«Riesco ad avere il coraggio di dirti quello che viene dopo solo perché le possibilità che questa lettera ti arrivi sono scarse, la tua incapacità di leggerla è tutto ciò che mi rende possibile scriverla».
Brevemente risplendiamo sulla terra di Ocean Vuong è un messaggio a cui chiunque potrà accedere, tranne il suo destinatario. Il libro ci dischiude la vita di Little Dog mentre percorre la storia della propria famiglia, un microscopico nucleo vietnamita immigrato negli Stati Uniti nel 1990, composto dal protagonista, la madre Rose e nonna Lan. La voce dell’autore ricostruisce momenti cruciali della propria esistenza e di quella delle due donne che ne sono i fuochi. Descrive avvenimenti intimi e casalinghi, accaduti sia sul suolo americano che su quello vietnamita, in pace, in guerra e nel confine labile che intercorre tra le due. Il romanzo è attraversato da un intrecciarsi di esistenze che si attirano e respingono: leggiamo dell’infanzia di Little Dog, segnata dal razzismo, di nonna Lan e della sua vita precedente in Vietnam, del disturbo da stress post-traumatico di Rose, che ne altera di continuo la personalità, da madre amorevole a mostro violento. È proprio alla madre che sono indirizzate le parole di Little Dog, parole che restano sospese perché il lettore sa fin dall’inizio che Rose non avrà modo di comprenderle. L’alter ego di Vuong infatti scrive in inglese, lingua d’approdo mai acquisita dalla donna, che ne ha segnato anzi ulteriormente la ghettizzazione e l’isolamento. Nel centro estetico dove lavora, d’altronde, non vi è che un vocabolo da pronunciare: sorry. Per l’immigrata vietnamita che cura le mani delle ricche signore americane tutto quello che bisogna imparare è chiedere scusa. L’inglese rimarrà per Rose incomprensibile, frontiera invalicabile che trasforma la lettera in un flusso di coscienza impetuoso e senza alcuna foce.
Leggiamo poi del ruolo cruciale di Little Dog, che si fa intermediario tra le due donne e il nuovo Paese, ne diviene interprete e voce in una terra fatta di suoni indecifrabili. Sentiamo il suo desiderio lacerante di assimilarla, quella lingua, farla propria al punto da poterla plasmare, governare e mutare in poesia.
Brevemente risplendiamo sulla terra è infatti, innanzitutto, il romanzo di un poeta. Già noto per la raccolta Cielo notturno con fori d’uscita (entrambi i libri sono editi in Italia da La Nave di Teseo), Vuong si cimenta per la prima volta con la narrativa, senza mai abbandonare il suo primo amore. Durante l’intervista in streaming per il Salone del libro di Torino Extra, l’autore ha infatti dichiarato di aver applicato alla prosa le «strategie della poesia». A emergerne è un libro peculiarissimo e sbriciolato, in cui i passaggi da un tema all’altro si svolgono senza seguire criteri logici o cronologici ma per accostamenti improvvisi.
«Alcuni dicono che la storia si muova a spirale, non come la linea retta a cui siamo abituati a pensare. Ci spostiamo nel tempo in una traiettoria circolare, la nostra distanza da un epicentro aumenta solo per tornare indietro; un cerchio in meno, rimosso». Non è possibile per il poeta raccontare la propria vita come un biografo, soprattutto per il poeta la cui ricerca linguistica è inarrestabile, fatta di contaminazione e stratificazione, riflesso verbalizzato della sua stessa esistenza. Vuong affida la narrazione alla sinestesia, al cromatismo, alla musicalità, a un ritmo che varia come le stanze di un componimento. Sembra quasi che la vita di Little Dog proceda a lampi. Della poesia Brevemente risplendiamo sulla terra ha l’intensità, le immagini fulminee, l’incedere frammentato che non rinuncia all’armonia e che anzi proprio nelle spaccature sembra intensificarla. Il libro è strutturato – o destrutturato – per salti quantici da un luogo all’altro, da una memoria all’altra, quasi al lettore fosse interdetto conoscere contemporaneamente posizione e velocità dell’attività mnemonica che ribolle sotto i suoi occhi.
Per questi motivi definire il libro di Ocean Vuong non è semplice: in perpetua oscillazione tra il memoir, il racconto epistolare, il romanzo di formazione e il manifesto poetico, Brevemente risplendiamo sulla terra è prima di ogni altra cosa un’opera complessa. Little Dog, adolescente colto e interessato all’arte, si ritrova a riflettere su una delle più note sculture di Duchamp, la Fontana. È interessante che l’autore riveli come una sorta di astio verso l’artista francese: «Lo detesto per questo. Detesto il modo in cui ha dimostrato che l’intera esistenza di una singola cosa può essere cambiata semplicemente rovesciandola, rivelando un angolo nuovo del suo nome, un atto completato da null’altro se non dalla gravità, la forza che ci intrappola su questa terra. Ma soprattutto lo detesto perché aveva ragione». In qualche modo Vuong compie un’operazione simile generando una mutazione della nozione stessa di lettera. La sua funzione originaria viene oltrepassata e svuotata concettualmente: da missiva indirizzata a qualcuno che si desidera mettere a conoscenza di qualcosa, diviene espediente riflessivo.
