Quando feci la domanda di tesi triennale, incontrai il mio relatore convinto di avere in mente un’idea che avrebbe affascinato il mio futuro uditorio e a cui, magari, nessuno aveva ancora pensato: il male nella letteratura. Avevo dalla mia l’arroganza della giovinezza (ebbene, non ho più ventun anni) e l’ingenuità del quasi dottore in filologia moderna. I responsi furono, come dire?, iepidi, dato che il professore, assecondando le mie velleità accademiche, mi rispose candidamente: «Be’, un tema oceanico», un aggettivo che mi fece sentire davvero una goccia in un oceano. Decidemmo di restringere il campo di ricerca a un autore che prediligessi, e di riflesso la risposta fu Dostoevskij All’epoca non avevo ancora letto I fratelli Karamàzov, punto di partenza da me scelto per argomentare la mia ricerca. All’interno del romanzo un personaggio mi affascinò (e continua ancora a farlo) più degli altri: si potrebbe definire il riflesso di Ivàn – il fratello che simboleggia l’intelletto e la razionalità che esclude Dio -, uno sconosciuto che l’autore chiama un «gentleman qui frisait la cinquantaine». A costui non viene dato un nome, ma gli indizi lasciano supporre che provenga da una regione dell’animo che abita il notturno (compare a mezzanotte, dopotutto) e tradisca un’attitudine alla corruzione dell’uomo. Il bene da un lato e il male dall’altro: nessun dubbio che al primo corrisponda Dio e al secondo il Suo Avversario. Il Diavolo, si sa, è un persuasivo oratore, nonché un abile mutaforma, ed è certo ritenere che la sua principale missione sia pervertire a proprio piacimento il Lógos da cui ogni cosa è stata creata, servendosene per fare ciò che la tradizione tramanda come firma del suo agire in terra: sedurre. O forse no? Forse il Diavolo non è così brutto come lo si dipinge, ed è certo che, a dispetto di millenni di dannazione, qualcosa da dire l’ha avuta e non necessariamente servendosi della menzogna. La parola del Diavolo tenta e al contempo allontana il suo interlocutore, stretto nell’incapacità, spesso frequente, di comprendere il suo vero messaggio.
Ripercorrere la genesi e l’evoluzione storico-letteraria del Diavolo è un’impresa più che oceanica, è abissale, anche considerando soltanto i caratteri e le influenze sulla dottrina cristiana. La figura del Diavolo strictu sensu ha i suoi sviluppi primari più evidenti nel Nuovo Testamento, dove il termine diabolus acquista i caratteri dell’avversario di Dio che tutti oggi conoscono, un’iniziale canonizzazione che, ad ogni modo, subirà nel tempo varie modifiche. Il cristianesimo rifugge l’ambiguità e, nel suo sostrato a tratti manicheistico, distingue le roccaforti di bene e male – la seconda spetta di necessità al Diavolo, divisione che gli ebrei invece non praticano. L’ebraismo ha un Satana, il cui nome vorrebbe dire superficialmente «avversario», ed è un personaggio che si incontra, ad esempio, nell’episodio dell’asina di Balaam e nel Libro di Giobbe, ma non ha niente di oscuro o luciferino, come raccontano in seguito i Vangeli.
La codificazione della dottrina cristiana e del messaggio evangelico è dovuta ai Padri della Chiesa, che rendono inequivocabile la coincidenza di Satana con il Diavolo, a sua volta palingenesi del romano Lucifero, nome con cui , nella tradizione classica, si identificava Venere, la stella che per prima compare la sera e per ultima si spegne al mattino. Tuttavia, a dispetto del suo nome, il Lucifero cristiano non porta con sé alcuna luce, mantiene il suo essere antifrastico come beffa a memoria eterna di chi osa ribellarsi a Dio e che ha la sua compiuta rappresentazione nei versi di Dante. Dopo una discesa infernale lunga trentatré canti, Dante e Virgilio si ritrovano nello stagno gelato di Cocito, all’interno della Giudecca, la zona più lontana dalla luce di Dio e dimora dei traditori dei benefattori; si staglia davanti a loro una macchina mostruosa con ali di pipistrello, quasi invisibile nel buio che inghiotte i dannati, dentro al quale si sentono tre bocche maciullare i corpi di Bruto, Cassio e Giuda per l’eternità e lo sbattere di ali alimentare un vento gelido senza requie. Ci si aspetterebbe un colloquio tra Dante e Lucifero, un’ennesima spiegazione alle sue curiosità ultramondane, eppure nulla avviene all’infuori dell’osservazione dell’avversario confitto nel punto più lontano da Dio. Il trentaquattresimo canto dell’Inferno sembra quasi isolato rispetto al resto della Commedia: dopo il racconto di Ugolino, che conclude la faticosa discesa lungo il cono rovesciato, per un attimo la narrazione si congela, così come la parola di Lucifero. Il motivo è semplice: bisogna precisare che Lucifero non è il reale amministratore dell’Inferno, ne è solamente il vice, un’immobile struttura il cui unico movimento è lo sbattere gratuito delle sue ali. È il principe del carcere infernale e ne è, al contempo, il suo primo prigioniero.
