Da 5 Bloods – La guerra infinita

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Spike Lee, nella sua lunga carriera, non si è mai sottratto alla trattazione di temi scomodi: Da 5 Bloods riporta su pellicola il controverso coinvolgimento della comunità afroamericana nella guerra in Vietnam (in un’epoca storica, il regista lo ricorda spesso, in cui i neri stessi sono gli oppressi). Quattro fratelli di sangue ritornano nella terra degli orrori per cercare un tesoro nascosto e i resti del loro quinto commilitone e mentore Tornado Norman. Tornado, nel film, è la vena pulsante del Black Power, è la voce che vivifica l’orgoglio dei protagonisti, risveglia la fratellanza e perdona i crimini commessi: in altre parole è l’intento del film stesso che non risparmia riferimenti espliciti e reali alla storia della lotta dei diritti degli afroamericani (da Crispus Attucks al Doctor King).

Gli stilemi del war movie ci sono tutti ma con l’aggiunta di molti altri temi che rendono il film multidimensionale, già a partire dalle proporzioni cangianti dello schermo: si passa dai canonici 16:9 (per le scene del presente) ai 4:3 (per i flashback di guerra). Tutto ciò che vediamo nel formato più “stretto” sono ricostruzioni in cui i protagonisti rievocano le prodezze compiute insieme a Tornado; le scene più “ampie” del presente perdono totalmente quell’aura di epopea eroica per restituire il disincanto di uomini delusi e traditi.

Il tema della ricerca, del viaggio (si potrebbe dire quasi un pellegrinaggio) è reso secondo una struttura complessa che si articola tra un sentimento retromane verso i grandi viaggi dell’infanzia (Stand by me, I Goonies, La storia infinita) e la marcia risoluta di un plotone d’esecuzione che sa bene (o crede di sapere) chi è il nemico. Il continuo oscillare tra una speranza infantile di una nuova vita (grazie a dei luccicanti lingotti d’oro, tesoro degno di ogni isola fantastica) e la cruda cognizione di essere stati ingannati e costretti ad una guerra «per diritti che ai neri d’America non erano nemmeno concessi» muove ad una tenerezza singolare e combattuta, non affatto semplice da elaborare (genuina nel suo saper porre questioni difficili nello spettatore).  Il conflitto è onnipresente, sia esso di tipo interiore o esterno ai protagonisti, in senso più lato lo scontro con l’alterità (il popolo vietnamita, il commilitone, il proprio figlio). Lo scontro produce sempre un certo grado di consapevolezza e costituisce la base per l’azione scenica. Gli attori di questo conflitto non sono dei monoliti ma sono composti da vari piani di significato, stratificati su più livelli, che vanno a comporre i loro “ruoli”. Nel tentativo di uscire fuori dai propri cliché (la dipendenza da ossicodone, il disturbo da stress post-traumatico, l’amore lasciato nella terra nemica) i quattro soldati cercano anche di emanciparsi da una condizione d’oppressione originaria, di affibbiarsi un eroismo illegittimo (c’è solo vergogna per i veterani del Vietnam), fallendo miseramente. Non sono semplicemente dei soldati americani bianchi mossi da un ritrito e ottuso sentimento patriottico, non sono i soliti veterani di guerra con la medaglia d’oro: sono dei combattenti afroamericani ingannati da un desiderio di uguaglianza che era parsa reale solo combattendo in nome di una libertà americana mai conosciuta, per una terra che ha accolto i neri come schiavi e che come tali ancora li manda ad affrontare una guerra ignominiosa. Spike Lee non si risparmia in criticità, la contraddizione dell’oppresso che combatte a fianco del suo oppressore (il cappello di Paul recita infatti “Make America Great Again”) è posta come una mina pericolosamente inesplosa.

Il conflitto si sposta su un altro livello man mano che la guida Tornado Norman ripercorre la storia dei neri d’America: il regista inserisce continui riferimenti attraverso spezzoni di discorsi pubblici che hanno in qualche modo segnato le tappe della lotta per i black rights (Angela Davis, Muhammad Alì); ed è sempre il quinto fratello che ricorda come la guerra che stanno combattendo non sia la loro (qui i riferimenti sono alla resistenza del popolo vietnamita con relative foto dei massacri). Queste scelte iconografiche attivano un meccanismo di inter-iconicità (concetto dello storico della fotografia Clément Chéroux, “Diplopia” Einaudi 2010): tutti i contenuti utilizzati rimandano a una cultura visiva nazionale in cui, ad esempio, alla foto del monaco tibetano che si dà fuoco a Saigon si sovrappone quella dello studente nero ucciso durante una rivolta antibellicista. È, nello specifico una sovrapposizione di forma e di senso che grazie ad un sistema di rinvio e di ibridazione decodifica e ribadisce un chiaro sottotesto. Il messaggio subliminale dietro a queste icone fa riferimento ad un inconscio collettivo e ottico, che invoca la potenza dei gesti per dichiarare apertamente che la sola risposta appropriata all’oppressione armata è una forma di resistenza altissima e fattiva, sottolineata dalla portata storica di momenti distanti ma interconnessi.

Se poi si guarda alle strategie narrative finora analizzate con un occhio destoricizzato e quanto più libero dal condizionamento dell’immaginario comune, ci si rende conto di come un altro macro-scontro si giochi tra il visibile e il dicibile: questo modo di fare cinema, muovendosi sul confine tra realtà e rappresentazione crea una spirale tra le due e ridefinisce i rapporti tra reale e immaginario, vero e falso, visibile e invisibile. La sua vittoria si basa sulla capacità dello spettatore di cogliere l’eterogeneità del reale grazie alla flessibilità dello sguardo, a dispetto della staticità del significato che il Potere ha sempre imposto attraverso determinate immagini caricate di una sola interpretazione possibile. Distruggendo completamente l’utopia di una perfetta coincidenza tra visibile e dicibile (nella quale, il Potere, vorrebbe farci credere dandoci una sola narrazione del reale e cioè la sua) il cinema del dissenso fonda lo spazio di un confronto nuovo, realmente libero e forse più efficace, riuscendo a schierarsi anche contro i “buoni propositi e le giuste cause”; la retorica del “alla violenza non si risponde con la violenza” è manchevole di aderenza al concreto e si piega troppo volentieri alla narrazione dominante della realtà.

A Crispus Attucks è stato dedicato un monumento a Boston, la tipica rappresentazione della Libertà Americana: una giovane donna dalla pelle diafana stringe in una mano la bandiera statunitense e nell’altra una catena spezzata, sotto il piede schiaccia la corona reale d’Inghilterra mentre di fianco veglia la sempiterna aquila. Si tratta dell’ennesima iconografia che concede onore a un nero morto per la patria (forse il primo di cui si ha memoria) ma, dopo la visione di Da 5 Bloods, la si riconfigurerebbe con un mitra al posto della bandiera, un avvoltoio al posto dell’altro pennuto, una catena ancora intatta e luccicante e, al posto della corona schiacciata sotto il piede, la testa dell’ennesimo nero morto ammazzato.