Attraverso il fitto dialogo immaginario con la madre, Little Dog conversa con la superficie di uno specchio di quasi trecento pagine, sulla quale si vede crescere e mutare, allontanarsi da casa, affrontare un’educazione sentimentale intensa e traboccante di paradossi, conoscere la droga, conoscere il lutto. La sua è un’esistenza in cui ferocia e dolcezza si mescolano come se l’una non potesse esistere senza l’altra. «Per arrivare all’amore, allora, bisogna passare attraverso l’annientamento», constata Little Dog senza sofferenza e senza giudizio. Grazie al rapporto con Trevor, dapprima compagno di lavoro nei campi di tabacco, poi amico e amante, Little Dog comincia a conoscere se stesso come mai era accaduto prima, definendosi non più per la pigmentazione della pelle o la cadenza della pronuncia, ma in relazione al desiderio: «Venivo divorato, così pareva, non da una persona, non da un Trevor, quanto dal desiderio puro. Essere rivendicato da quel desiderio, essere battezzato dal bisogno assoluto e crudo. Ecco cosa ero». In una dimensione in cui l’unico modo per affermarsi è mortificarsi, Little Dog oltrepassa la soglia delle scuse: sorry non è più parte del suo nome, ci sono altri modi di esistere, di essere necessari. A dispetto dei consigli materni di mantenere un profilo basso e cercare di rendersi invisibile – «già sei vietnamita», non si stanca di ripetergli Rose – Little Dog vuole essere visto, conosciuto, desiderato. Vuole trasformarsi e perdersi nel desiderio stesso, risplendere per un istante anche se questo vuol dire offrirsi ai predatori e consacrarsi come vittima sacrificale.
Per Vuong ogni cosa è parola ed esiste in quanto nominata, battezzata, di conseguenza anche la dimensione anatomica è investita da questo bisogno di essere scritta e parlata. I corpi di Little Dog e Trevor sono corpi semantici, sintattici. La grammatica li compone non meno di ossa, sangue e tessuti. La parola è cruciale al punto che la fine della vita corrisponde alla chiusura della frase. «Non è la cosa più triste del mondo, Ma’? Una virgola costretta ad essere un punto?».
Una libera associazione. Nella lettura del romanzo di Vuong si palesa un lavoro sulla memoria mescolato a una ricerca linguistica di rara intensità. Se quest’operazione ci viene restituita nella versione italiana del libro il merito è da ricondursi naturalmente alla traduttrice, Claudia Durastanti, che durante l’intervista per il Salone di Torino Extra ha sottolineato un parallelismo con un altro libro da lei tradotto, Chthulucene di Donna Haraway (NERO Edizioni). A fare da punto comune tra i due testi è la centralità delle farfalle monarca, per Vuong metafora reiterata nel corso del romanzo, per Haraway soggetto di una novella speculativa in chiusura del suo saggio che racconta un’ipotetica esistenza simbiotica tra i bambini e questa specie di farfalle. In entrambi i casi la scelta di questo specifico tipo di insetto è dettata dalle sue famosissime migrazioni, di cui diviene emblema, poetico e scientifico insieme. Nonostante la coincidenza covi in sé il seme del fortuito, tra questi due libri diversissimi che hanno in comune “soltanto” la traduttrice e la citazione di un preciso tipo di farfalla, potrebbe intercorrere un aggancio più profondo. Donna Haraway intima di «generare parentele, non bambini», alludendo a un mondo di solidarietà ideale in cui il concetto di famiglia sia aperto e multispecie, nutrito di storie e relazioni in perenne movimento, nella costruzione di nuovi modi di vivere su un pianeta danneggiato.
Il nucleo domestico di Little Dog è una realtà piccola ma estremamente stratificata, attraversata da fitte crepe e non pochi danni. Nessun legame è solo qualcosa di dato, ma è soprattutto un’acquisizione, in cui la prossimità, la cura, le memorie condivise hanno stabilito un ecosistema familiare che va ben oltre la mera condivisione del codice genetico. Ne è un esempio il rapporto col nonno americano, col quale non sussiste in realtà alcuna comunanza di sangue: «Guardo il viso di Paul, questo straniero diventato nonno diventato famiglia». Little Dog fa della mescolanza stessa la propria identità: è americano, è vietnamita, omosessuale, artista, figlio, amante e vuole rivelarsi come tutte queste cose insieme, senza dover rinunciare a niente. La storia di Ocean Vuong è unica e privata, ma rappresenta un contributo intimo a una vicenda collettiva. Quella che sentiamo in Brevemente risplendiamo sulla terra è la voce dei nuovi statunitensi e, per esteso, di quelle seconde generazioni che sembrano non riuscire mai a trovare un posto per riposare e invece, forse, sono più forti proprio nella loro assenza di radicamento, nel loro lasciarsi attraversare ma non disintegrare, compositi e abbaglianti.
Messinese, con Marvin ha in comune i tentacoli, la passione per l’acqua di mare e la fame perenne di storie. Convive sin da piccola con la sua grafomania e si allena per diventare campionessa olimpica di apnea libraria.