La filosofia, qui, giunge in soccorso dei profani di certe incongruenze del racconto dantesco in rapporto alla dottrina cristiana, che, pur accettando simbolicamente l’esistenza del male, non potrebbe mai giustificarne la presenza fisica, poiché il male è assenza del bene e mai una sua corrispettiva manifestazione tangibile. Dante usa Lucifero per ammonire le genti sui pericoli di sfidare Dio, sulle minacce di una superbia che è costata la dannazione eterna al più bello tra gli angeli, sua prima antifrasi, dal momento che di bello Lucifero non ha proprio niente, ora. In secondo luogo, chi si ribella a Dio perde la facoltà di parola e la masticazione perpetua dei tre traditori aggiunge un’impossibilità fisica alla loquela.
Ma Lucifero, ne siamo convinti, avrebbe avuto tanto da dire, e ci si chiede cosa avrebbe potuto raccontare. Fortunatamente viene in soccorso il gentleman di Dostoevskij, summa ottocentesca di una serie di tradizioni e testi demoniaci nei quali si riassume tutta un’iconografia che affiora nella crisi dei valori pagani, passa per il Medioevo e giunge al borghese di metà Ottocento. Quest’ultimo, pur avendo perduto le ali di «vispistrello», ha mantenuto i suoi scopi lungo i secoli, che non coincidono di necessità con la corruzione dell’uomo, quanto con la sua evoluzione nella storia del mondo o il suo sprofondare nel nichilismo, di cui il Diavolo è il massimo rappresentante.
Nella tradizione cristiana, l’evoluzione iconografica del Diavolo prende l’avvio da due animali, il serpente e il capretto. Il serpente è il catalizzatore per eccellenza delle antitesi a un principio di bene: il suo incedere sinuoso si identifica perfettamente con l’immagine di un male insinuante che striscia nelle orecchie della prima donna e la invita e gustare del frutto proibito. La storia è vecchia come il mondo, ma ciò che spesso passa in secondo piano è il riflesso di Eva nel volto del serpente, che assume forme femminili (basti come esempio l’aspetto del serpente dell’Eden sulla volta della Cappella Sistina di Michelangelo). Se il serpente è perlopiù la metafora del male, la sua concretizzazione fisica è affidata al capretto e, per un diretto principio di sincretismo, il pagano Pan è stato assimilato dalla cultura cristiana tra le prime forme di un novello Diavolo.
Crisi dei valori pagani, si diceva. Già Plutarco raccontava che l’eco del pianto per la morte di Pan si era sentita in tutta l’Ellade mitica. Pan è un dio non olimpico, il cui nome richiamerebbe il greco πᾶν, “tutto”, da intendere parallelamente al panico che investiva gli uomini a sentire le sue grida mostruose. È l’ultimo degli «dei falsi e bugiardi», assieme ai quali subisce una lenta corruzione figurativa da parte della cristianità; le divinità pagane sopravvivono spesso nei testi cristiani in sembianze dalle deformità esagerate, atte a diffondere il senso dell’orrore per non aver ricevuto la grazia dell’unico dio e innervandosi così di sentimenti impuri che non possono più convivere col senso della rinascita del dio fattosi uomo. Pan caprino e uomo impersona una natura che il cristiano non vuole più che sia adorata, sopravvive come una delle tante facce del Diavolo che acquisisce, ora, diversi nomi: il Lucifero, l’Avversario, il Nemico.
Si dà per scontato che una figura antitetica a Dio sia presente nel Pentateuco, la Bibbia ebraica, un antagonista che procede con schiere di angeli ribelli pronte a detronizzar . Eppure, così non è. Come già detto per il Satana, l’Antico Testamento non riconosce un’identità fisica al male, perché, come si dice in Amos 3,6, «Avviene forse una sventura che non sia causata dal Signore?». Per gli ebrei, dunque, il bene e il male sono da ricondurre all’unico Dio. Ne deriva, una volta di più, che la coesistenza di bene e male nel mondo in due figure distinte sia prettamente cristiana. Lucifero compare per la prima volta in un testo apocrifo dei primi anni della diffusione del cristianesimo, il cosiddetto Libro dei segreti di Enoch, del I secolo d.C., ma è codificato nei Vangeli nell’episodio della seduzione nel deserto. Il dialogo che avviene tra Gesù e il Satana esemplifica la resistenza passiva del cristiano alle influenze del malefico.
