una macchina celibe che si accontenta della sua stessa esistenza.
Per concludere, il film risente, oltre che dell’assenza di Jonathan Nolan (sceneggiatore di quasi tutte le pellicole del fratello), della mancanza di «un oggetto simbolico, l’unità spaziale e temporale che assorbe l’entropia e contiene idealmente il film stesso» (per capirci, la trottola di Inception, o la stanza della scena conclusiva di Interstellar).
Il risultato è un’opera perlopiù anticomunicativa, non perché criptica (come potrebbe esserlo un film di David Lynch) ma perché contenente un vuoto. La risposta che dà Nolan è spesso affidata a frasi a effetto del genere «non cercare di capire, sentilo» che, alla fine, non convincono mai. Questo ingolfamento narrativo si sarebbe potuto evitare, forse, utilizzando una struttura già rodata (ad esempio, girando veramente un film su James Bond, personaggio di cui identità e caratteristiche sono note al pubblico) e innestandoci sopra l’impianto semantico e fisico, tutt’altro che privo di interesse.
Un pregio da riconoscere a Tenet, comunque, è di essere stato l’oggetto capace di rimettere in moto la macchina del cinema.
E questo, sì, è un bel MacGuffin.
Redattore di Marvin, scrive racconti, poesie, articoli di approfondimento culturale e contributi sul tema dei future studies. Appassionato di cinema horror e B-movies, ha sviluppato un feticismo per Sharknado, per il quale è attualmente in cura.