(Almarina) di Valeria Parrella

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Con il romanzo Almarina (Einaudi), Valeria Parrella entra nella dozzina finalista del Premio Strega. A proporla è Nicola Lagioia, tra i primi a scoprirla all’inizio del duemila, ai tempi dell’esordio con la raccolta di racconti Mosca più balena (minimum fax).

La vicenda narrata in Almarina passa attraverso gli occhi e le parole di Elisabetta Maiorano, insegnante di matematica vedova che lavora nel carcere minorile di Nisida. L’edificio si configura dal primo istante come un paradosso architettonico e concettuale. Costruito su un’isoletta del Mediterraneo, è circondato da un mare inaccessibile, perché coloro che lo popolano non sono abitanti ma prigionieri. Chi invece va e viene sul ponte collegato alla terraferma sente su di sé un’inquietudine, un senso di colpa difficile da tradurre in concetti. Nisida appare nelle parole di Elisabetta come un micromondo evanescente, acquatico, in cui ogni concezione dei legami e dell’affettività è sospesa, proiettata in una dimensione eccezionale. D’altronde, quelli a cui la donna insegna formule e calcoli non sono semplici studenti ma ragazzini segnati, dal passato turbolento e dal futuro incerto. «E una nota in condotta cosa significa per un ragazzo che su un foglio ha visto scritto il suo nome, e sotto una condanna?»

In questo luogo ambiguo, attraccato a Napoli – «città che ci sa fare con la morte, le dà il giusto peso, che è quello della vita: cioè, preso individualmente, poco più di nulla» – la solitudine dolente di Elisabetta si imbatte in quella di Almarina Luchian, sedicenne rumena in arresto per furto, con alle spalle strazianti violenze familiari. Nell’individualità delle loro tragedie private, tra le due donne si spalanca un punto d’incontro, si crea, in fretta e senza preavviso, la possibilità di un legame. Vengono a profilarsi nuovi orizzonti di senso, al punto che Elisabetta vacilla sulla regola fondamentale per gli insegnanti/carcerieri di Nisida: non affezionarsi ai detenuti. La struttura della narrazione traccia un cerchio, in cui il prologo e l’epilogo ci mostrano Elisabetta all’udienza per ottenere l’affidamento di Almarina, mentre la parte centrale torna indietro a inquadrare il loro incontro e il loro eleggersi l’un l’altra.

Il racconto procede come un lungo flusso di coscienza e intervalla l’avanzare della vicenda a ricordi improvvisi, in cui Elisabetta ricostruisce la morte del marito Antonio e le fasi del suo lutto, ma anche il fiorire della loro relazione: «Non ci baciammo né quella sera, né le volte subito dopo: non c’era più fretta ora che c’eravamo incontrati. Procedemmo con la cura che meritano le cose eterne» e ancora: «Credo che il matrimonio sia cominciato così: che mischiammo i libri». Quello tra i due è un amore profondo, dal respiro ampio, che viene troncato di colpo e senza alcuna possibilità di trovare una ragione. A Elisabetta resta soltanto un lutto che passa dal tramutare fedi nuziali in orecchini perché il dolore non si può cancellare ma solo trasformare, e senza quel dolore non può pensare di esistere. Ogni grande sofferenza è sempre intima, individuale, ma quando Elisabetta incontra Almarina, come lei solcata da ferite aperte, le loro solitudini si riconosconoil loro legame cresce e si rinsalda.

La scrittura di Valeria Parrella è attraversata da un’attenzione meticolosa alla costruzione della frase, alla scelta della parola giusta. Una tale precisione, che potrebbe rischiare di appesantire il testo, si sposa bene con la brevità del romanzo che conserva infatti freschezza e spontaneità. Le parole dell’autrice riescono a mantenersi eteree anche nei momenti più duri, a conservare una loro frammentata leggerezza. Alcuni dei fatti raccontati, suggeriti o anche solo intuiti sono dei più agghiaccianti ma Valeria Parrella sembra affrontarli come la sua città affronta la morte: come cose da niente viste nella loro piccolezza individuale, nonostante gli strascichi immensi che si portano dietro. Quello che leggiamo è un dolore spogliato da ogni retorica e affrontato di petto, con onestà, per ciò che è. È Elisabetta a raccontare il proprio ma anche a ricostruire quello altrui: un gesto, un oggetto, un segno sul corpo di Almarina diventano per l’insegnante e per l’autrice l’occasione per venire fuori dalla voce della prima persona e immergersi anche nel passato della ragazza, che ci viene incontro per brevissime incursioni. Vi è un continuo interscambio tra “dentro e fuori”: dentro e fuori Nisida, dentro e fuori Elisabetta, dentro un’interiorità che si concede di accogliere qualcuno dal fuori.