Il Satana diventa l’opposto dell’Unico, un dio annichilito che rappresenta Dio nel Suo totale negativo, anch’esso adottato da Dostoevskij. I fratelli Dmìtrij, Ivàn e Alekséij Karamàzov, un’ipotetica quanto ideale e fallita trinità, vivono l’ingerenza malsana di un quarto elemento, Smerdjakòv lo storpio, perché chi zoppica nasconde un piede caprino che nel mondo dell’uomo è difficile da mascherare, e l’epilettico, che soffre del morbus sacer di quelle stesse persone toccate da un prodigio metafisico. Ma Smerdjakòv è anche colui che dialoga più spesso con l’ateo Ivàn, il fratello che, negando l’esistenza di Dio, sostiene che tutto sia permesso, colui che ragiona nel buio della casa paterna dell’assoluta libertà concessa all’uomo in nome del distacco da un’idea di per sé falsa, quella dell’esistenza di un dio sopra i cuori neri degli uomini. Kara, nelle lingue tatare, vuol dire “nero” e i Karamàzov sono loro malgrado complici dell’abbrutimento che ne stravolgerà la famiglia:
[Smerdjakòv] «Perdonate, vossignoria: ho pensato che anche voi foste come me».
«Naturalmente, bisognava supporlo» si agitò Ivàn «e io che sospettavo qualcosa di abietto da parte tua… Solo che tu menti, menti di nuovo!»
Conclusa la pars destruens, ecco che Ivàn, immerso nella sua logica, perviene in apparenza alla pars construens attraverso il suo doppio, quel gentleman che, alla mezzanotte del parricidio, dialoga col Karamàzov togliendogli il senno, ma solo dopo averlo illuminato sulla falsità dei suoi ragionamenti:
«Là tutt’a un tratto comparve un tale seduto, e sa Dio come ci era arrivato. Era un signore o, per meglio dire, un gentleman russo, non più giovane, con i capelli scuri, abbastanza lunghi e folti, appena brizzolati, come pure la barbetta tagliata a punta. La biancheria, la lunga cravatta a mo’ di sciarpa, tutto si confaceva appunto a un gentleman elegante. Era evidente che aveva conosciuto il mondo e la buona società. La fisionomia dell’ospite inatteso non è che fosse bonaria ma, di nuovo, garbata e pronta ad assumere, a seconda delle circostanze, qualsiasi espressione cortese. Ivàn Fëdorovič taceva con malanimo, e non voleva cominciare a parlare. L’ospite aspettava e sedeva proprio come un parassita che fosse appena sceso dal piano superiore, dalla camera che gli avevano assegnato, per tenere compagnia al padrone di casa per il tè, ma che tacesse tranquillamente in considerazione del fatto che il padrone di casa era occupato e stava pensando a qualcosa con aria corrucciata; sarebbe stato pronto a qualsiasi piacevole conversazione».
La prontezza al mimetismo del Diavolo di Ivàn denota il suo carattere di parassita che non rivela una ben precisa verità, bensì asseconda la sua parola al titanismo nichilistico di Ivàn medesimo, rendendolo folle:
«Ma tu non credi in Dio?» ridacchiò Ivàn con odio.
«Come dire? Tu parli sinceramente…»
«C’è Dio, sì o no?» gridò Ivàn, di nuovo violento e cocciuto.
«Ah, allora dici sul serio? Mio colombello, oddio, non lo so, è tutto quello che ti posso dire».
Altro dialogo assennato, ma non poi così tanto («si Diabolus non esset mendax et homicida»), è quello magistralmente scritto da Thomas Mann in Doctor Faustus, la tragica storia del musicista e compositore Adrian Leverkühn che ottiene il suo maggior successo professionale dopo due episodi fondamentali: una conversazione col Diavolo a Palestrina e la volontaria contrazione della sifilide. Il dialogo tra Adrian e il Diavolo è un lavoro di insonnia creativa che trasporta il lettore nel mondo dell’assurdo e, a quanto pare, del possibile: la possibilità per Adrian di diventare un musicista eccelso accompagnata dall’inevitabile coesistenza di una malattia, inevitabile perché, secondo Mann, la produttività del genio non può scindersi dalla sofferenza; l’arte è il punto di arrivo di un cammino nel dolore che genera idee e, nel caso di Adrian, musiche sublimi, che così parla allo sconosciuto che compare nella sua dimora di Palestrina:
«Chi mi dà del tu?» domando io indignato.
