Favolacce per un sonno tranquillo

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Favolacce è valso ai fratelli D’Innocenzo l’Orso d’argento alla Berlinale per la migliore sceneggiatura. Senza dubbio infatti, tra gli elementi che concorrono a farne un esempio singolare del “nuovo cinema italiano”, è proprio la struttura narrativa, che dà adito a varie riflessioni.

La storia è semplice: un diario ritrovato casualmente ripercorre le vicende di un’estate che sembra durare in eterno. L’autrice di queste memorie è una ragazzina, che ospita nei suoi scritti le persone della sua vita (il padre, la madre, il fratello, gli amici), mentre il narratore/lettore del quaderno ritrovato si preoccupa di aggiungere i particolari mancanti, rendendo la storia più completa e ricca. Le due voci si mescolano per proseguire nel racconto della vicenda e ci ritroviamo di fronte a due narrazioni diverse ma complementari: l’adulto ricompone e rielabora ciò che la penna della piccola autrice filtra, creando l’illusione di metterci al corrente del reale accaduto e saziando una certa curiosità morbosa che si autoalimenta col procedere degli eventi. Non si capisce quanto ci sia di ricostruito o di inventato e la cosa diventa molto presto indifferente perché siamo affascinati e intontiti dall’urgenza di avere contezza di ogni aspetto della storia. Tutto procede su un sentiero disseminato di indizi bizzarri (un’occhiataccia, una parola e un tono di voce particolari) che appaiono come dei rimandi a una sciagura sottesa o comunque imminente.

Favolacce sta proprio nella sua stessa capacità di sfruttare questa mania di dettagli macabri che attraverso il totale e fittizio dispiegamento del fatto, oltre ad appagarci temporanemante, ci illude di avere il controllo sulla storia. L’attesa della tragedia diventa quasi dolore fisico, fastidio e straniamento, ed è qui che si mette in moto il giochetto sadico del film: chi guarda crede sempre di anticipare di “tanto così” la storia, ma ecco che subito accade qualcosa che sconfessa queste piccole epifanie (la sensazione di fastidio è terribile ma, come per tutti i giochi sadici – consensuali – la si accetta di buon grado). Questa illusione di perspicacia non fa altro che nascondere l’elefante bianco che giace sul tavolo per tutta la durata del film, e che nel finale lascia piacevolmente instupiditi.

Siamo quindi contesi tra due narrazioni: quella della ragazzina che rielabora piccoli ed enormi traumi infantili e la contro-narrazione del cantastorie che ci svela, nel piano visivo, il “probabilmente accaduto”. Il totale delle parti però non basta a renderci completamente consapevoli di quello che sta succedendo: l’intero è un amalgama di rappresentazioni dotate di un forte potere attraente in cui la nostra interpretazione è annullata, inutile.

Per certi versi il cinema è – potrebbe essere ancora – l’arte dell’identificazione, una macchina creatrice di immagini che (per quanto paradossali ed esemplificative) inducono a porre questioni trasversali, che vadano oltre alla pura e semplice godibilità di un testo visivo: ebbene, Favolacce non ne è un esempio. Tutta la sua originalità si consuma nella sapiente composizione della fotografia, nella cura per l’immagine e per il sonoro, e finisce per posarsi sulla motivazione primaria e strutturale del film, che non è l’introspezione o la riflessione ma solo la cronaca di una vicenda: la pura e risoluta decisione di mostrare una narrazione avulsa da scopi di denuncia sociale, a favore di un puro consumo formale di immagini. Aspetto che si chiarifica ancora di più se si analizzano le personalità e l’ambientazione in cui queste agiscono.

Il contesto è così anonimo che ci risulta assolutamente familiare, vicino nella sua sostanza ma lontano nella forma, mentre il tempo si frantuma in continue anticipazioni e ritardi. L’ambientazione di Favolacce è infatti caratterizzata da un’amorfa strada con villette a schiera e giardino, buttate lì ad arroventarsi sotto un sole implacabile, lontana dallo spazio abitativo tipicamente italiano, se non fosse per l’accento romano introdotto nel film.

In questo non-luogo la caratterizzazione dei personaggi va a costituire una sorta di mitologia suburbana che difficilmente si lascia penetrare. Alcuni sembrano dei veri e propri tipi ricorrenti nelle storie di violenza e sadismo: il capofamiglia violento, il vicino di casa rabbioso, il papà degenere, tutti facenti parte di un sistema familiare corrotto in cui non mancano le mogli sottomesse e complici. Attuiamo con essi un atteggiamento manipolatorio-simbolico, li incastoniamo in un sistema totemico atto ad esorcizzare il terrore di essere come loro, e in questo senso li seppelliamo sotto una lunga serie di tabù. Altri invece ci appaiono inaccessibili (soprattutto i personaggi più giovani) per cui il gioco di immedesimazione riesce difficilissimo. Inoltre, la generale e più ampia situazione di precarietà e soffocamento è sottesa e al contempo messa in primo piano, ma non problematizzata fino in fondo.

Ciò che non torna nelle coordinate dello spettatore sono gli atteggiamenti dei protagonisti: gli adulti sembrano molto spesso lasciarsi andare in atteggiamenti infantili e grotteschi; i bambini scimmiottano comportamenti tipicamente adulti con la devota capacità imitativa di chi rifiuta categoricamente la propria realtà. Questo scompiglio è funzionale al successo della comunicazione visiva ma sacrifica sempre quel sostrato (sostanziale) di ricerca e indagine personale a carico dello spettatore.

Si potrebbe pensare a Favolacce come una tentata creazione di una tragedia barocca contemporanea, laddove per barocco si intende la sua visione esasperata e a tratti sclerotica, iper-intensificata da un utilizzo non originale di certi schemi tragici. Produzione di orrore senza impegno, un fortunato splatter senza sangue ma con tutta la godibilità della violenza fine a sé stessa dove alla mano mozzata si sostituisce l’incapacità di comunicarsi finanche l’odio.