L’intero racconto è costellato da un senso di calcolata frammentazione, quasi a sostenere l’idea che la perdita non possa far altro che lasciare in pezzi. Caratteristica interessante della prosa di Valeria Parrella sono infatti le reiterate parentesi, crepe che si aprono sullo stucco del racconto. In questi incisi frequenti emerge tutta la crucialità dei non detti che si fanno limpidi, quasi fossero scritti a caratteri cubitali ma con inchiostro invisibile. L’autrice procede, sì, per descrizioni ma anche, forse soprattutto, per omissioni, sottendendo alla narrazione un abisso che affiora attraverso le parentesi, facendoci così percepire una diversa profondità sulla quale galleggiano le parole che leggiamo.

Anche il rapporto tra Elisabetta e Almarina sembra tratteggiarsi tra incisi e non detti piuttosto che in ciò che ci viene mostrato. È una strana scelta di focus: il legame tra le due resta quasi accennato, sospeso; più che in maniera lineare è approfondito per sprazzi, affinità e risonanze (Almarina legge le lettere dal carcere di Gramsci, libro lasciato a Elisabetta da Antonio, in un gioco che poco o forse niente ha a che vedere con la casualità). L’affetto che comincia a stabilirsi viene descritto come intenso ma non esattamente indagato. Perché? La risposta è forse già anticipata a metà libro: «Voi che giudicate siete disposti a credere ai colpi di fulmine, ma altre forme d’amore improvviso vi mettono in sospetto. Le amicizie sembrano maliziose, l’amore per i discepoli riverbera di paternalismo e l’ammirazione profonda per gli anziani pare sia coperta da chissà quale mancanza nascosta nel passato. Volete che l’amore proceda per gradi, vorreste intravederne un percorso lineare, guardare, morbosi, tutto. Invece no, non si guarda: il cuore è opalino e gli esami di coscienza sono per gli infelici».

Il respiro di Almarina si fa più vasto mentre Valeria Parrella riflette sul carcere, sulla dimensione di confino che si concretizza sull’isola di Nisida. «È la gabbia che rende gli uomini non già simili alle bestie (ché bestie siamo) CLASSE – MAMMIFERI, ma simili a come gli uomini vogliono le bestie». Nelle parole dell’autrice risuona un’eco politica palese e non celata, che vivifica l’intero romanzo, rendendo la responsabilità di ciascuno forse il fulcro più autentico del testo. Se «il carcere è un dolore che non finisce, da cui non puoi mai distarti», Elisabetta può cercare, insieme ai suoi colleghi meno disillusi, di «addolcire la realtà, raccontarla meno brutta» ai giovani detenuti. Può decidere di non arrendersi e farsi carico di un’altra vita oltre la propria. Dove la legge non riesce a guardare alla singolarità, il singolo può ascoltare l’obbligo che sente verso se stesso e coloro che sceglie di amare, anche se questo supera la dose di responsabilità richiesta.

Valeria Parrella esplora l’impatto trasformativo della perdita e i modi imprevedibili in cui ci si risolleva dal dolore, passa per il lutto, per le difficoltà dell’adozione, per il desiderio di non lasciare andare, capire quando è necessario impuntarsi e lottare, e condensa tutto questo in poco più di cento pagine. Il suo risulta un romanzo civile, politico, contenuto in un peculiarissimo romanzo di formazione. Non è un caso che al fondo di Almarina vi sia una radice di verità. La genesi del romanzo prende avvio dal laboratorio di scrittura tenuto dall’autrice proprio a Nisida nel 2017 e dal bisogno di convogliare le emozioni emerse nel rapporto con gli allievi, i cui elaborati sono riportati all’interno del libro. È forse da quest’elemento biografico (quest’altro non detto così presente) che deriva lo spasmodico senso di ricerca di Elisabetta, il desiderio di «un termine diverso a cui aderire», un’urgenza che tende il romanzo come un arco e lo fa vibrare ben oltre la storia che racconta.