«Io» risponde lui. «Io, con permissione. Via! Lascia andare. Tra noi ci sono rapporti tali che possiamo darci del tu».
«Pretendete davvero di starmi seduto di fronte sul divano e di parlarmi in buona lingua kumpfiana? Proprio qui in Italia pretendete di venirmi a visitare, dove siete estraneo alla zona e niente affatto popolare? Che assurda mancanza di stile! A Kaisersachern vi avrei magari tollerato. A Wittenberg o alla Wartburg, persino a Lipsia mi sareste apparso credibile, ma non qui, sotto un cielo cattolico-pagano!»
«Via, via, sempre il solito scetticismo, sempre la stessa mancanza di fiducia in te! Tu mi vuoi rinnegare e non metti in conto la vecchia nostalgia tedesca e la smania romantica di visitare la bella Italia! Tedesco dovrei essere, ma tu non vuoi concedermi di sentire nel gelo la nostalgia del sole alla maniera düreriana, nemmeno quando, prescindendo dal sole, ho qui bellissimi affari urgenti a proposito d’una gentile creatura».
A questo punto mi colse una nausea ineffabile e fui scosso da un gran brivido. Ma non era facile distinguere fra le cause; poteva essere anche di freddo, poiché la gelida corrente che veniva da lui si era acuita fino a penetrarmi attraverso il pastrano nel midollo delle ossa.
«Non potreste far cessare cotesto dispetto, cotesta corrente gelata?»
«Purtroppo no. Mi duole di non poterti far piacere in questo caso. Inutile: sono così freddo. Altrimenti come farei a resistere e a sentirmi a mio agio là dove abito?»
«Nelle spelonche dell’inferno?»
«Magnifico! L’hai detto bene e con spirito! Vi sono anche altre belle denominazioni, patetiche, erudite, che il signor ex teologo conosce tutte, come per esempio: carcer, exilium, confutatio, pernicies, condemnatio. Te lo vedo in faccia che sei in procinto di chiedermi informazioni in proposito. Ma queste sono cose lontane e niente affatto scottanti e c’è tempo, molto tempo, un tempo incalcolabile. Il tempo è la cosa migliore che possiamo dare, e il nostro dono è la clessidra. Volevo soltanto intendermi con te, mio caro, e dirti che la clessidra è collocata e che la sabbia ha incominciato a scorrere».
Il Diavolo, in questo caso, è colui che permette all’uomo di scoprire la via della tecnologia intesa come, letteralmente, “studio di un’arte” colui che dà facile accesso alla strumentazione per il possesso della terra che l’uomo abita, dimenticandosi della divinità buona e virtuosa che, nell’atto euristico del vero sé umano, cerca di riportarlo sulla giusta direzione, come avviene in Faust.
Goethe stabilisce il canone moderno del patto col Diavolo tra il dottore inesausto e incapace a rassegnarsi della sua piccolezza umana, e il primo scagnozzo di Lucifero, il persuasivo e molteplice Mefistofele: ventiquattro anni di prodigi, donne e conoscenze ignote all’uomo comune fanno di Faust l’uomo della modernità che scende a compromessi con le conseguenze di un agire incontrollato. Alla fine di questo periodo, comunque, il protagonista subisce una sterzata grazie all’intercessione della Vergine, che allontana per sempre l’influsso del malefico e rivela a Faust una nuova verità: ciò che passa non è sinonimo di eterno, ciò che è imperfetto si redime nel firmamento per intercessione di un amore divino.
Un atto di grande generosità conoscitiva è donato anche dal Diavolo di Bulgàkov ne Il Maestro e Margherita, il professor Woland. In termini storici, Woland è il nome dato dalla tradizione germanica al Diavolo e i nomi, in Bulgàkov, parlano da soli. Assieme alla sua cricca composta da Korov’ev, Azazello, Behemoth, Hella e Abadonna, Woland precipita nella Mosca degli anni ’30 in pieno regime staliniano, ribaltando un’etica illogica di cancellazione o modificazione storica che inizia proprio con l’annichilamento di Yeshua, aramaico per Gesù, perpetrato da uno pseudo-letterato di nome Berlioz a inizio romanzo. Woland, fingendosi un professore di magia nera, si fa avanti e interloquisce con lui e Ivàn Bezdòmnyj, poetastro invasato dalla morale totalitaria, della figura storica di Gesù, asserendo di essere stato presente al momento del processo condotto da Ponzio Pilato al Nazareno, duemila anni prima:
«Vogliano scusarmi, se io, pur non conoscendoli, mi permetto… ma l’argomento della loro dotta conversazione è talmente interessante che… Posso sedermi?» chiese con urbanità; gli amici si scostarono meccanicamente, il forestiero si sedette svelto tra loro ed entrò nella conversazione. «Se non ho sentito male, lei stava dicendo che Gesù non è mai esistito».
