«Se proprio devo trovare una ragione per cui amo i segni delle scritture, tutti indistintamente, questa ragione io la trovo in quel tamburo che provocava il galoppo del cuore e ci avvertiva che non eravamo soli sulla faccia della terra».
È il bussare su uno strato sottile di mattoni ad annunciare la nascita del protagonista e narratore di questo libro: dall’altra parte, uno zio impaziente che aspetta quel segnale per calare la pasta e festeggiare l’arrivo del nipote. La storia, grandemente autobiografica, narrata da Giuseppe Lupo e candidata quest’anno allo Strega, inizia, però, con l’annuncio di un’altra nascita e la comparsa di un silenzio. Ad Atella, nella Lucania degli anni sessanta, Giuseppe ha solo tre anni quando la madre, dall’alto del lampadario che sta lucidando, gli dice che presto avrà una sorellina. All’improvviso, il protagonista capisce che dovrà condividere con lei quel mondo sull’Appennino, i suoi genitori e il loro alfabeto, ogni cosa che fino a quel giorno ha conosciuto e che non sarà più di sua proprietà in modo esclusivo. Per mesi un mutismo, come ruggine nella gola, gli impedisce di parlare: forse un cambio d’aria, qualche antica magia di montagna o magari l’acqua riuscirà a pulire la ferita e darle modo di rimarginarsi. Col tempo il bambino ritrova le parole e la forza necessaria a pronunciarle, ma il fantasma del silenzio lo accompagnerà per molto tempo, sotto diverse forme, seguendolo anche in quel viaggio verso l’America che fu la migrazione in Lombardia.
Negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza casa sua è un crocevia di incontri letterari, di riunioni fra intellettuali e artisti del circolo La Torre che sognano di edificare un ponte che colleghi la Basilicata a un tipo di modernità a cui le regioni dell’Alta Italia hanno già aderito. Da piccolo, Giuseppe scopre che le idee hanno gli occhiali e fumano le sigarette, che l’utopia indossa l’impermeabile e che Milano, la città dell’editoria, è fatta di un illuminismo liquido che può curare il suo silenzio. O almeno questa è la verità a cui i suoi genitori, entrambi insegnanti, credono così tenacemente e che tramandano al figlio recitandola come un’antica litania. Ad Atella, Giuseppe si nutre del genio e dei cambiamenti che caratterizzano il secondo dopoguerra. In casa giungono i promotori dell’Einaudi con i cataloghi e i famosi libri bianchi, ma anche Leonardo Sinisgalli con le sue muse; e poi la legge sul divorzio e la scoperta dei Gulag. Tutta la Storia gli sembra racchiusa lì, tra l’Appennino e il bugigattolo del padre dove sono custoditi i libri torinesi e la macchina da scrivere. Pur avendo ricominciato a parlare, il protagonista ancora non ha scoperto il piacere della lettura, esclusa quella scolastica. Poi un giorno, il 23 novembre del 1980, la Lucania trema e Giuseppe, stimolato dalle parole del padre – «Ora che siamo salvi, si può raccontare» – e dal conforto di essere sopravvissuto, impara a memoria Cristo si è fermato ad Eboli. Dopo quel devastante terremoto le parole diventano mattoni da cui ricominciare.
Da anni, intanto, Milano lo chiama, lo attira a sé, complice la speranza paterna che il figlio studi alla Cattolica come avrebbe voluto fare lui e che diventi scrittore, per narrare il Novecento. Nello scegliere l’università a cui iscriversi, il protagonista inciampa sempre, forse nel calcolo matematico dei chilometri che separano quel determinato posto da Milano, la città che un giorno, da piccolo, ha visto e che da quel momento non smette di offrirsi ai suoi occhi. Negli anni del boom, la Lombardia è meta ambita per molti meridionali: ma la scelta del protagonista non ha niente a che vedere con il lavoro d’operaio in una grande azienda automobilistica o col sogno di mettere da parte un po’ di grana. Sono la letteratura, il mondo editoriale e il mestiere di scrittore a muovere i passi di Giuseppe verso il capoluogo nordico. Ma il mostro del silenzio – che il protagonista chiama Quasimodo e che ha, stavolta, una forma del tutto diversa – viene con lui anche a Milano, insieme alle camicie e alla penna del padre.
La ruggine, in quegli anni, si impossessa delle sue dita e dalla macchina da scrivere non esce nulla per moltissimo tempo. Per le strade di Lambrate, il protagonista cerca i suoi personaggi, ma cerca anche frammenti di casa e di quell’Appennino da cui sente di essersi fatalmente allontanato: «L’Appennino non c’era più, a proteggermi le spalle come un padre». Sono anni inquieti, quelli milanesi: alla paura di fallire e alla certezza che il trasferimento, da solo, non abbia provocato una vera evoluzione, si unisce l’affannosa ricerca di un mentore – o un padrino, come gli suggerisce Cesare De Michelis. E c’è anche una domanda che segue il protagonista come un’ombra: se alla fine non fossi uno scrittore, se non fossi davvero bravo a scrivere, cos’altro potrei fare? Chi altri potrei essere? «[…] Sapevo che avrei stentato a trovare il mio posto fino al giorno in cui non avessi avuto un libro tutto mio tra le mani: il mio libro, quello che cercavo di scrivere da quando ero nato e per il quale avevo abbandonato il mio Appennino».
Breve storia del mio silenzio ha un lessico poetico e intimo, fatto di odori, di suoni. Un tipo di scrittura che ricorda i grandi romanzi italiani degli anni sessanta, quelli nei quali il mondo piccolo si faceva protagonista di eventi maestosi. Pur non conoscendolo di persona, credo che Giuseppe Lupo sia una di quelle persone che alle feste se ne sta in disparte, che sorride con gentilezza, ma altrettanto facilmente sa farsi malinconico. La sua è una storia tenera che, nel raccontare la formazione intellettuale di un ragazzo del Sud, svela invece la chiave di volta dell’Italia del secondo dopoguerra: le migrazioni meridionali, le tendopoli dei terremotati in Basilicata, la Milano da bere e il Salone di Torino. Il protagonista si trova, inconsapevolmente, nell’ombelico di un mondo che il più delle volte gli risulta estraneo, da cui spesso è respinto: si sente ai margini e non sa che, anche al margine, la vita si srotola e «trova i modi più insoliti per rivelarsi». Infine c’è l’acqua, che porta via lo sporco, cicatrizza le ferite e riesce, alla fine, a diventare fiume e sfociare in un luogo diverso, che non ha a che fare con la geometrica Milano, ma con una meta più ancestrale e, forse, inevitabile. Dopo diversi rifiuti da parte delle case editrici è la Marsilio – padovana di nascita e veneziana di residenza – a farsi rifugio e trampolino di lancio per il protagonista. Profeticamente, l’acqua infine guarisce il male del silenzio, una presenza sovrastante che attanaglia e mortifica. E come le case che in Lucania, dopo il terremoto, per troppo tempo non furono ricostruite, così il protagonista, fin dall’infanzia, si sente incompleto e mancante di un pezzo che solo il primo libro pubblicato saprà restituirgli.
Nasce a Roma nel giugno del 1993. È laureata in Editoria, parla molto, si entusiasma facilmente e ha due dipendenze che nuocciono al suo portafoglio e al girovita: i libri e i biscotti. Una volta a settimana prende dalla libreria – ordinata per casa editrice – Cent’anni di solitudine e rilegge l’ultima pagina: il finale più emozionante e meglio scritto nella storia della letteratura, di questo ne è più che certa.