«No, ha sentito benissimo» rispose con cortesia Berlioz.
«E lei era d’accordo col suo interlocutore?» s’informò lo sconosciuto voltandosi a destra verso Bezdòmnyj.
«Al cento per cento!»
«Stupefacente!» esclamò l’inatteso interlocutore, e, gettata intorno un’occhiata furtiva, e smorzando la voce già bassa, disse: «Vogliano scusare la mia insistenza, ma mi sembrerebbe di aver capito che, oltre tutto, loro non credono in dio». I suoi occhi presero un’espressione spaventata, ed egli aggiunse: «Giuro che non lo dirò a nessuno!»
«Infatti, noi non crediamo in dio» rispose Berlioz, sorridendo lievemente del timore del turista straniero.
«Loro sono atei?»
«Sì, siamo atei» rispose Berlioz sorridendo.
«Ma che bellezza!» esclamò il sorprendente straniero. «Mi permetta di domandarle,» riprese l’ospite dopo una preoccupata riflessione, «che ne fa delle prove dell’esistenza di dio, le quali, come è noto, sono esattamente cinque?»
«Ohimè,» rispose Berlioz con commiserazione, «nessuna di queste dimostrazioni vale un soldo. Deve convenire che nella sfera della ragione non ci può essere alcuna prova dell’esistenza di dio».
«Ma ecco il problema che mi preoccupa: se dio non esiste, chi dirige la vita umana e tutto l’ordine della terra?»
«È l’uomo che dirige» si affrettò a rispondere irritato Bezdòmnyj a questa domanda.
«Mi perdoni», replicò con dolcezza lo sconosciuto, «per dirigere bisogna avere un piano esatto per un periodo abbastanza lungo. Mi permetta perciò di chiederle come può l’uomo dirigere, se non solo gli manca la possibilità di fare un piano perfino per un periodo ridicolmente breve come, diciamo, un millennio, ma non è neppure in grado di rispondere al proprio domani!»
La ricerca della verità si fa nel libro più pressante che mai, anche rispetto alle speranze di Bulgàkov di vedere pubblicata un’opera manifestamente in contrasto con il regime e critica di un sistema di annullamento della personalità a favore di una fortissima macchina burocratica. «La verità, egemone, è che ti fa male la testa», dice Yeshua a Pilato, una constatazione davanti alla quale l’uomo semplicemente si arrende. Woland darà l’avvio a una serie inconcepibile di avvenimenti per una comunità, quella moscovita, che ha perduto il senso del divino, annichilendosi insieme ad esso. Woland è di certo un diavolo atipico, arriva persino a farsi da testimone dell’esistenza di Dio lì dove l’uomo ha perduto ogni certezza fingendo di averne conquistate in quantità col semplice utilizzo della macchina totalitaria. Sicurezza, ordine, progresso non significano nulla e, quando appare il prodigio, divino o demoniaco che sia, le strutture crollano e dietro di esse sopravvive la disperazione degli uomini che hanno distrutto qualsiasi cosa in cui credere.
Resta dunque aperta una domanda: il Diavolo è davvero così cattivo come lo dipingono? Non abbiamo ancora trovato una risposta, ma, parafrasando Tzvetan Todorov, il bene imposto per presunta virtù è di gran lunga peggiore del male che agisce secondo tentazione.
Chiamatemi Zac. Classe 1992, viene da Zancle e non perderà occasione di rimasticare grecismi con tutto lo snobismo possibile, lo stesso che si riserva di usare con quelli che non hanno mai letto Dostoevskij, Melville e Genet. Sa anche essere molto simpatico, soprattutto coi gatti, per i quali inventa un vocabolario quasi ogni giorno. Ha un profondo affetto per Bach, il pianoforte e il mare, che ha visto per anni dal balcone di casa sua sognando di essere Odisseo (ma ha ancora molta paura di Polifemo). I posteri diranno che il suo nome fu scritto nell’acqua, lui si augura almeno che non sia benedetta.